Silvano Tagliagambe  
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L'URBANISTICA COME QUESTIONE DEL SAPERE


Commento al libro di Carlo Sini e Gabriele Pasqui



Silvano Tagliagambe


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Nella quarta di copertina dell’agile volume di Carlo Sini e Gabriele Pasqui – Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare (Jaca Book 2020) – viene proposta un’affermazione assai impegnativa: “la questione urbanistica è oggi la questione stessa del sapere”. Ci voleva un dialogo tra un filosofo e un urbanista per riuscire a rendere concreta e non fumosa questa premessa/promessa e a farne il motivo conduttore di un libro denso e ricco di spunti di riflessione non solo per quanto riguarda il destino della città, ma anche per una comprensione tutt’altro che superficiale dei nodi cruciali di fronte ai quali si trova oggi l’esistenza di tutti noi.

 

1. L’ontologia delle relazioni

Per onorare la premessa/promessa fatta ai lettori i due autori mettono in chiaro il punto di svolta che è alla base del loro confronto: la tesi di Pasqui, pienamente condivisa da Sini “per molti motivi, anche strettamente filosofici, che prima c’è la relazione, l’essere insieme, e dopo ci sono gli individui. Prima le funzioni, si potrebbe dire, o come diceva già tanto tempo fa Ernst Cassirer, poi le sostanze (o quelle che una volta consideravamo metafisicamente tali”(1).

Per fare di questo presupposto un punto di svolta autentico bisogna però non solo crederci pienamente, andando al di là delle adesioni puramente retoriche che contraddistinguono chi se ne riempie la bocca ma non il cervello, ma accettarne le conseguenze assai impegnative, come Sini mette subito in chiaro: “Le filosofie che non lo vedono (banali empiristi, da un lato; mistici astratti dell’assoluto, dall’altro), le scienze sociali e le scienze umane nella loro presunzione di ‘scientificità’, proprio questo punto, direi, non lo vedono anche quando credono di vederlo. Perché magari lo dicono, che essenziale è la relazione, ma poi in realtà sono degli individualisti ‘selvaggi’; non capiscono che l’individuo è determinato dalla relazione, l’individuo non la determina a priori e a partire da sé. Lo spazio urbano, appropriatamente pensato, si configura allora, nella sua ottica, come una sorta di sostanza trascendentale: così mi pare di capire. È una cura trascendentale che è rappresentata non dalla mera compresenza, ma dalla condivisione”(2).

 

2. Spazialità e spazio

Assumere l’ontologia delle relazioni e farne il filtro cognitivo per capire come si presentino oggi le questioni della città e dell’abitare significa dunque pensare lo spazio urbano nella sua specificità e nel suo carattere trascendentale. Problema, questo, posto al centro dell’attenzione da un altro grande filosofo, Emilio Garroni, con la sua cruciale distinzione tra “spazio” e “spazialità” proposta in apertura della sua voce “Spazialità” dell’Enciclopedia Einaudi. L’esigenza di differenziare questi due termini, e i corrispondenti concetti, viene motivata dall’autore con il fatto che quando si parla di “spazio” sotto il profilo teorico si intende “l’oggetto di una disciplina qualsiasi, anche empirica, una psicologia della percezione o una semiotica degli spazi, la cosiddetta prossemica, che per esempio preveda più strette e continue connessioni con l’esperienza fattuale e però sia volta a descriverlo nei suoi aspetti invariantivi opportuni pur sempre mediante un insieme sistematico di proposizioni, il cui legame sarà in questo caso più costruttivo che formale, ma in ogni caso non sarà determinato dalla pura e semplice registrazione di osservazioni isolate di fatti in ogni senso indipendenti da una teoria e dalle ipotesi di ricerca che essa comporta o ammette. Si dovrà dire allora che esiste non uno spazio, che presupporrebbe uno spazio reale, indipendente da chi lo esperimenta e già determinato nella sua struttura, ma più spazi, per quante definizioni e punti di vista costruttivi sono possibili, nello stesso tempo e/o rispettivamente in relazione alle possibilità formali disponibili e alle tante esigenze esplicative, sulla cui occasione motivante può nascere una costruzione teorica”(3).

Di fronte a questo differenziarsi e articolarsi del concetto di spazio viene spontaneo ed è comunque legittimo chiedersi “se, esistendo tanti spazi per quante sono le definizioni strettamente formali o no di spazio, essi siano – per così dire – estranei gli uni agli altri o se invece non si possa o si debba parlare di qualcosa come di uno ‘spazio comune a tutti gli spazi definibili’. Dove, si badi, si deve intendere con questa espressione non tanto la designazione di una qualità comune e più generica di tutti gli spazi possibili, quanto la messa in rilievo della loro condizione di possibilità: che è un modo non ingenuo, più adeguato, di riproporre il problema ineludibile, anche se in genere mal formulato, del ‘referente’, presupposto sempre, perfino nei suoi usi più ‘astratti’, dal linguaggio. Al fine di distinguere tale ‘spazio comune’ dai tanti ‘spazi comunque definiti’, si conviene qui di chiamarlo appunto ‘spazialità’[]. Cioè propriamente l’‘esser spazio’ dello spazio comunque definito, il suo essere una sua determinazione più originaria o, come si è detto, una sua condizione di possibilità dal punto di vista di un’esperienza in genere, quali che siano le sue determinazioni ulteriori”(4).

Questa distinzione, così chiaramente proposta, ci consente di porre una domanda fondamentale e imprescindibile per inquadrare correttamente il problema della città e della sua sempre più inarrestabile espansione nel territorio: questo processo, per essere adeguatamente compreso, va collocato in questo spazio comune e generico, cioè nella semplice spazialità intesa come qualcosa di primario, o necessita di una sua determinazione ulteriore, cioè del riferimento a uno spazio teorico apposito, lo spazio di un’esperienza differenziata, frutto e risultato della capacità di organizzazione della relazione tra città e territorio in un sistema che costituisca un modo specifico di manifestarsi della spazialità? E, nel caso che quest’ultima sia l’alternativa corretta, di quale spazio deve trattarsi?

 

3. La costituzione dell’idea di spazio

Per rispondere correttamente a questa domanda occorre pensare e ricostruire il modo in cui si costituisce l’idea di spazio, seguendo il percorso proposto dalla ricerca scientifica, in particolare (ma non solo) dalle neuroscienze, e dalla riflessione filosofica più attenta e matura, in questo caso pienamente convergenti nei loro esiti.

Punto di partenza di questa ricostruzione è l’idea, espressa da Maurice Merleau-Ponty in modo straordinariamente conciso ed efficace, che la visione sia “palpazione con lo sguardo”(5). Vedere, secondo questo approccio, pienamente in linea con i risultati delle osservazioni e degli studi non invasivi dei processi cerebrali, non significa generare delle rappresentazioni nel cervello, ma piuttosto qualcosa che un organismo fa, qualcosa che egli compie, un’azione, dunque, un’attività esplorativa dell’ambiente mediata dalla conoscenza delle contingenze sensomotorie.

Questa congruenza della situazione ottica con quella motoria si riscontra, come evidenziano le ecografie, già nell’utero materno. Dopo l’ottava settimana il feto presenta una ricca attività motoria finalizzata: per esempio, dopo l’ottava settimana muove la mano verso la faccia, mentre al sesto mese è in grado di portare la mano alla bocca e di succhiarla – il che dimostra che prima ancora di nascere il bambino dispone di una rappresentazione motoria dello spazio. Una volta nato, i suoi movimenti divengono sempre più finalizzati e riferiti allo spazio che circonda il suo corpo, e ciò costituisce una buona evidenza a supporto dell’idea dell’esistenza di uno spazio peripersonale, codificato in coordinate somatiche, cioè elaborato in funzione del corpo e delle sue possibilità motorie, già avanzata da Ernst Mach e Jules-Henri Poincaré. Come scrive quest’ultimo, infatti, “ci sarebbe stato impossibile costruire” qualcosa come uno spazio “se non avessimo avuto uno strumento per misurarlo” – uno strumento cui poter “rapportare” ogni cosa e di cui potersi servire “istintivamente”, ossia il nostro corpo: “E’ in rapporto al nostro corpo che situiamo gli oggetti esterni, e le uniche relazioni di questi oggetti che ci possiamo rappresentare sono le relazioni con il nostro corpo”(6).

Lo spazio peripersonale viene dunque definito da Poincaré nei termini della mutua coordinazione delle “molteplici parate” rese possibili dalla semplice estensione del braccio: è quest’ultima che ci consente di determinare la distinzione tra vicino (tutto ciò che rientra nel raggio d’azione tracciato da questa estensione e che risulta, quindi, alla portata della mano) e lontano (tutto ciò che è al di fuori di questa portata) e dunque tra spazio peripersonale e spazio extrapersonale. Questa distinzione, tuttavia, “non è definita una volta per tutte, sicché lo spazio che essa descrive non può essere pensato in maniera statica, bensì deve essere concepito in forma dinamica. In altre parole, la distinzione tra vicino e lontano non può essere ridotta a una mera questione di centimetri, come se il nostro cervello calcolasse la distanza che separa il nostro corpo dagli oggetti solo in termini assoluti. Tutto ciò non contraddirebbe soltanto a quel principio di relatività dello spazio caro a Poincaré e decisivo per l’organizzazione dei movimenti da parte del corpo. La stessa organizzazione dei campi ricettivi dei neuroni di F4 e la loro funzione anticipatrice rispetto al contatto cutaneo non risultano compatibili con l’idea di uno spazio peripersonale rigidamente e univocamente fissato”(7). E infatti alcuni esperimenti hanno mostrato come i campi recettivi visivi dei neuroni bimodali della corteccia parietale posteriore della scimmia, che codificano il movimento della mano in modo simile a quanto fanno i neuroni di F4, possano essere modificati da azioni che comportano l’impiego di strumenti. Dopo aver addestrato alcune scimmie a recuperare delle palline di cibo tramite un piccolo rastrello, i ricercatori “hanno notato che durante l’uso ripetuto dello strumento i campi recettivi visivi ancorati sulla mano si espandevano al punto da includere lo spazio interno alla mano e al rastrello – quasi che l’immagine di quest’ultimo fosse incorporata in quella della mano. D’altro canto, quando l’animale smetteva di usare lo strumento, pur tenendolo ancora in mano, i campi ricettivi tornavano alla loro estensione usuale. Il prolungamento della mano determinato dall’impiego del rastrello comportava un ampliamento dello spazio raggiungibile da parte della scimmia, e dunque una rimodulazione di vicino e lontano: i neuroni che si attivano alla presenza di oggetti nello spazio peripersonale rispondevano anche a stimoli che in precedenza non avevano codificato in quanto lontani (ossia fuori dal loro spazio), ma che ora, tramite l’uso del rastrello, diventavano vicini”(8).

Ecco il legame, stretto e imprescindibile, tra questa concezione dello spazio e l’ontologia delle relazioni. Alla luce delle ricerche alle quali ci stiamo riferendo gli oggetti appaiono sempre più come poli di atti virtuali, cioè espressioni della molteplicità delle relazioni che possiamo intrecciare con essi e che pertanto, in virtù dell’intreccio rilevato tra percezione visiva e azione, possono essere visti in modi diversi a seconda del tipo di interazione con essi selezionata e prescelta. E lo spazio risulta “definito dal sistema di relazioni che tali atti dispiegano e che trova nelle varie parti del corpo la propria misura”(9). All’interno di una prospettiva di questo genere i luoghi dello spazio non possono essere intesi come posizioni aventi un significato autonomo e a sé stante, né possono essere concepiti come “posizioni oggettive” in rapporto a una altrettanto presunta posizione oggettiva del nostro corpo, bensì devono essere compresi, come ci insegna Merleau-Ponty, nel loro “iscrivere intorno a noi la portata variabile delle nostre intenzioni o dei nostri gesti”(10).

Il riferimento alle intenzioni evidenzia come noi gestiamo cognitivamente il mondo che ci circonda con operazioni mentali, per cui gli elementi del reale sono per noi non più oggetti cosali, ma, come si è detto, poli di operazioni possibili che possiamo effettuare – correlati di interazioni possibili fra noi (il nostro corpo) e il mondo. Leggere il mondo, in questa chiave, è prefigurare (quasi prescorgere) tutti i progetti d’azione che potremmo intraprendere su di esso, saper combinare senso della realtà e senso della possibilità, riuscendo a stabilire quell'equilibrio armonico tra questi due sensi di cui parla Musil nell'Uomo senza qualità:

"Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora, ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, per esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: be', probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è"(11).

Quest’ottica ci consente di chiarire anche la natura del progetto, che diventa l’espressione di una continua scommessa la quale deve tener conto, ovviamente, dei vincoli posti dalla realtà, ma deve altresì rimanere aperta a uno spettro di possibilità, con le quali giocare, evitando così di cadere nella trappola di un’esaltazione unilaterale dei vincoli a scapito del sistema delle opportunità che dovrebbe restare disponibile una volta che essi vengano definiti e fissati.

 

4. Leggere la città e pensare la sua relazione con il territorio

Possiamo così cominciare a capire, in concreto, cosa significa “leggere la città”. Vuol dire presentire tutti i possibili progetti che ci legano interattivamente alle sue affordances, per dirla con Gibson (12), cioè alle sue “risorse”, agli appigli architettonici, spaziali, funzionali che essa offre alle nostre capacità di percezione, di interpretazione e di azione. Leggere la città è pertanto già progettarla: contiene in sé, ancora una volta e ineliminabilmente, le tracce del progetto.

Allo stesso modo va letto e considerato il rapporto della città con il territorio che la circonda, che deve essere inquadrato, secondo il punto di vista enunciato giustamente da Garroni, non nell’ottica di una spazialità genericamente intesa e non pensata, ma di uno spazio la cui costituzione, come si è visto, rimanda all’orizzonte primario dell’azione e del progetto che è alla base di essa, cioè a quelle “catene d’intervento motorio”, e, più in generale, a quelle capacità di muoverci e orientarci, con i nostri corpi, nello spazio che ci circonda, nonché di afferrare le azioni e le intenzioni altrui. In uno stimolante dialogo tra un neuroscienziato, Jean-Pierre Changeux e un filosofo, Paul Ricoeur, viene sottolineato che proprio queste azioni e intenzioni altrui “contribuiscono a configurare il mondo come un ambiente praticabile, costellato di vie, di ostacoli, in breve, a costituire un mondo abitabile”(13).

Pensare la dilatazione dell’abitare e l’estensione della città nel territorio significa, come prima cosa, collocarle in uno spazio adeguato e loro consono, che è quello intermedio tra i due estremi in gioco, quello del loro confine assunto non come linea di demarcazione netta e invalicabile, ma come interfaccia, cioè come zona cuscinetto a due facce, una orientata verso la dimensione urbana, l’altra verso quella territoriale. Un simile modo di impostare il problema del rapporto tra queste due ultime dimensioni è cruciale per un duplice ordine di motivi

- in primo luogo, perché mette in primo piano la questione dei confini, alla quale ho a suo tempo dedicato un’intera opera per metterne in evidenza le molteplici valenze epistemologiche (14). L’importanza e la funzione imprescindibile del confine dipendono dal fatto che, laddove esso è presente, risultata amplificata e ingigantita la differenza tra le due superfici estese omogenee che esso divide e mette in relazione nello stesso tempo. Le superfici omogenee non convogliano informazioni lungo la loro intera estensione: è soltanto nei bordi, là dove le cose cambiano, in colore, chiarezza, tessitura, struttura o capillarità, che dimora l’informazione. Inoltre dobbiamo ascrivere a esso, come dimostrano le membrane cellulari e la pelle, la capacità di realizzare concretamente anche il più enigmatico processo di alcuni sistemi biologici, quello di un interno che non solo si definisce attivamente rispetto a un esterno, ma riesce, proprio attraverso il proprio confine, a filtrare e a selezionare l’enorme massa di input potenzialmente disponibili, scartando quelli nocivi o ridondanti e lasciando passare invece quelli informativi e funzionali alla conservazione e riproduzione della propria organizzazione interna;

- in secondo luogo, per il fatto che questa prospettiva consente di applicare all’estensione della città nel territorio quello stesso approccio non statico, bensì dinamico che caratterizza la distinzione e la relazione tra vicino e lontano una volta che non le si riduca a una mera questione di centimetri, ma le si faccia rientrare all’interno della questione della disponibilità o meno di strumenti con i quali renderla fluida e adattarla alle diverse esigenze che si prospettano e che si presentano di volta in volta. Nel caso del rapporto tra città e territorio questo strumento non può che essere, ancora una volta, il progetto.

Un progetto che sia all’altezza delle esigenze poste dallo spostamento dei confini tra la città e il territorio deve essere capace non solo di coinvolgere la dimensione fisica e ambientale e quella psichica, culturale e sociale e di tessere e intrecciare una trama di fili di connessione tra questi due mondi contrapposti, ma di attivare un nuovo modo di pensare lo spazio della condizione urbana contemporanea, che consista nel fare in modo che ogni esperienza progettuale, anche la più minuta, a ogni scala di operatività, venga convertita in un'azione che faccia emergere il palinsesto urbano e territoriale, la trama segreta dello spazio-tempo dei grandi segni sia della natura, sia della storia e della cultura. Tradotta nel linguaggio della pianificazione territoriale questa esigenza indica la capacità, da parte delle comunità, di riconoscersi unitariamente rispetto a “luoghi notevoli”, ai quali è legata la loro identità, e che quindi definiscono i confini del loro ambiente di riferimento naturale, sociale e culturale, e di spostare questi confini, proiettandosi su scenari sovra-locali, per costruire nuove solidarietà urbane e nuove forme, più ampie e complesse, di identità. E significa, altresì, la disponibilità di una visione territoriale che si coniughi con una politica di sviluppo locale, mirata a cogliere gli indizi di vitalità dove sono e a metterli in valore, una politica di crescita selettiva basata sui saperi, sul know-how che le stesse comunità hanno saputo sviluppare anche nelle aree meno fortunate e che rappresentano il seme di un possibile riscatto economico e territoriale.

In questo quadro la dilatazione dell’abitare e l’estensione della città nel territorio circostante devono significare, prima di tutto, la proiezione anche al di fuori dei confini tradizionali delle funzioni urbane pregiate, l’istruzione, anche quella di più elevato profilo, la ricerca, la sanità, i complessi infrastrutturali di comunicazione e trasporto, le manifestazioni culturali e commerciali di alto livello, i centri terziari ecc. e di tutti i servizi relativi, attraverso un lavoro di infrastrutturazione capillare che utilizzi in pieno anche tutte le potenzialità delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e delle reti.

Il riferimento, ormai imprescindibile, a queste funzioni ha portato, com’è noto, a una ridefinizione dei concetti di città, o di sistema urbano, che sono stati ripensati accentuandone considerevolmente la componente dinamica, legata all’idea di flusso e di processualità. Non a caso le aree urbane vengono sempre più classificate in base alle seguenti variabili:

a) esistenza e numerosità di sedi direzionali di grandi società;
b) esistenza di un mercato finanziario di livello internazionale;
c) esistenza e numerosità di strutture di ricerca di livello superiore;
d) complessi infrastrutturali di comunicazione e trasporto a livello na­zionale e internazionale;
f) esistenza di funzioni culturali di livello internazionale;
g) esistenza e numerosità di manifestazioni commerciali di livello internazionale;
h) caratteristica della struttura economica regionale;
i) caratteristiche della dinamica demografica;
l) esistenza e intensità di carenze e debolezze nella struttura dell'economia urbana e regionale;
m) caratteristiche delle condizioni residenziali della popolazione;
n) caratteristiche della popolazione rispetto alla dotazione di beni durevoli.

Questi, dunque, sono gli indicatori assunti come privilegiati e prioritari per definire le aree urbane: come si vede essi classificano le città in base, soprattutto, alla loro capacità di produrre servizi e di attivare risorse umane, di far nascere una cultura che tenga conto delle specificità territoriali ma sia anche capace di trascenderle. Come ha sottolineato Cacciari (15), in seguito all’avvento della globalizzazione, che ha accentuato la domanda di comunicazione e di mobilità e sta fornendo gli strumenti e le occasioni per soddisfarla e renderla sempre più agevole e rapida, "la vita urbana non può che svolgersi oltre ogni limite tradizionale, ogni confine dell'urbe. Non sarà mai più 'geometricamente' circoscrivibile. Non sarà mai più 'terranea'. La sua dimensione è mentale. Ma proprio questa va fino in fondo realizzata"(16).

Il territorio, anche quello al di fuori della “città compatta”, deve così diventare il luogo critico di un'organizzazione imperniata sulla circolazione, un punto nodale delle reti che collegano fra loro, in un sistema di interrelazioni sempre più fitto, le diverse aree dell'economia e della cultura del "sistema mondo". In rapporto con questa trasformazione muta lo stesso concetto di "spazio" entro il quale si svolge la maggior parte delle attività di un sistema economico e sociale, che non è più costituito soltanto dalla struttura spaziale effettiva, cioè dalla forma fisica degli insediamenti e delle interazioni, dei flussi visibili di persone, beni e capitali fra i vari punti del sistema. Questo concetto si è invece dilatato fino a coincidere ormai con il reticolo, ben più denso e articolato, dei flussi di comunicazione, che avvolgono in una fitta ragnatela gli operatori del sistema medesimo e lo connettono ad altri sistemi prossimi o remoti, degli scambi immateriali, legati ai sistemi di trasmissione non solo e non tanto di oggetti e prodotti tangibili, ma di conoscenze e informazioni relativi a dati e servizi. Telefonate, invio di telefax, interrogazioni di banche dati, operazioni commerciali e finanziarie si intrecciano lungo le reti di telecomunicazione, originando transazioni sempre più evolute (trasmissioni di immagini fisse e in movimento, teleconferenze, ricerche e attività in comune da parte di operatori remoti, e così via), mano a mano che le telecomunicazioni si coniugano con l'informatica, rendendo disponibile il vasto campo delle applicazioni telematiche. Allo spazio fisico si sovrappone così progressivamente lo spazio virtuale, come rete di interscambio e di cooperazione che si alimenta di una configurazione organizzativa a rete. La crescente interdipendenza tra questi due tipi di spazio, che si intrecciano sempre di più, sta dando luogo a quella che può essere considerata una versione aggiornata e “sui generis” dello spazio intermedio tra materiale e immateriale, vale a dire quello che viene sempre più frequentemente chiamato il “terzo spazio”, che non s’identifica né con lo spazio, né con quello digitale, ma è invece il risultato del prolungamento digitale dello spazio fisico, e che si configura quindi come uno spazio digitale legato senza soluzione di continuità allo spazio reale. Non si tratta, quindi, d’uno spazio virtuale, che vuole riprodurre, attraverso la creazione d’una analogia iperrealista, lo spazio reale e sostituirsi a esso, ma di “uno spazio-soglia”, che include, oltre che informazioni e conoscenze, anche persone reali. Su questo spazio, come hanno evidenziato le ricerche della scuola californiana d’antropologia del lavoro (Lave, Wenger, Brown, Duguid) si stanno infatti insediando diverse comunità professionali, le “comunità di pratica”, come sono state chiamate da questi studiosi, quelle degli stilisti di prodotti industriali, degli architetti, degli ingegneri informatici, degli esperti di marketing, dei “creativi” in generale, secondo la definizione di Richard Florida (17), cioè musicisti, scrittori, designer, avvocati, educatori, esperti di finanza, ricercatori e giovani artisti, i quali lavorano e collaborano “a distanza” eppure in stretto contatto reciproco, mettendo in circolo, attraverso le reti, il sapere, il comprendere e il comprendersi e facendo emergere la progettualità e la creatività dei soggetti, sia individuali che collettivi.

L’estendersi, supportato oggi dai media wireless, della possibilità di comunicazione continua di tutti con tutti, al di là dei tradizionali schemi uno-a-uno e uno-a-molti, produce modalità di diffusione, nelle quali la trasmissione del messaggio-del messaggio-del messaggio dà luogo a un genere di spazio sociale che si moltiplica, che è infinito. Si tratta di un tipo di spazio frattale, che rappresenta la maggiore combinazione di presenza fisica e di comunicazione remota mediata dalle tecnologie attualmente disponibile e che evidenzia la necessità, ormai ineludibile, di pervenire a una ridefinizione di concetti quali quello di “abitare”, di “territorio” e di “sistema urbano”. Come gli architetti hanno sempre influenzato ed esteso la nostra percezione dello spazio fisico usando la luce o il suono, o la sequenza dinamica di ambienti con differenti proporzioni, allo stesso modo le reti e i mezzi interattivi e i sistemi di telecomunicazione, relativi ai dispositivi mobili e ai media senza fili, stanno sempre più incidendo sulla nostra organizzazione dello spazio, provocando un aumento di quest’ultimo e l’esigenza, come si diceva, di ripensarlo e di giungere a nuove forma e modalità di inquadramento teorico di esso.

L’ibridazione e la fusione tra il mondo reale e il suo potenziamento virtuale, grazie al quale si può avere un significativo arricchimento della realtà con informazioni utili per l'espletamento di compiti complessi, richiede un progetto capace di riferirsi al rapporto tra uomini e luoghi nella sua globalità, di investire e coinvolgere un ambiente sempre più complesso e dilatato e di dispiegarsi alle diverse scale di opera­tività, superando le tradizionali distinzioni e gerarchie.

L’espansione dell’abitare e la crescente “penetrazione” della città nel territorio esigono così una concezione costruttivistica e non rap­presentazionale del progetto, in grado di coniugare, come si è detto, “senso della realtà” e “senso della possibilità”, cioè di spingere le comunità all'esplorazione di "mondi possibili" da avverarsi con il sostegno di "architet­ture" a differenti scale di operatività; "architetture" che non sono semplici edifici, ma che vanno immaginate come determinati singoli com­plessi di relazioni, atti e processi, concreti o virtuali, che conferisco­no senso urbano a un luogo.

Questi "mondi possibili" esprimono le aspirazioni, le speranze, i desideri e gli impulsi di modificazione del loro ambiente e del loro vissuto dei soggetti individuali e collettivi. Essi incidono sulla percezione dello spazio e favoriscono il superamento, da parte delle disci­pline "analitiche", di una visione tutta concentrata sull'esame di un mondo ontologicamente dato, per indirizzarsi verso l'esplorazione delle possibilità dinamiche ed evolutive della realtà. Ovviamente non tutti si realizzano, solo quelli che riescono a raggiungere e a mantenere un equilibrio attivo e dinamico con la realtà medesima, anche se non è facile, cioè a non rimanere al di sotto di essa, con la rassegnazione, e a non spingersi tanto al di là dei suoi confini, da assumere i contorni di un’utopia astratta e irrealizzabile. Il progetto dell'insediamento umano, in tutti i suoi aspetti e le sue varianti, anche in quelli che riguardano il complesso rapporto tra città e territorio, non può infatti che procedere dalla realtà, entro uno sfondo condiviso di credenze, conoscenze, obiettivi e valori che costituisce il "principio di coesione" del progetto medesimo e viene interpretato e disvelato attraverso il confronto del sapere disciplinare – e dei differenti saperi che vi interagiscono – con il sapere comune degli uomini che abitano un territorio.

 

5. L’occhio e il cervello

Qui subentra un ulteriore nodo cruciale affrontato dal libro di cui stiamo parlando, messo chiaramente in evidenza da Pasqui, il quale parla in proposito dell’altra faccia del processo fin qui analizzato, sottolineando giustamente che “non sono due processi in contraddizione fra loro”, in quanto “dentro questi agglomerati urbani sempre più diffusi, sempre più grandi, si produce la compresenza di una varietà di forme di vita che sono sempre più prossime le une alle altre e spesso costrette alla vicinanza, ma che esprimono per esempio modi d’uso dello spazio pubblico, forme di organizzazione della relazione fra spazio e società che sono molto differenti”(18), e anche in conflitto reciproco. Di conseguenza, “la città è sempre, necessariamente, un luogo non pacificato, un luogo di dissidio”(19).

Ne scaturisce l’esigenza di affrontare la sfida dell’integrazione di queste differenze e di questi conflitti, dato che sarebbe non solo eticamente inaccettabile, ma anche del tutto irrealistico e comunque assai rischioso puntare su una qualche forma e modalità di emarginazione. Ciò significa accettare che la città viva (e soffra) di contrapposizioni tra esigenze, domande, funzioni, interessi che si pongono come antitetici e mutuamente esclusivi. La scommessa insita in questa sfida è la fiducia nella capacità, da parte della città sociale, di mediare e trovare via via nuovi equilibri, diventando luogo di «trascodifica» dell’informazione”(20).

Quest’ultimo concetto è particolarmente importante e funzionale all’analisi qui svolta, in quanto segnala il fatto che “la visione condivisa non è un progetto compiuto a tavolino, tanto meno da tecnocrati illuminati e paternalistici, ma una costruzione sociale che risulterà valida solo se valicata dalla ricchezza delle interazioni, delle sperimentazioni, delle progettazioni di settore. Per questo nella pianificazione strategica la visione appare logicamente come presupposto e storicamente come esito dell’intero processo di governance metropolitana”(21).

Per questi aspetti la trascodifica, che assume la città come espressione della differenza, della molteplicità delle diverse voci che vi abitano e afferma con decisione l’esigenza che, da queste voci e dal loro incontro/scontro, si riesca a far emergere una convergenza, o quanto meno un equilibrio che renda possibile la convivenza, allontanando la tentazione che le diverse voci hanno di contrapporsi ed elidersi, è agli antipodi di quella che possiamo chiamare la “logica dell’utopia”. Nelle diverse forme ed espressioni in cui quest’ultima si manifesta, non a caso, è presente il dono delle lingue, ma mai la figura del traduttore. E questo è sintomatico, in quanto solo a partire dai problemi della traduzione può essere pensata e realizzata, come sottolinea Walter Benjamin in un saggio dal titolo Il compito del traduttore, incluso nella sua traduzione dei Tableaux Parisiens di Baudelaire (22), la possibilità di “farsi abitare davvero dai vari linguaggi”, rispettandone le differenze per non “comprimere” la loro molteplicità e la complessità interna di ciascuno di essi e non ridurre la dignità delle varie voci differenti sotto una tolleranza che rischia di risolversi in assimilazione. Una logica della trascodifica può quindi e deve essere vista come una sorta di rovesciamento della logica di Utopia. Gli abitanti di quest’ultima credono di essere i portatori dell’unica prospettiva possibile ed efficace, della sola via per comprendere il mondo e i suoi enigmi. Per questo essi sono orientati all’assimilazione delle altre culture, piuttosto che alla loro effettiva comprensione (23).

Acquisire, a livello locale, questo funzione di trascodifica dell’informazione e di una sua convergenza verso un pacchetto di premesse, di valori e di obiettivi in grado di diventare i cardini di uno sfondo condiviso circa il suo sviluppo futuro significa, per la città, predisporsi e attrezzarsi, attraverso un approccio integrato al governo delle relazioni complesse che intercorrono al suo interno tra dinamiche economiche, sociali, culturali e ambientali, ad affrontare le problematiche di posizionamento strategico nel contesto dell’economia mondiale. Significa, altresì, acquistare un nuovo modo di vedersi e di vedere il mondo, in cui i problemi non sono causati da eventi isolati, ma da interdipendenze sistemiche che occorre riconoscere per costruire un’architettura organizzativa fondata su valori e idee guida in qualche modo convergenti.

La trascodifica è il presupposto necessario della coesione, cioè del raggiungimento di quel valore che parte dal riconoscimento del fatto “che la città è costruita di differenze, economiche e culturali, di specificità residenziali e occupazionali, di tempi variabili e spesso sovrapposti e intrecciati; è piena anche di patologie sociali diversificate, di mali cronici, di livore, di ostilità fra gruppi costretti a interagire in spazi necessariamente condivisi”. In questo quadro puntare alla coesione significa comprendere che “le differenze possono evolvere verso una polarizzazione tra incompatibili, o essere curate e valorizzate come risorsa della città plurale, che può garantire a tutti quanto basta e – se ancora non vi riesce – si impegna a ricucire i bordi lacerati, a recuperare i margini, a riconnettere costantemente centro e periferia”(24). Eccolo il “confine che prende forma” e si materializza in questo lavoro di ricucitura dei bordi, guidato dalla convinzione che “la città non coesa è brutta, sporca, cattiva, diventa invivibile anche per i privilegiati, diventa anche inefficiente e improduttiva. La città coesa – che sta sul sentiero virtuoso della coesione come impegno permanente – si arricchisce di possibilità, è molto più aperta al globale e al diverso, è la città giusta, che gode di giusta fama”(25). Tuttavia, è il caso di ribadire, ancora una volta che “condividere non ha niente a che fare con l’unanimità, bensì con l’elaborazione delle differenze e la costruzione di una società plurale. [] Il conflitto deve tradursi in negoziato e questo non deve essere un compromesso spartitorio, ma apprendimento di preferenze migliori e abbandono delle cattive abitudini. Per questo ci vogliono sedi, momenti, comunicazione, basi di dati per la decisione, formalizzazione di alternative, valutazione. Si deve arrivare a riconoscere che nella città sono presenti legittimamente tanti interessi contrapposti e anche diverse culture di uso della città, che devono trovare tempi e spazi di contemperamento. Nessuna città è monocorde, ma ciascuna ha invece più di una vocazione e di una potenzialità. Ci deve essere riconoscimento e riconoscibilità per tutte”(26).

La coesione, anche se è riconoscimento e valorizzazione delle differenze e non implica omogeneità né, men che meno, standardizzazione, è però agli antipodi delle diffuse tendenze alla dispersione urbana, senza limiti e senza coerenza interna, determinate dalla “crescente doppia velocità urbana che si manifesta sia nel tessuto denso della metropoli, dove quartieri centrali o pericentrali valorizzati da grandi progetti di sostituzione funzionale si oppongono a quartieri marginali, abbandonati al progressivo degrado economico, sociale e ambientale; sia nel territorio periurbano, sempre più caratterizzato da «spiriti di eccellenza» e «spiriti di declino». In entrambi i casi, le scelte delle amministrazioni locali, in assenza di quadri di riferimento condivisi definiti a livello sovralocale, hanno spesso privilegiato pratiche di interazione pubblico/privato molto selettive, e sono state prevalentemente condizionate dalle propensioni e aspettative del mercato immobiliare”(27).

A queste tendenze bisogna contrapporre la valorizzazione di una progettualità basata sulla individuazione di grandi obiettivi condivisi e sulla conseguente definizione di “assi strategici” riguardanti la città e il territorio circostante e orientati all’innalzamento del livello della qualità urbana. Questo tipo di progettualità ha poco a che fare con i “bei progetti” o i “grandi progetti” ai quali sempre più frequentemente ci si affida come “fiori all’occhiello” per rispondere all’imperativo del miglioramento dell’immagine e del posizionamento competitivo della città. Questi ultimi, infatti, nel migliore dei casi, appagano l’occhio, mentre la progettualità alla quale si fa qui riferimento è il risultato di “un esercizio argomentato e «inclusivo» di immaginazione collettiva, volto a costruire scenari qualitativi alternativi, individuare i grandi obiettivi e le principali linee di forza dell’azione di piano con essi coerenti, valutarne ex ante gli esiti possibili”(28).

Questa differenza è fondamentale e merita di essere approfondita. In gioco qui è una diversità di approccio e di orientamento che, per semplificare, in prima approssimazione possiamo esprimere con il riferimento alle coppie opposizionali “occhio/cervello” e “rappresentazione/argomentazione”. I “bei progetti”, le grandi opere di radicale sostituzione funzionale e sociale in aree dimesse, gli “edifici-simbolo” che ambiscono a “catturare” e a “condensare” l’immagine della città, diventando una sorta di icona, di raffigurazione stenografica della sua identità, si rivolgono all’occhio. Quest’ultimo, come osserva Donolo, “è cosciente, ma nella città frammentata e dispersa gli sguardi divergono, le immagini non sono sovrapponibili, l’occhio non ha una coscienza comune (gli sguardi non devono coincidere in una unanimità comunitaria, ma devono individuare le aree di possibile, tollerabile e desiderabile sovrapposizione)”(29). La progettualità della quale si sta parlando qui è, invece, una strategia, un processo di comunicazione, argomentazione, ragionamento, valorizzazione del possibile, anticipazione del futuro e dell’inatteso che può essere chiamata “visione”, intendendola però non come “sguardo”, bensì come opera e azione di carattere razionale, che fa riferimento al cervello nel suo complesso, e non al solo occhio. Essa “va costruita interpretando i segnali offerti dagli attori e dalle stesse derive che investono quartieri, attività, usi della città. La visione nasce dall’ermeneutica delle buone pratiche, dall’identificazione di quelle cattive e dannose per la città. [] Utile per la visione che ci sia qualche visionario, che guardi lontano, a qualche utopia urbana. Importante che non sia lasciato solo con le sue allucinazioni e le sue profezie”(30).

Questa contrapposizione tra “rappresentazione” e “visione” (nel senso in cui questo termine è stato definito e viene qui usato) può essere ulteriormente compresa e approfondita concentrando l’attenzione sulla teoria dei sistemi autopoietici di Maturana e Varela, la quale esalta la capacità delle organizzazioni biologiche e cognitive di produrre e "informare" (nel senso di conferire forma e ordine) l'ambiente circostante, come dominio di distinzioni inscindibile dalla struttura incarnata del sistema medesimo, anziché limitarsi a rappresentarlo e rifletterlo.

Una volta che ci si ponga in questa prospettiva il problema della percezione non può più venire inquadrato esaustivamente nei termini di ricezione indifferenziata di informazioni provenienti da un mondo dotato di proprietà date e ricostruibili. La percezione da questo punto di vista non è un qualcosa che si dirige verso un mondo pre-definito e indipendente dal percepente, ma è invece il risultato di un'attività che si basa sulla struttura senso-motoria, percettiva e cognitiva dell'agente. Come rileva F. Varela: " Qualora [...] tentassimo di risalire alla fonte di una percezione o di un'idea, ci troveremmo in un frattale in continuo allontanamento, e dovunque decidessimo di scavare ci imbatteremmo sempre in una dovizia di dettagli e di interdipendenze. Si tratterebbe sempre della percezione di una percezione di una percezione... O della descrizione di una descrizione di una descrizione... Non c'è un punto in cui possiamo calare l'àncora e dire: 'la percezione comincia qui; comincia in questo modo' "(31).

I “bei progetti” e la sollecitazione dell’occhio, piuttosto che del cervello, che ne costituiscono spesso, esplicitamente o implicitamente, il punto di forza, sono invece orientati a una concezione rappresentazionale di un mondo già dato, alla volontà di rappresentare l'instabilità della città metropolitana, nel senso che l'architet­tura tende a riflettere, rappresentare appunto, l'incertezza della città contemporanea. Se ci si riferisce, ad esempio, a Rem Koolhaas, che è certamente uno degli studiosi più impegnati nel rinnovamento della cultura architettonica contemporanea, si può certo affermare che dalla sua esperienza emerga una posizione rappresentazionale. Anche se viene interpre­tata attraverso una tensione orientata a rispondere alla sfida della città diffusa contemporanea, tale posizione è leggibile sia nelle "celebrazioni del caos" in Euralille, dove riflette la cultura della congestione contemporanea attraverso l'eterogeneità programmata dell'intervento urbano, sia nel suo "modernismo criti­co", in quanto rappresentativo della rivoluzione spazia­le del Movimento Moderno, a Villa dall' Ava a St.Cloud (Parigi) e al Kunsthal di Rotterdam. Va tuttavia segnalato che lo stesso Koolhaas mostra nelle posizioni più recenti un atteggiamento maggiormente orientato alla ricerca di un ruolo dell'architettura che contribuisca a un ordine pur minimale dello spazio urba­no. La suggestione delle "forteresses de l'architecture", richiamata da Koolhaas per significare nuclei rilevanti dotati di senso urbano, al di là della retorica della metafora, sta a dimostrare uno sposta­mento non trascurabile in questa direzione, rispetto alle posizio­ni classiche del decostruttivismo(32).

Crediamo che qui si tocchi, effettivamente, un punto di importanza fondamentale. Se si conferisce valore assoluto al contesto spaziale e al territorio, se si ritiene che esso "comunichi" di per sé, indipendentemente dai significati storici di cui si è venuto via via caricando in seguito all'esperienza accumulata e alle tradizioni di chi lo ha abitato e dalle esigenze di chi vi è insediato attualmente, se si è convinti che da esso provengano stimoli che sollecitano risposte univoche, ad affermarsi non può che essere la tendenza a riflettere questo suo "impatto" comunicativo, ontologicamente dato, fissandolo in immagini mentali a cui, dal punto di vista assunto, sembra del tutto legittimo conferire lo stesso significato assoluto. Le cose non cambiano se varia l'oggetto al quale vengono riferite le rappresentazioni, se cioè anziché essere il mondo fisico diventa un ordine sociale, o, come nel caso di rilevanti espressioni del Movimento Moderno, concetti spaziali tesi a rappresentare, attraverso un'astrazione concettuale, una forma di razionalità forte rispetto al senso della spazialità umana in una determinata epoca. In tutti questi casi si è comunque in presenza di una posizione rappresentazionalista che si richiama ad una forma classica dell'analisi di matrice razionalista, in cui la rappresentazione viene intesa come una costruzione ideale dell'osservatore e il metodo come verifica della coerenza logica e controllo della loro significatività empirica(33).

 

6. Urbs e Civitas

Un altro punto di estremo interesse toccato dal libro di Sini e Pasqui è la piena consapevolezza, che in esso traspare, della fallacia dell’illusione, tipica del Movimento Moderno, che il miglioramento dell'urbs, della città costruita e compatta, determini automaticamente il miglioramento della civitas, della città come comunità e come sfera pubblica. Questa consapevolezza viene enunciata esplicitamente sostenendo l’esigenza di “abbandonare l’idea secondo la quale il progetto dello spazio, la configurazione fisica degli spazi urbani determini i comportamenti individuali e sociali. Questo è talvolta il sogno degli architetti e degli urbanisti, ma è davvero un sogno (qualche volta anche un incubo)”(34).

La denuncia di questa illusione è uno dei motivi conduttori di People and Space. New Forms of interaction in City Project, il libro che Giovanni Maciocco e io abbiamo scritto insieme nel 2009 (35), nel quale si sottolineava come essa abbia provocato la concentrazione di tutti gli sforzi e gli interessi su un tipo di pianificazione che, disinteressandosi del rapporto specifico con i luoghi come contesti determinanti di cultura, tradizioni, storia, costumi, abitudini, ha avuto il duplice effetto di trasformare le città in non-luoghi e di smarrire ogni interesse per la pòlis come referente privilegiato dell’azione politica.

Sul piano politico questa crisi della civitas si è tradotta nella rinuncia a impegnarsi a raccogliere, dopo averlo coltivato, il consenso popolare attorno a una progettualità (ormai inesistente), con conseguente concentrazione, in modo esclusivo, sulla soddisfazione delle rivendicazioni di una soggettività irrelata, individualizzata e ripiegata su di sé, ossia preoccupata di far valere, a seconda del contesto, il proprio godimento, la propria egemonia, una richiesta di riparazione per le proprie frustrazioni. Ne sono scaturiti due processi involutivi i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti: la deriva demagogica della politica, col risultato di limitarsi ad assecondare l’umore popolare del momento, e quella speculativa dell’economia, con il disprezzo verso tutto quanto ostacoli la libera affermazione e il domino delle élites. Per un verso, l’arte di compiacere le aspettative del demos e, per l’altro, l’insofferenza verso norme e divieti.

La crisi delle forme tradizionali di mediazione sociale, testimoniata dalla sempre più palese insofferenza per il faticoso ma imprescindibile lavoro della negoziazione tra i diversi interessi in gioco, sposta il baricentro dell’interesse e dell’azione politica dalle istituzioni, come il Parlamento, alla comunicazione mediatica, palcoscenico ideale per una recita a soggetto. Con la crisi della politica viene sempre più compromessa la mediazione necessaria alla socializzazione. L’illusione tipica del modernismo si è così tradotta nell’abbaglio di far vivere un soggetto a pretese totalizzanti, privo degli argini dettati dal vivere-in-comune. Siamo tutti sempre più soli e isolati, nonostante la pletora e la potenza degli odierni mezzi comunicativi.

Di fronte a questa situazione non ci si può tuttavia limitare alla denuncia: occorre, come faceva appunto il libro scritto in comune con Maciocco, proporre in concreto un recupero della fluidità sociale a partire dalle situazioni dove sono presenti embrioni di civitas, cellule staminali di cittadinanza che si manifestano con pratiche sociali inedite. Queste situazioni sono gli spazi intermedi, dei quali non a caso mi sto occupando da tempo in molti miei scritti, che si presentano in forme che associano urbs e civitas – spazi fisici e spazi di possibile coesione sociale – in modi originali, attraverso pratiche sociali dello spazio non convenzionali, come avviene nelle periferie, nelle banlieue, in tutti quegli spazi della città non ancora consolidati e definiti e che sono per questo in attesa di altri significati.

In questo senso è cruciale il ruolo dei soggetti senza voce o soggetti di confine, che vivono appunto in questi spazi intermedi: soggetti considerati a torto marginali, che costituiscono ed esprimono le minoranze della città, di una città che non ha più una maggioranza coesa e consolidata.

Per riprogettare la città come civitas occorre dunque assumere il concetto di minoranza come punto di vista esterno e alternativo a quelli tradizionali, dando voce ai soggetti più deboli e indifesi e prendendo le distanze da ogni tentazione di imboccare la scorciatoia di un passaggio in qualche modo lineare della politica dalla pianificazione astratta e a tavolino all’attuazione senza mediazione e senza partecipazione. Solo partendo da questo concetto la politica può tornare ad assumere il compito di far emergere valori condivisi e di generare nuove istituzioni, senza procedere nella direzione di una sintesi politica nel senso usuale – del partito, del sindacato o di qualsivoglia altro soggetto collettivo tradizionale – per cominciare invece a cogliere e a tessere un processo di diffusione a rete e di passaggio da uno spazio, quale quello attuale, di reciproca estraneità a un processo di convergenza e di intersezione di microstrutture politiche e sociali, che è l’unico punto di partenza oggi possibile per ricominciare a rimettere la storia in cammino.

 

7. La trascodifica diacronica

Accanto alla funzione di trascodifica sincronica, alla quale ci siamo ampiamente riferiti, il libro di Sini e Pasqui invita, in modo convincente, a prendere in considerazione l’esigenza, da parte delle città, di assolvere un’altra funzione di trascodifica, questa volta diacronica, che chiama in causa e pone in primo piano il riferimento alla memoria e alla collaborazione tra l’urbanistica, e le conoscenze scientifiche in generale, e i saperi umanistici. È un riferimento con il quale mi pare giusto terminare questa mia lettura in quanto il volume che l’ha occasionata a sua volta, nelle sue pagine conclusive, ricorda la funzione di Mechrì, l’associazione-laboratorio di filosofia e cultura attiva a Milano da sei anni, del cui Comitato scientifico sono membri sia Sini, sia Pasqui, la quale “propone a tutti i soci dei percorsi di formazione permanente sulla base dell’idea di trans-disciplinarità. Non semplicemente un confronto inter-disciplinare, ma la ricerca assidua di una compenetrazione reciproca delle pratiche e dei saperi (umanistici, scientifici, artistici, letterari) che sia oltre l’ossessiva specializzazione che oggi frammenta la cultura e non rende più possibile un sapere comune”(36).

Proposito lodevole e assolutamente condivisibile che, per quanto riguarda le tematiche affrontate dal libro, si traduce nell’esortazione di Pasqui a tener presente quanto “la vecchia, antica città” sia “il luogo in cui va esercitata e sollecitata la memoria (e la città storica italiana è in questo senso paradigmatica). Si fa sempre più urgente la necessità di accompagnare l’universalizzazione dell’uomo sul piano tecnologico, che è ormai inarrestabile (e non si vede perché dovremmo arrestarla, se è di fatto l’unica via di soluzione concreta dei nostri problemi), si fa urgente, dicevo, la necessità di accompagnare questa universalizzazione con la particolare ricostruzione genealogica della propria memoria storica, il che non significa banalmente storiografica. Si tratta piuttosto della memoria dell’evoluzione dell’uomo attraverso lo strumento comune del linguaggio, dei discorsi, delle scritture, così come sono comparsi nelle varie culture della terra, cioè quali esempi di umanità in cammino: una grande storia ‘universale’ che tutti ci accomuna. Un grande lavoro ‘umanistico’ che vedo purtroppo molto lontano sia da come è organizzato oggi il lavoro nelle nostre università, completamente arrese alla imitazione della organizzazione e della mentalità delle facoltà scientifiche e dell’internazionalismo all’americana (le scienze umane, nel loro scimmiottamento del ‘metodo scientifico’, sono oggi le peggiori); sia molto lontano da come la pubblica amministrazione gestisce lo spazio urbano delle città storiche, lasciandolo sostanzialmente in mano alle malefatte del turismo di massa, agli ‘eventi’ imbecilli delle mode e simili”(37).

Pienamente pertinente, e coerente con l’analisi condotta, questo richiamo al fatto che le città storiche italiane (ma non solo esse, ovviamente) con loro memoria, con il loro tessuto urbano, con i loro monumenti e con le vestigia del loro passato costituiscono un concentrato di densità di tutte le epoche della storia che hanno attraversato, che trovano in esse un loro peculiare “sfondo condiviso” e una sorta di traduzione realizzata, e quindi di trascodifica diacronica, appunto, tra fasi storiche differenti. Potremmo per questo dire che l’identità e la specificità di queste città, ciò che le caratterizza e che rappresenta il loro tratto distintivo, sta proprio nel fatto di trovarsi nel punto di incrocio fra la trascodifica sincronica e quella diacronica. Questo le rende, di fatto, una rassegna “a cielo aperto” delle best practices che storicamente si sono succedute e di quelle che attualmente si propongono come tentativi di risposta al grande problema del confronto e del dialogo tra prospettive, esperienze, stili di vita e di pensiero differenti e, magari, confliggenti: un grande laboratorio storico e naturale senza pari di quale dovrebbe essere la città del futuro e di quali sono le grandi questioni con le quali essa si deve necessariamente misurare, a partire dalla multiculturalità, passando attraverso la gestione della mobilità e del sistema dei trasporti e dei servizi alla persona e ai soggetti collettivi in generale, per arrivare al dilemma della costruzione e del rimodellamento della comunità nelle città nella prospettiva (tutt’altro che semplice e a portata di mano) di un amalgamarsi culturale veicolato da un ambiente urbano e da un tessuto di esperienze e di vissuti comuni.

Silvano Tagliagambe

 

 

 

 

 

Note:
1) C. Sini e G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare, Jaca Book 2020, p. 55.
2) Ivi, pp. 55-56.
3) E. Garroni, “Spazialità”, Enciclopedia, vol 13, Einaudi, Torino, 1981, p. 244.
4) Ivi, pp. 244-245.
5) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965.
6) H. Poincaré, Pensieri ultimi, tr. it. In Opere epistemologiche, a cura di G. Boniolo, Piovan, Abano Terme, 1989, vol. 1, p. 217.
7) G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 71.
8) Ivi, pp. 72-73.
9) Ivi, p. 74.
10) M. Merleu-Ponty, La fenomenologia della percezione, cit., p. 199 (il corsivo è mio).
11) R. Musil, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1957, p. 12.
12) J.J. Gibson, The Ecological Approach to Visual Perception, Houghton Mifflin, Boston 1979 (tr. it. Un approccio ecologico alla percezione visiva, il Mulino, Bologna 1999).
13) J.P. Changeux, P. Ricoeur, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Raffaello Cortina, Milano, 1999, p. 162.
14) S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997. Nuova edizione con Introduzione inedita pp. V- LIV (ottobre 2017), Polyhistor - New Press Edizioni, Como-Lecco 2017.
15) M. Cacciari, Ethos e Metropoli, 'Micromega', n. 1.
16) Ivi, p. 44.
17) R. Florida, The rise of creative class, New York, 2000 (tr. it. L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano, 2003).
18) C. Sini e G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono, cit., p. 38.
19) Ivi, p. 59.
20) R. Camagni, Piano Strategico, capitale relazionale e community governance, in T. Pugliese, A. Spaziante, a cura di, Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 95.
21) C. Donolo, Partecipazione e produzione di una visione condivisa, in T. Pugliese, A. Spaziante, a cura di, Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, cit., p. 111.
22) Il saggio Il compito del traduttore è contenuto nella raccolta W. Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino, 2006.
23) Sulla contrapposizione tra “logica della traduzione” e “logica di Utopia” meritano di essere segnalate le penetranti osservazioni di A. Aresu in Filosofia della navigazione, Bompiani, Milano, 2006, pp. 101-104.
24) Ivi, p. 112.
25) Ibidem.
26) Ivi, pp. 113-114.
27) M. C. Gibelli, Flessibilità e regole nella pianificazione strategica: buone pratiche alla prova in ambito internazionale, in T. Pugliese, A. Spaziante, a cura di, Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, Franco Angeli, Milano 2003, p. 57.
28) Ivi, p. 60.
29) C. Donolo, Partecipazione e produzione di una visione condivisa, p. 114.
30) Ibidem.
31) F. Varela, Son le tue orme la via, in W.I. Thompson (a cura di), Ecologia e autonomia, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 269.
32) Cfr. R. Ingersoll, Rem Koohlaas e l’ironia (1994), in ‘Casabella’, n. 610, marzo 1994; Rem Koohlaas, Six inter­views d'architectes, in ‘Le Moniteur Architecture’, Centre Georges Pompidou, 1994..
33) Cfr. P.C. Palermo, Interpretazioni dell'analisi urbanistica, Angeli, Milano, 1992, p. 12.
34) C. Sini e G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono, cit., p. 40.
35) G. Maciocco, S. Tagliagambe, People and Space. New Forms of interaction in City Project, Springer-Verlag Berlin, Heidelberg, New York, 2009.
36) C. Sini e G. Pasqui, Perché gli alberi non rispondono, cit., p. 85.
37) Ivi, pp. 80-81.

 

 

 

N.d.C. Silvano Tagliagambe, professore emerito di Epistemologia del progetto dell'Università di Sassari, ha insegnato Filosofia della Scienza nelle università di Cagliari, Pisa, Roma "La Sapienza" e Sassari.

Tra i suoi testi più recenti: Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello (Raffaello Cortina, 2002); Come leggere Florenskij (Bompiani, 2006); Lo spazio intermedio (Università Bocconi Editore, 2008); con G. Maciocco, People and Space. New Forms of interaction in City Project (Springer-Verlag, 2009); Identità personale e neuroscienze, in S. Rodotà, M. Tallacchini, Trattato di Biodiritto. Ambiti e fondi del Biodiritto (Giuffré, 2010, pp. 323-360); con A. Malinconico, Pauli e Jung. Un confronto su materia e psiche (Raffaello Cortina, 2011); con D. Antiseri e P. Maninchedda, La libertà, le lettere, il potere (Rubbettino, 2011); Il cielo incarnato. L'epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij (Aracne, 2013); con A. Malinconico, Jung e il Libro Rosso. Il Sé come sacrificio dell'io (Moretti&Vitali, 2014); Il nodo Borromeo. Corpo, mente, psiche (Aracne, 2015); con F. Merlini, Catastrofi dell'immediatezza. La vita nell'epoca della sua accelerazione (Rosenberg & Sellier, 2016); con G. Rispoli, La divergenza nella Rivoluzione. Filosofia, scienza e teologia in Russia (1920-1940) (Ed. La scuola, 2016); Epistemologia del confine (New Press, 2017); Oltre il muro di pietra. La concezione antinomica della verità in Florenskij alla prova delle neuroscienze (Insedicesimo, 2017); Lo sguardo e l'ombra (Castelvecchi, 2017); Il paesaggio che siamo e che viviamo (Castelvecchi, 2018); Placido Cherchi. La cultura dell'ologramma (Il Maestrale, 2018); con A. Malinconico, Tempo e sincronicità. Tessere il tempo (Mimesis, 2018); con G. Biggio e D. Sirigu, Metamorfosi. Cervello in divenire, benessere psicofisico e nuove strategie terapeutiche (Mimesis, 2019); Come in uno specchio. Il cervello e il suo ambiente (Mimesis, 2020); con P. Bartolini, Per una filosofia del tra. Pensare l'esperienza umana sulla soglia (Mimesis, 2020); con E. Facco, Ritornare a Ippocrate. Riflessioni sulla medicina di oggi (Le Monnier Università, 2020)

Per Città Bene Comune ha scritto: Senso del limite e indisciplina creativa (28 aprile 2017) ora in: R. Riboldazzi (a cura di), Città Bene Comune 2017. Leggere l’urbanistica per immaginare città e territori, Edizioni Casa della Cultura, Milano 2018, pp. 138-152.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

19 MARZO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021:

G. Consonni, La coscienza di luogo necessaria per abitare, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

E. Scandurra, Nel passato c'è il futuro di borghi e comunità, commento a: G. Attili – Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni (Quodlibet, 2020)

R. Pavia, Roma, Flaminio: ripensare i progetti strategici, commento a: P. O. Ostili (a cura di), Flaminio Distretto Culturale di Roma (Quodlibet, 2020)

C. Olmo, La diversità come statuto di una società, commento a: G. Scavuzzo, Il parco della guarigione infinita (LetteraVentidue, 2020)

F. Indovina, Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città, commento a: G. Amendola (a cura di), L’immaginario e le epidemie (Mario Adda Ed., 2020)

G. Dematteis, Il territorio tra coscienza di luogo e di classe, commento a: A. Magnaghi, Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020)

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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