PER EUGENIO CURIEL A 75 ANNI DALL’ASSASSINIO

Una figura di spessore inconsueto che assunse i tratti del mito

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Oggi, 24 febbraio, ricorrono esattamente 75 anni dall’assassinio di Eugenio Curiel. Venne ucciso a poca distanza da qui, in pieno centro di Milano, nei pressi di Piazzale Baracca.

Aveva 33 anni: una vita breve, brevissima, ma talmente intensa che offre ancora oggi tanti spunti di riflessione.

Curiel nacque in una famigli ebraica triestina, studiò ingegneria e fisica, si laureò brillantemente e ricevette un incarico universitario in fisica teorica. Lavorò in Università fino a quando, a seguito delle leggi razziali, venne allontanato dall’Università.

Durante il periodo universitario compì il suo “lungo viaggio nel fascismo”: negli articoli scritti per la rivista degli studenti universitari di Padova, “Il Bo”, si coglie come maturò la sua critica e il suo allontanamento dal regime, fino ai primi contatti con le opposizioni clandestine.

A Parigi prese contatto con il centro estero del PCI: vivamente apprezzato dai dirigenti comunisti, ricette subito incarichi importanti. Da notare che nei frangenti difficilissimi dei tardi anni Trenta e dei primissimi anni Quaranta, sviluppò rapporti anche con i socialisti e con Libertà e Giustizia. Si coglie qui un’inclinazione unitaria perfino sorprendente: in realtà l’ispirazione unitaria caratterizzerà tutta la sua azione politica.

Arrestato al rientro in Italia e spedito al confine a Ventotene, rientrò a Milano alla fine di agosto del 43 ed assunse subito un ruolo di rilievo nella Resistenza: gli venne affidato l’incarico di dirigere l’Unità clandestina e di organizzare il Fronte della Gioventù, l’organizzazione unitaria dei giovani antifascisti.

Venne ucciso il 24 febbraio del 1945: il suo corpo restò a lungo insepolto all’obitorio. Accadde così che il suo feretro venne condotto al cimitero Maggiore di Milano, assieme a quello di altri partigiani rimasti insepolti, dopo la Liberazione, ai primi di maggio. I funerali, promossi dalla giunta comunale del sindaco Greppi, furono una manifestazione imponente. In quell’occasione il poeta Alfonso Gatto gli dedicò una famosa poesia: “A Giorgio” (Giorgio Intelvi era il suo nome di battaglia). La sua lettura ci rivela che, a due mesi di distanza dall’assassinio, la figura di Curiel cominciava già ad assumere i tratti del mito.

Con qualche fondata ragione, perché lo studio della sua opera e dei suoi scritti rivela una personalità di spessore inconsueto. Ricordiamo qui alcuni tratti che la contraddistinguono:

a – L’ispirazione unitaria, innanzitutto. Fu capace di sviluppare in esilio, ai tempi del trattato Molotov – Ribbentrop, rapporti unitari con altre componenti dell’antifascismo. Anche nella costruzione del Fronte della Gioventù profuse un’energia assai particolare. La progettazione di organismi di massa con funzione fiancheggiatrice era cosa comune ai tempi della Terza Internazionale: il fatto interessante è che Curiel costituì davvero un’organizzazione unitaria nella quale svolsero un ruolo di primo piano figure di provenienza assai diversa. Tra i dirigenti del Fronte vi furono intellettuali come il futuro regista Gillo Pontecorvo e esponenti cattolici come padre Davide Maria Turoldo e padre Camillo De Piaz, i due frati serviti destinati ad avere un ruolo religioso culturale di grande importanza anche nel dopoguerra.

b – Un’elaborazione teorica particolarmente ricca. Sua è la proposta della “democrazia progressiva”. Con la Resistenza, come è noto, il movimento operaio e il comunismo italiano si ancoravano politicamente alla democrazia. Curiel, per primo, si spinse a individuare la strada per ancorarsi anche teoricamente, ideologicamente, alla democrazia: era un passo nuovo. La democrazia, teorizzò e scrisse Curiel, non è sempre e dappertutto la stessa cosa. Può evolversi, può anche trasformarsi e portare il segno delle lotte, degli interessi e dei valori del movimento operaio. L’idea della democrazia progressiva apriva un nuovo orizzonte politico e teorico per il movimento operaio e per i comunisti italiani. Sulla stessa lunghezza d’onda stava riflettendo Palmiro Togliatti: l’idea di democrazia progressiva venne infatti integralmente assunta nell’elaborazione togliattiana e divenne uno degli assi portanti della strategia dei comunisti italiani nel dopoguerra.

c – Curiel fu anche una figura di intellettuale assai interessante. Non era un umanista: era uno scienziato con vivissimi interessi umanistici. Anche questa, nella storia del movimento operaio e comunista, è una particolarità di Curiel. Ma a noi interessa sottolineare soprattutto che durante la Resistenza, negli anni della clandestinità, trovò anche gli stimoli e il tempo per ragionare sulla cultura del futuro. Il rinnovamento della cultura, grazie anche ai suoi stimoli, divenne una vivissima preoccupazione dei resistenti milanesi: essi cominciarono a ragionare su cosa fare per rinnovare alle radici la cultura italiana dopo vent’anni di fascismo. Fu in questo contesto che Curiel, incontrandosi con Banfi e con Vittorini, delineò, assieme a loro – c’è una nota che lo attesta – il progetto di costituire, subito dopo la Liberazione, una rivista, un centro di alta cultura e un organismo di diffusione di massa della cultura.

Curiel non vide la Liberazione, ma Vittorini e Banfi si gettarono con passione alla realizzazione del progetto costruito assieme a lui. Costituirono infatti il Fronte della Cultura per la diffusione di massa della cultura. Fondarono inoltre una rivista e un centro culturale: il Politecnico, rivista dalla breve ma intensissima durata, e la Casa della Cultura, che Vittorini era solito chiamare “il Politecnico parlato”.

A queste considerazioni, legate alla vita e alla elaborazione di Eugenio Curiel, è doveroso aggiungere un’ultima annotazione. Quando, nel 1949, la Casa della Cultura venne scacciata dal ministro degli Interni, Mario Scelba, dalla sua sede prestigiosa, dietro la Scala, intervenne la sorella di Eugenio Curiel, Grazia, per aiutare a risolvere il problema. Essa mise a disposizione la cantina del suo negozio, quella cantina che è ancora oggi la sede della Casa della Cultura. E il marito di Grazia per anni e anni fu il tesoriere del centro culturale di via Borgogna.

Aggiungo: quando Grazia Curiel morì la sua famiglia volle che i funerali fossero celebrati in Casa della Cultura. Era il segno di un legame profondo tra la famiglia Curiel e il luogo progettato e pensato da Eugenio.

A chi scrive capita spesso di pensare che la Casa della Cultura, la sua presenza stessa, la sua continuità del tutto inconsueta, siano il miglior omaggio alla memoria del dirigente comunista e del partigiano Giorgio, ucciso in Piazzale Baracca da una squadra fascista.

DISUMANIZZAZIONE E NUOVO UMANESIMO

Una nuova narrazione: I fini – Scuola di cultura politica X edizione
Domenica 20 ottobre 2019 Scuola di cultura politica 2019 – 2020

 

Disumanizzazione e nuovo umanesimo

1 – Da qualche tempo si parla spesso di nuovo umanesimo. In occasioni e in sedi anche del tutto inaspettate. Lo ha fatto il Presidente del Consiglio durante la sua replica in Senato: in quel discorso ha parlato addirittura del nuovo umanesimo come “nuovo orizzonte politico e ideale” per il paese. Confesso che ho avuto un sobbalzo: chi parlava in quel momento era il Presidente del Consiglio uscente della maggioranza giallo – verde, che si era distinta per tante cose, ma di certo non per scelte umanitarie. In quel momento ho avuto la percezione che un concetto decisivo, che cerco di proporre da circa una decina d’anni, stava correndo il rischio di trasformarsi in un facile passe partout, utilizzabile con disinvoltura per mettersi la coscienza a posto.

Devo dire che nel giro di pochi giorni autorevolissimi esponenti del mondo cattolico si sono affrettati a correggere quella prima impressione. Uno dei teologi italiani più autorevoli, Bruno Forte, ha spiegato sul Corriere che Giuseppe Conte non aveva improvvisato: era stato un allievo del Cardinale Silvestrini, aveva frequentato la Casa di Nazareth. Insomma, l’uscita era tutt’altro che casuale, era parte di un’operazione politico – culturale finalizzata a dare slancio ad un’operazione – il ribaltamento della maggioranza, il nuovo ruolo di Conte stesso – cui cominciavano a guardare con attenzione forze rilevanti, fra cui anche una parte delle stesse gerarchie cattoliche.

Motivo in più allora per discuterne seriamente.

2 – “Nuovo umanesimo” è un termine forte che evoca un passaggio epocale.

Proviamo ad accennare ai periodi storico – culturali per i quali si utilizza con più frequenza il termine “umanesimo”: l’umanesimo greco,

l’umanesimo cristiano, l’umanesimo italiano, ovvero la stagione che prepara il Rinascimento. In tutti questi snodi storici il termine umanesimo è stato adottato per segnalare una vera e propria rottura di continuità. E non si è mai trattato di un passaggio semplice, lineare, indolore.

In questi ultimi tempi sono usciti lavori di grande interesse – ricordo quelli di Michele Ciliberto e di Massimo Cacciari – per problematizzare l’idea dell’umanesimo italiano come una stagione armonica, gioiosa, di crescita progressiva e indolore. Entrambi hanno messo l’accento sulla intima drammaticità della ricerca degli umanisti. Quel loro messaggio così nuovo – quell’accento posto sulla fiducia nell’attività dell’uomo che a distanza di tanto tempo continua a suscitare grande ammirazione in noi – si è formato dentro un vecchio mondo culturale che andava in frantumi: il nuovo mondo culturale degli umanisti è nato in mezzo alle doglie di un parto assai doloroso.

L’Umanesimo italiano, ovvero quel complesso movimento culturale che dal Petrarca fino al Valla e all’Alberti ha contribuito potentemente a mettere al centro del pensiero l’uomo e la sua attività, è nato da una interrogazione sulla condizione dell’uomo e sul suo destino: questioni che tornano in tempi di crisi e di trasformazione come quelli in cui siamo immersi, mentre avvertiamo che inizia un mondo nuovo di cui però non riusciamo a comprendere i tratti.

Ragionare oggi di un nuovo umanesimo vuol dire mettere nel conto un passaggio epocale, una rottura drammatica di paradigmi, un salto per il quale bisogna fronteggiare ostacoli di immensa portata. In questo senso il nuovo umanesimo può diventare davvero il nostro orizzonte politico – culturale.

3 – La riflessione sul nuovo umanesimo ha cominciato ad emergere parecchi anni fa, ben prima che montasse il clima xenofobo e razzista degli ultimi tempi, ben prima delle provocazioni di Salvini e dei segnali di imbarbarimento e di disumanizzazione dilagati negli ultimi tempi.

Ognuno ha dei sensori particolari con cui misura l’andamento delle cose. Personalmente ho cominciato a percepire il salto epocale quando ho messo a fuoco alcuni cambiamenti, dei veri e propri smottamenti, che si stavano verificando nello spazio pubblico.

Innanzitutto una mobilità elettorale sempre più rapida, perfino sorprendente. Eravamo abituati a una sostanziale stabilità, vischiosità dei comportamenti elettorali: da un certo punto in avanti siamo entrati in una stagione di spostamenti profondi e repentini.

Poi una radicalizzazione inconsueta degli elettori: una radicalizzazione che prescinde dall’ancoraggio a grandi narrazioni, che è alimentata da reazioni immediate, quasi istintive, spesso rabbiose.

Ancora, la tendenza sorprendente degli elettori a consegnarsi a uomini forti o presunti tali. Freud aveva osservato questo fenomeno nel 1921 (Psicologia delle masse e analisi dell’io); oggi ci si guarda attorno e tutto sembra andare in questa direzione. Putin: il leader forte per antonomasia della nostra epoca. Modi: soprannominato l’elefante, che interpreta alla perfezione una gestione muscolare della democrazia indiana. Di Trump sapete tutto: la retorica della grandezza dell’America. Il caso limite è Bolsonaro: un autentico cretino diventato presidente di un grandissimo paese per le sue credenziale di ex militare e per i messaggi di tracotanza razziale e di classe. L’elenco può continuare con Erdogan (una guerra scatenata per recuperare consensi!), con Boris Johnson, il leader che promette di spaccare tutto, con Orban che evoca la grande Ungheria prima del 1918, con Kaczynski, il leader che evoca la battaglia di Lepanto. Si potrebbe continuare evocando anche qualche italiano, o no?

Sono, guardati nel loro insieme, fenomeni sorprendenti: essi segnalano un mutamento radicale in corso. Soprattutto segnalano fragilità, disorientamento, spaesamento profondissimi. Perché il cittadino dei paesi democratici, paesi in cui si svolgono libere elezioni, è diventato così fragile, così esposto a suggestioni autoritarie, così propenso a seguire pulsioni rabbiose, che possono tramutarsi in manifestazioni di odio?

Tutto nasce dall’immigrazione? Sicuramente ha un grande peso, ma i fenomeni coinvolgono anche paesi da cui i migranti partono, non arrivano. Oppure, tutto nasce dalla crisi economica? Questione serissima, ma sarebbe allora inspiegabile il fatto che gli stessi fenomeni si manifestano anche in paesi che sono stati solo sfiorati dalla grande crisi del 2008. Probabilmente al fondo c’è qualcosa di più profondo.

4– Si possono intravedere – questa è la riflessione essenziale che vi propongo – due grandi processi squassanti che stanno attraversando un po’ tutto il mondo, due processi che procedono paralleli, anche se possono toccarsi e sovrapporsi.

Direi così: in un colpo solo, nel medesimo tempo, stiamo facendo i conti sia con la disumanizzazione che con il post – umano. Disumano e post umano: solo se colgo entrambi i fenomeni, riesco a spiegare tanta fragilità e tanto spaesamento.

I processi di disumanizzazione sono quelli più evidenti, che più attirano l’attenzione. Generalmente assumono la forma del ritorno prepotente della xenofobia: identità etniche scagliate contro gli altri, per delimitare chi è dentro il recinto e chi è fuori. Nei paesi di immigrazione, quelli più sviluppati, assume la forma dell’insofferenza per gli immigrati. In altri paesi, penso alla Russia, all’India, alla Polonia o all’Ungheria, alla Turchia, prende le forme di un sovranismo aggressivo, a base etnico – religiosa.

In più un individualismo sempre più radicale, un iper – individualismo che sconta una riduzione del legame e dei valori solidaristici. Qualcosa si è spezzato nel tessuto della società: gli esseri umani erano abituati a lavorare assieme e a vivere in comunità più o meno coese. Oggi vediamo dilagare la frantumazione e l’individualizzazione del lavoro e notiamo che anche un allentamento dei legami delle comunità territoriali. Disintermediazione, ovvero la dissoluzione dei corpi e delle comunità intermedie, e solitudine involontaria segnano in modo sempre più evidente la vita delle persone.

Un individuo più solo rispetto al passato, che tende a ricercare aggressive rassicurazioni in comunità etnico – identitarie. Ecco i processi di disumanizzazione tante volte messi a fuoco e denunciati.

Nel contempo, spostando lo sguardo, si registrano altri fenomeni, assai diversi ma non meno problematici: uomini e donne di tutte le latitudini sono sempre più inquieti per le innovazioni tecnologiche a getto continuo che costringono a riorganizzare modalità di lavorare, di comunicare, di vivere. Insomma, lo sviluppo impetuoso delle tecnologie sta alterando le modalità degli uomini di relazionarsi gli uni con gli altri.

I cambiamenti tecnologici investono ormai le modalità stesse di riproduzione della specie umana. Nei paesi più sviluppati siamo ormai al rovesciamento della piramide demografica. Sempre meno nati e un prolungamento sbalorditivo delle aspettative di vita, favorito da progressi spettacolari della medicina: protesi, cellule staminali, editing genetico, inserimento di chip e via dicendo. Le modalità stesse di riproduzione della vita sono rimesse in discussione: si sono diffuse tecniche di procreazione che prescindono da un rapporto sessuato e, ovviamente, tutto ciò porta con sé conseguenze radicali sul modo stesso di pensare la famiglia. Nel giro di una generazione ciò che si pensava immodificabile è stato stravolto. Ci siamo addentrati, con passi rapidissimi, nel post – umano: con evidenti implicazioni sulla tenuta delle referenze simboliche. Studiosi autorevoli parlano di una “nuova economia psichica”, di “caduta delle referenze simboliche” ecc.

Ciò che a me appare chiaro è che disumano e post umano, nel loro insieme, stanno determinando una trasformazione antropologica, ovvero un cambiamento profondissimo della condizione umana.

Per di più, sullo sfondo, uno scenario più generale nel quale sono immersi sia i processi di disumanizzazione sia i segnali del postmoderno, ovvero quel riscaldamento climatico che più di ogni altra cosa segnala il rischio di una rottura drammatica, irreparabile, dell’equilibrio uomo – natura.

Provate per un attimo a guardare nell’insieme questi processi e ditemi se non è corretto parlare di un vero e proprio passaggio epocale.

5 – Processi diversi, ben distinti: disumano, post – umano e rottura dell’equilibrio uomo – natura. Ma c’è qualcosa che li accomuna: la rapidità con cui si diffondono e la loro dimensione globale.

L’ondata xenofoba sembra non risparmiare nessun paese del mondo, proprio come la rivoluzione informatica sta penetrando in tutti le realtà del mondo, anche le più remote. Allo stesso modo i fenomeni più gravi di alterazione dell’equilibrio ambientale riguardano il globo nel suo insieme: lo scioglimento dei ghiacciai e l’acidificazione degli oceani sono fenomeni globali.

In realtà tutti questi processi sono sospinti in avanti da quelle due potentissime forze motrici del cambiamento che stanno letteralmente ridisegnando il mondo: la globalizzazione e lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica.

Mille volte abbiamo parlato della globalizzazione, di questa globalizzazione neoliberale, della sua estensione (ad essa non sfugge più nessuna parte del mondo), dei flussi di capitali e di merci che avvolgono il mondo, dei nuovi movimenti delle popolazioni.

Così pure abbiamo ragionato tante volte delle nuove frontiere della scienza e della tecnologia: la rapidità con cui si accumulano nuove conoscenze. Ciò che più mi ha colpito è che le conoscenze stanno moltiplicandosi non solo nel campo delle scienze naturali: sul Medioevo oggi sappiamo, ci dicono i nostri amici medievalisti, il 90% in più di ciò che conoscevamo cinquant’anni fa! Per non parlare delle barriere sempre nuove che vengono infrante, i nuovi campi di ricerca che si aprono: la biologia sintetica, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la robotica.

Tutto ciò è notissimo. Meno riflettuto è il fatto che globalizzazione e sviluppo delle scienze agiscano l’una sull’altra: la globalizzazione non potrebbe accelerare in tale modo senza l’apporto delle nuove tecnologie mentre lo sviluppo stesso della scienza e della tecnologia non potrebbe avere questa dinamica travolgente senza l’immersione nel mondo globale.

L’un fenomeno trascina l’altro, in una travolgente accelerazione progressiva. Verso un futuro che diventa, al tempo stesso, sempre più ravvicinato e sempre meno decifrabile.

Ieri si è accesa proprio qui, per stimolo vostro, una interessantissima discussione su antropocene e/o “capitalismocene”: un termine introdotto recentemente, negli anni Ottanta, viene già rimesso in discussione per accentuare gli effetti accelerati e deflagranti dell’attività umana sugli equilibri naturali.

Se si ha ben chiaro questo scenario di vertiginosa espansione e accelerazione del cambiamento su scala globale, se si riflette su queste dinamiche che con tanta frequenza appaiono fuori controllo, si riesce bene a capire la tensione cui è sottoposta la condizione umana. Qui, a me sembra, stanno le radici dell’incertezza e dello spaesamento che sentiamo attorno a noi e che si formano dentro e come conseguenza di questa “grande trasformazione”.

6 – Questi processi – ecco la domanda cruciale- sono inesorabili e incontrollabili? Si tratta di una domanda assai impegnativa, assai difficile: dalla risposta che vi diamo dipende se ha un senso parlare di nuovo umanesimo e come si può definire il significato di questa espressione.

Vi sarebbero ragioni sensate per sostenere che questi processi hanno una tale potenza da essere ormai incontrollabili. Non vi sarebbe altro da fare che interiorizzarne la dinamica: tutt’al più si può ritagliare qualche isola di consapevolezza e di resistenza. Una parte rilevante del pensiero novecentesco, il pensiero nichilista che si era formato nel corso del secolo scorso, spinge indubitabilmente in questa direzione.

Per chi non vuole imboccare questa strada, per chi non accetta un esito nichilista, si apre una strada di ricerca molto impegnativa.

La prima risposta, la più immediata, potrebbe trovarsi nel mettere l’accento sulla battaglia delle idee. Per altro con mille fondate ragioni. C’è

un nesso evidente tra i processi di disumanizzazione e il pensiero dominante.

Gli assiomi del pensiero neoliberale, la massimizzazione dell’interesse egoistico degli individui, il mercato come unico regolatore della vita pubblica, la centralità del consumatore, sono tutte idee che hanno contribuito potentemente a smontare il tessuto solidale e a innescare processi di disumanizzazione. Il disprezzo neoliberale per la politica, la riduzione dei compiti e delle funzioni dei poteri pubblici che ne consegue, hanno avuto un ruolo enorme nello smontare ogni tentativo di governare la globalizzazione e nel lasciare crescere indisturbati i nuovi giganteschi conglomerati globali che controllano il sistema della comunicazione e che utilizzano spregiudicatamente le innovazioni tecnico – scientifiche. C’è stato un momento in cui queste questioni erano balzate all’ordine del giorno, al passaggio di secolo, quando vi fu l’onda del movimento new global. Si ragionava di un altro mondo possibile, di governo della globalizzazione. Tutto è stato lasciato cadere: con molta leggerezza e con altrettanta arroganza.

Vi sono, quindi, ragioni serissime per porre l’accento sull’importanza di una nuova battaglia ideale, per dirla più rigorosamente: “per una riforma morale e intellettuale”. Anche perché il nuovo umanesimo presuppone inesorabilmente la critica e la rimessa in discussione del pensiero unico neoliberale. L’accento deve spostarsi dal mercato alle persone: c’è quindi un problema evidente di battaglia ideale e culturale.

Salvo un dubbio: messa così la questione sembra collocarsi solo nel cielo delle idee, quasi, avrebbe detto il vecchio Antonio Labriola, che le idee siano dei “caciocavalli appesi (appisi)”. I nostri maestri, quelli che introdussero anche in Italia il concetto di “riforma morale e intellettuale”, Francesco De Sanctis e Antonio Gramsci, non dimenticavano mai che il confronto delle idee era parte di un conflitto politico e sociale di più ampia portata. La riforma intellettuale e morale per cui Francesco De Sanctis lavorò tutta la vita era parte della ricostruzione dello spirito nazionale. E in Gramsci la riforma morale e intellettuale era pensata come

tassello indispensabile per modificare i rapporti tra le classi sociali e per rovesciare la relazione fra chi è diretto e chi dirige.

Per mettere su basi serie il ragionamento sul nuovo umanesimo dobbiamo quindi allargare l’ambito del ragionamento: non si tratta solo di condurre una battaglia delle idee, si tratta di pensare le condizioni in cui possa diventare effettiva la centralità delle persone.

7 – Ecco allora il punto essenziale: il nuovo umanesimo, se non vuole essere puro esercizio retorico, oppure peggio se non vuole ridursi a una facile foglia di fico, deve essere pensato dentro l’idea – e dentro il conflitto – per un nuovo modello di sviluppo.

Nuovo umanesimo – nuovo modello di sviluppo: l’una idea tiene e sorregge l’altra. Detto diversamente: nuovo umanesimo e sviluppo sostenibile, sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Solo in un nuovo modello di sviluppo si possono realizzare le condizioni per la libertà e la dignità di ogni persona umana, per considerare ogni singola persona come un fine, per rendere effettiva una cittadinanza responsabile e globale.

Umanesimo e sostenibilità: a ben vedere è l’approccio che attraversa l'”Obiettivo 2030″ dell’ONU. Si tratta di un tema su cui cominciano a ragionare tante forze nel mondo: governare la globalizzazione e piegare lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica alla ricostruzione di un rapporto positivo uomo – ambiente e alla emancipazione, ovvero al libero sviluppo delle capacità di ogni donna e di ogni uomo.

Insisto: tante forze nel mondo stanno ragionando su questo. È doveroso qui ricordare un evento che ha contribuito potentemente a fare emergere questa discussione: la pubblicazione della Enciclica “Laudato si'”. C’è un passaggio cruciale dell’enciclica, là dove ci ricorda che “tutto nel mondo è intimamente connesso”, ovvero – scrive il Pontefice- vi è una connessione inestricabile tra dimensione sociale, economica, demografica e ambientale. È esattamente l’invito a ragionare su un nuovo modello di

sviluppo: la centralità della persona umana e l’obiettivo di ricostruire il rapporto uomo – natura trascina con sé il ripensamento profondo dell’insieme dello sviluppo.

Ho citato il Pontefice. Permettetemi di fare un’altra citazione. Anche se spostata molto all’indietro nel tempo. Da quando sto cercando di addentrarmi seriamente in queste questioni, mi tornano sempre più in mente le riflessioni di un giovanissimo filosofo tedesco – che avevo frequentato molto in gioventù ma che poi erano rimaste a lungo inoperose in un cassetto della memoria – là dove nei suoi famosi manoscritti del 1844 annotava che “il prodotto del lavoro umano comincia ad ergersi minaccioso contro l’uomo stesso”. Da questa riflessione quel ragazzo di venticinque anni traeva la prospettiva di un umanesimo radicale.

Forse vi sembrerà strano in tempi di oblio se non di condanna sprezzante del pensiero del filosofo di Treviri, ma a me sembra doveroso riproporre la radicale spinta umanistica che animò il giovane Marx ed essa mi appare oggi di straordinaria potenza e attualità. La ricerca di Marx muoveva da una scoperta decisiva: che al fondo di tutta l’attività economica, alla base di ogni cosa, di ogni prodotto, di ogni merce che viene nelle nostre mani, vi è l’attività umana, il lavoro degli esseri umani. Questo lavoro nel rapporto sociale capitalistico viene sottratto agli esseri umani: diventa lavoro estraniato, oggettivato. Il frutto del lavoro umano e l’uomo che l’ha erogato vengono separati, fino al punto che il frutto del lavoro, le merci, cominciano a contrapporsi all’uomo stesso. Questo svelamento, questo disoccultamento, è il nucleo essenziale del pensiero di Marx: tutta la sua produzione culturale è finalizzata a realizzare le condizioni di una riappropriazione da parte degli esseri umani del frutto della loro attività. Marx precisa che questa riappropriazione non può avvenire da parte dei singoli individui, ma da parte dell’uomo sociale, ovvero degli uomini che collaborano tra di loro.

Il giovane filosofo, in alcuni passaggi di grande forza, annota che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la

natura e che l’umanismo si identifica con il naturalismo. L’umanesimo possibile è la ricostruzione di un rapporto con la natura. Potremmo dire che è l’apertura di una condizione nella quale l’uomo – insisto: l’uomo – realizza, vive, colloca nell’esteriorità del vivere la ricchezza della sua intelligenza, della sua riflessività, della sua sensibilità. Il problema è come ridare all’essere umano la possibilità di esprimere liberamente le sue relazioni con il mondo umano, sociale e naturale.

Si tratta di un progetto umanistico radicale: il progetto umanistico più coerente che sono in grado di rintracciare nel pensiero filosofico moderno. Aiuta anche noi a capire come è potuto accadere che il frutto del nostro lavoro e della nostra intelligenza incominci ad ergersi minaccioso contro di noi, come sia possibile che gli sviluppi della scienza e della tecnica ci possano apparire fuori controllo, come è stato possibile che il nostro modello di sviluppo abbia generato – con il riscaldamento climatico – minacce alla nostra sopravvivenza come specie umana.

Penso che per costruire il progetto di un nuovo umanesimo dovremo attingere a larghe mani a queste straordinarie intuizioni. Ovviamente si tratta di un lavoro che deve essere fatto con sapienza e duttilità critica. Oggi ci appaiono chiari alcuni limiti dello sguardo penetrante di Marx: la sua previsione dello sviluppo era troppo lineare, non riuscì a intuire la straordinaria complessità che avrebbe raggiunto lo sviluppo capitalistico. Ma la sua resta una lezione di metodo straordinaria. Egli non si mette “contro” lo sviluppo: ne intuisce le immense potenzialità. Sua è la prima previsione della globalizzazione (il capitale afferrerà tutto il globo), sua è la celebre previsione che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Marx vede la potenza delle forze messe in movimento, ma ne vede anche l’ambivalenza. Esse liberano da vecchie catene, ma stanno generando nuova oppressione. Anche noi oggi vediamo la potenza della globalizzazione e della scienza e della tecnica, ma anche la loro ambivalenza: il problema è permettere all’uomo di riappropriarsene, di rimetterle sotto controllo. Per pensare a un umanismo e a un naturalismo dei nostri tempi, un nuovo umanesimo cosmopolitico.

8 – Ultima questione: stiamo “filosofeggiando” o stiamo parlando di qualcosa che può avere le gambe per camminare? Gambe, ovvero forze sociali e politiche che spingano in questa direzione.

La mia risposta è seccamente positiva: tante cose si muovono attorno a noi, Si tratta di scoprirle e di favorire la connessione tra di loro. Perché il problema, ad oggi, è che tendono ognuna a muoversi per conto proprio.

Si è diffusa una sensibilità nuova sulle questioni ambientali. Siamo tutti, penso, colpiti dal movimento Fridays for future: da tempo non registravamo un fermento così diffuso tra i giovani. E, francamente, eviterei giudizi supponenti sulla giovane Greta: rendiamole il grande merito di avere smosso le acque. E di avere innescato – addirittura! – un movimento globale. Che non accenna a placarsi. Decisivo – anche per noi, penso – sarà il confronto che riusciremo a costruire con questi ragazzi.

Al tema ambientale vi è grande attenzione anche nel mondo delle imprese. Le ragioni sono sicuramente molteplici, ma eviterei di soppesarle con scetticismo: suggerirei di mettere l’accento sull’attenzione e sulla sensibilità nuova che si stanno diffondendo anche nel mondo imprenditoriale. Si tratta di una novità assai rilevante. Assieme al mondo delle imprese e del lavoro, con loro, dovremo discutere seriamente su un nodo decisivo: chi dovrà pagare il prezzo della riconversione ecologica dell’economia (la vicenda francese dei gilets jaunes è esplosa proprio su questo).

E, infine, confesso di essere stato molto colpito il 2 marzo scorso dalla manifestazione “People”, quella straordinaria manifestazione promossa da un cartello amplissimo di associazioni. Quel giorno una folla imponente ha percorso le strade di Milano nel nome del solidarismo, del mutualismo, della cooperazione, della responsabilità ambientale. Una manifestazione di persone che non accettano l’esibizione della disumanità e la condanna alla solitudine involontaria. Non era mai accaduto prima. Si è trattato del venire alla luce, o meglio del condensarsi assieme per la prima volta, di mille energie che sono già all’opera, che nei fatti si muovono in un

orizzonte diverso rispetto all’ossessiva centralità dell’homo oeconomicus imposta dal pensiero neoliberale e che ora, a quanto hanno lasciato intravedere, vorrebbero tentare di mettersi assieme per fare sentire la propria voce, per imprimere un segno diverso allo spirito del nostro tempo.

Insomma, ragionare di nuovo umanesimo non è esercizio per acchiappanuvole. Può incrociare e mettere in movimento forze reali. Può essere l’humus per alimentare nuovi progetti sociali e politici.

Ovviamente so bene che la ragione consiglierebbe di essere pessimisti, ma qualche volta – ricordiamocelo – c’è anche il diritto e il dovere di mettere l’accento sull’ottimismo della volontà.

 

 

PERCHÉ RITORNARE A LEGGERE MARX

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Ho accettato l’invito di Carlo Monti a discutere di Marx non senza qualche preoccupazione. Marx è un autore che conosco bene, eppure questa richiesta mi ha reso un po’ inquieto. Forse perché è da tanto, tanto tempo che ci sono solo rarissime occasioni per discutere pubblicamente di Marx, oppure ancora perché, nel momento stesso in cui Carlo mi ha avanzato questa richiesta, ho realizzato che avrei dovuto fare lo sforzo di parlare di Marx in modo diverso rispetto al passato. E parlare di un grande autore in modo diverso è, pur sempre, una sfida e un impegno non da poco.

Marx, il marxismo, hanno dominato la discussione pubblica negli anni sessanta, settanta. Poi, a un certo punto, c’è stata una brusca cesura: su Marx e sul marxismo è calata una coltre di silenzio. Interrotta solo, ogni tanto, da qualche contumelia. Vi fu un episodio editoriale che riassume sinteticamente questo passaggio. La Casa editrice Einaudi iniziò, verso la fine degli anni Settanta, la pubblicazione di un’impegnativa storia del marxismo. Il primo volume, uscito alla fine del decennio, ebbe un grande successo. Gli altri, che uscirono subito dopo, al passaggio del decennio successivo, furono un drammatico flop editoriale: Marx, da un momento all’altro, non interessava più nessuno.

In realtà l’oblio di Marx e la rimozione, per non dire la condanna, del marxismo hanno emblematizzato il brusco cambio di paradigma culturale che si verificò agli inizi degli anni Ottanta: una pietra tombale scese sulle ideologie che avevano animato il movimento operaio e i movimenti delle classi oppresse nel mondo: si stava entrando, a passo di corsa, nel nuovo mondo neoliberale. Un attimo ancora ed eravamo entrati nell’epoca della globalizzazione neoliberale, che ebbe la sua sanzione e suo trionfo con il passaggio cruciale dell’89, quel vero turning point della storia globale: il crollo del muro. Da quel momento Marx era il passato: anzi, nella nuova ideologia dominante, Marx il passato da rimuovere, anzi da condannare aspramente come ispiratore di un mondo crollato, scomparso: il socialismo reale.

Ma perché si verificò questa abiura? Cosa erano stati Marx e il marxismo?

Il pensiero di Marx, la sua filosofia, ebbero fin dall’inizio, fin dalla metà dell’Ottocento, un destino assai particolare quale non ebbe nessun altra filosofia: il pensiero di Marx, il marxismo furono il punto di riferimento, l’ideologia di riferimento (ideologia è qui un termine voluto: la visione del mondo) dell’emersione sociale e politica delle classi oppresse, del movimento della classe operaia, dei partiti e dei sindacati che costituirono l’ossatura del movimento operaio, del protagonista decisivo della seconda metà dell’Ottocento e di larga parte del Novecento. Il marxismo rappresentò la visione del mondo che dava un senso, una prospettiva, al movimento operaio: presentava una visione della storia che ne esaltava la funzione (la classe operaia soggetto storico del cambiamento), offriva una visione dell’uomo che contrastava sia il nichilismo che la passività subalterna. Insomma, il pensiero di Marx, ebbe grandiosi effetti politici. Si immerse nelle lotte e nella realtà del mondo e inesorabilmente ne uscì trasformato. Vi fu il marxismo (anzi: i marxismi) dell’Occidente, vi fu il marxismo prevalente in Russia e quello che prevalse in Cina, vi fu il marxismo dei paesi in lotta contro il colonialismo: varietà assai diverse fra di loro.

Nel blocco sovietico divenne addirittura la dottrina ufficiale del socialismo reale: la vita pubblica era dominata dal marxismo – leninismo. Quel pensiero, trasformato in ideologia chiusa, dogmatica, intransigente, era diventato qualcosa di simile a una religione ufficiale, di regime, ed era l’unica espressione culturale ammessa in quei paesi. In quella formulazione, chiusa, ripetitiva e dogmatica, della tensione critica di Marx, della sua ispirazione originaria, restava ben poco. Eppure il nome era quello: marxismo – leninismo. E, allora, non è difficile capire perché la paralisi prima e poi il crollo del socialismo reale erano destinati a travolgere anche il marxismo. Marx e il marxismo furono identificati con quel fallimento: oblio e condanna scesero inesorabilmente sul marxismo e sul grande pensatore di Treviri.

Per di più, non scordiamocelo, quegli anni, gli anni Ottanta, coincisero con i primi segni di indebolimento del movimento operaio anche nei paesi occidentali. È una storia che noi ben conosciamo. IL passaggio dal fordismo a nuove modalità produttive, l’irruzione delle nuove tecnologie, il mutamento radicale del lavoro. Sono fenomeni che provocarono la crisi, e nel giro di un paio di decenni, la rapida dissoluzione del movimento operaio: dei suoi partiti, dei suoi sindacati, dell’idea stessa che il movimento operaio potesse essere la forza decisiva per la trasformazione sociale.

Per Marx cominciò la lunga stagione – quasi quarant’anni – della damnatio memoriae e dell’oblio. Pochi gruppi di studiosi – Vittorio Morfino rappresenta assai bene uno di questi – cercarono tenacemente di farlo vivere, di rinnovarlo. Un’azione controcorrente, mentre tutt’attorno imperversava la nuova ideologia dominante, quel neoliberalismo che nelle sue diverse forme, da quelle più o meno progressive fino a quelle più esplicitamente e più duramente conservatrici e reazionarie, si è trasformato nel main stream, in quello che è stato efficacemente definito il pensiero unico dominante.

Fino a che, in tempi recenti, qualcosa ha iniziato a muoversi. Lentamente Marx ha cominciato a riapparire nelle librerie, sono apparsi nuovi studi, nuovi libri: di Marx si è tornato a ragionare. Il 2018 era il bicentenario della nascita: non è passato in silenzio. Marx e il suo pensiero sono tornati ad essere una presenza con cui fare i conti. Di Marx si torna a ragionare, come facciamo noi stasera.

 

2 – Marx ritorna trascinato dall’onda lunga della crisi. Non solo crisi economica: quella crisi che un po’ tutti avvertiamo, crisi dell’Occidente per l’emersione di nuovi popoli, per l’impatto con le altre culture, per la crisi demografica, crisi del rapporto uomo – natura come dimostrato dal riscaldamento climatico e dai sempre più frequenti fenomeni metereologici estremi, crisi di un modello di sviluppo costruito in Occidente ed esportato nel mondo intero. È nel mezzo di questa crisi che si sente il bisogno di tornare a ragionare a ragionare sui classici. Ecco allora il pensiero di Marx: quel pensiero che più di ogni altro ha scavato sulle contraddizioni di questo modello di sviluppo.

Si tratta di una lettura e di un recupero non semplice. Che deve passare attraverso la ripulitura di tante cose caduche. Pensiamo alla sua filosofia della storia, a quell’idea idea, che ebbe tanto peso nel passato, che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe provocato la crisi irreversibile del capitalismo, che era prevedibile il passaggio dal capitalismo al socialismo e che al proletariato era assegnato il ruolo di affossatore del capitalismo: tutte cose che oggi appaiono lontanissime, cose di un’altra epoca storica … Come tutta la discussione sulla scientificità del marxismo: tutto passato …

Ma c’è qualcosa del suo pensiero che torna potentemente a mordere. Qualche volta ne trovate traccia anche nei commenti giornalistici: molti hanno ricordato la celebre previsione del Manifesto: “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, oppure ancora: la previsione che il capitale avrebbe afferrato tutto il globo … Previsioni potenti: nessuno come Marx seppe vedere il movimento del capitale e seppe prefigurare quella che oggi chiamiamo globalizzazione …

Ma c’è dell’altro. Vorrei cercare di metterlo a fuoco focalizzando tre nodi, quelli che hanno spinto me personalmente alla rilettura e al ripensamento di Marx.

Prima questione: da tempo ho avvertito l’esigenza di mettere al centro della mia riflessione il nodo di un nuovo umanesimo. Le ragioni di questa ricerca penso siano abbastanza intuitivi: siamo immersi in processi gravi di disumanizzazione e avvertiamo, in tanti, l’esigenza di mettere su basi serie la riflessione su un nuovo umanesimo. Nella storia, questa è la prima cosa che ho messo a fuoco, vi sono state tante forme diverse di umanesimo, ovvero tanti modi diversi di porre il problema della libera espressione della creatività e della libertà umana. Il problema è pensare un umanesimo per questa nostra epoca segnata dalla globalizzazione neoliberale e dallo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica.

È nel vivo di questa ricerca che ho riscoperto la radicale spinta umanistica che animò il giovane Marx e che mi appare oggi di straordinaria potenza e attualità. La sua ricerca muove da una scoperta decisiva: che al fondo di tutta l’attività economica, alla base di ogni cosa, di ogni prodotto, di ogni merce che viene nelle nostre mani, vi è l’attività umana, il lavoro degli esseri umani. Questo lavoro nel rapporto sociale capitalistico viene sottratto agli esseri umani: diventa lavoro estraniato, oggettivato. Il frutto del lavoro umano e l’uomo che l’ha erogato vengono separati, fino al punto che il frutto del lavoro, le merci, cominciano a contrapporsi all’uomo stesso. Questo svelamento, questo disoccultamento, è il nucleo essenziale del pensiero di Marx: tutta la sua produzione culturale è finalizzata a realizzare le condizioni di una riappropriazione da parte degli esseri umani del frutto della loro attività. Marx precisa che questa riappropriazione non può avvenire da parte di singoli individui, ma da parte dell’uomo sociale, ovvero degli uomini che collaborano tra di loro.

Il giovane filosofo, in alcuni passaggi di grande forza, annota che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura e che l’umanismo si identifica con il naturalismo. L’umanesimo possibile è la ricostruzione del rapporto con la natura. Potremmo dire che è l’apertura di una radura dove l’uomo – insisto: l’uomo – realizza, vive, colloca nell’esteriorità del vivere la ricchezza della sua intelligenza, della sua riflessività, della sua sensibilità. Il problema è come ridare all’essere umano la possibilità di esprimere liberamente le sue relazioni con il mondo umano, sociale, naturale.

Si tratta di un progetto umanistico radicale: esso attraversa tutta l’opera di Marx. Aiuta anche a noi a capire come è potuto accadere che il frutto del nostro lavoro e della nostra intelligenza incominci a ergersi minaccioso contro di noi, come è stato possibile che il nostro modello di sviluppo abbia generato – con il riscaldamento climatico – minacce alla nostra stessa sopravvivenza come specie umana, come sia possibile che gli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica ci possano apparire fuori controllo.

Penso che per costruire il progetto di un nuovo umanesimo avremo bisogno di attingere a larghe mani a queste straordinarie intuizioni. Ovviamente si tratta di un lavoro che deve essere fatto con sapienza e duttilità critica. Oggi ci appaiono chiari alcuni limiti del suo sguardo penetrante: la sua previsione dello sviluppo era troppo lineare, non riuscì a intuire la straordinaria complessità che avrebbe raggiunto lo sviluppo capitalistico. Dovremo fare interagire con il suo pensiero altre sorgenti culturali: ma di certo nel pensiero di Marx c’è una spinta potente al riconoscimento della nostra comune umanità.

Seconda questione: mi sto interrogando, come tanti, sulla crisi della nostra democrazia. Di questi tempi accadono cose davvero sorprendenti: un grande paese come il Brasile elegge come Presidente un autentico imbecille come Bolsonaro, un nostalgico dei gorilla militari e nel contempo asservito al peggiore capitalismo di rapina. Una specie di nuovo Nerone che sta divertendosi a bruciare le sue foreste. Come è possibile che i cittadini lo abbiamo scelto? Perché in tanti paesi del mondo, dagli USA alla Russia di Putin, dall’India di Modi al Pakistan di Khan, a tanti paesi europei i cittadini rovesciano i loro consensi su “uomini forti”, che si presentano come uomini soli al comando, sprezzanti delle regole democratiche? Perché la democrazia tende a trasformarsi in democratura, in democrazia è illiberale? Insomma, perché dilagano i populismi?

Tutta la mia ricerca da tempo ruota attorno a questa domanda. Le risposte non sono semplici. Ed è in questa ricerca che, nuovamente, ho riscoperto riflessioni decisive di Marx, anzi: del giovane, giovanissimo Marx. Penso a un libretto straordinario scritto da Marx all’età di venticinque anni: La questione ebraica. In quelle pagine Marx scruta e denuncia i limiti strutturali della democrazia, ovvero l’uguaglianza formale dei diritti cui non corrisponde l’uguaglianza nella vita reale. Uguali nel cielo dei diritti; diversi nella vita economica e sociale. Marx coglie qui il nodo di un limite strutturale della democrazia: l’emancipazione, continua, non può essere solo politica, deve essere anche emancipazione umana.

Mi chiedo se qui non stia la chiave più illuminante per ragionare sulla rivolta populista contro le élites. Per altro, aggiungo, in alcuni lavori di Marx, questo autore spesso accusato di gretto e banale determinismo economico, si trovano alcune degli spunti più efficaci per descrivere l’ascesa dei proto – populismi. Si legga “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”: là dove parla del futuro imperatore che seduce le masse – le pescivendole di Parigi – e le scaglia contro le istituzioni elettive. Una descrizione viva, mordente, geniale: suggerisco vivamente ai nostri supponenti politologi di rileggere queste pagine!

Oggi, questa la mia convinzione, per ragionare sulla crisi della democrazia dobbiamo recuperare nella nostra cassetta degli attrezzi anche gli straordinari spunti critici di Marx.

Terza questione: i successi del populismo fanno riemergere la questione della libertà. I cittadini si consegnano ai leader, avrebbe detto Freud. L’interesse si restringe solo alle piccole libertà, ma dinanzi alle grandi libertà, ovvero alle decisioni sulle scelte di fondo attinenti il modello di sviluppo economico e sociale, prevale la passivizzazione, la delega all’uomo forte. I cittadini, ognuno isolato nel suo mondo, deprivati di corpi intermedi, condannati alla solitudine involontaria, si rivelano esposti come mai alle pulsioni autoritarie.

Andiamo più a fondo: c’è qui un punto di contatto tra i populismi e il pensiero dominante neoliberale. La libertà essenziale dei neoliberali è la libertà del consumatore: ognuno libero di scegliere la merce che più gli aggrada. Spetta poi, aggiungono i neoliberali, al mercato comporre gli interessi dei singoli. La politica, ovvero lo stato, deve ridursi al minimo: interferire il meno possibile con la libertà degli operatori economici.

In questo mondo dominato da populisti e neoliberali riemerge la questione della libertà. Della libertà degli esseri umani di prendere in mano il loro destino, di scegliere dove e come andare. La questione della grande libertà rispetto alle piccole libertà. Ancora una volta Marx, il giovane Marx, ci aiuta a porre la questione. Nel momento in cui fa i conti con i suoi compagni di studi, gli allievi di Hegel, scrive le famose undici tesi su Feuerbach. Famosissima la XI: “i filosofi fino ad ora si sono limitati a interpretare il mondo; ora devono cambiarlo”. Si tratta della sua prima straordinaria affermazione dell’indissolubilità di teoria e di praxis. Da questa affermazione non tornerà più indietro. Tutto il suo pensiero si forma nella praxis ed è un invito continuo, incessante e mettersi alla prova nella praxis. Penso che questa sua dottrina della praxis sia una dottrina essenziale di libertà. Gli uomini, ci dice Marx, sono liberi solo quando, gli uni assieme agli altri, prendono in mano il loro destino: quando affinano pensiero critico, quando costruiscono idee e le mettono alla prova nell’effettiva vita politica, civile e sociale.

Con Marx, quindi, sto tornando a fare i conti. Trovo il suo pensiero vivo e penetrante anche sulla realtà di oggi. Il suo metodo, lo svelamento critico della realtà, quel suo sguardo in profondità sempre animato da una profonda radicale passione per la libertà umana, penso che abbia molto da dire anche a noi.

Sguardo critico, svelamento della realtà umana nascosta nelle cose, passione intransigente per la libertà umana, inseparabilità di umanismo e di naturalismo: ecco il Marx di cui oggi torniamo ad avere bisogno ed è bene che, assieme, ricerchiamo le modalità per rimetterlo in circolazione.

PER UN NUOVO UMANESIMO Ambiente, diritti, etica “Con uno sguardo umano”

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5° laboratorio di “Con uno sguardo umano” Relazione introduttiva

1 – Si parla spesso, in questi tempi, di nuovo umanesimo. Ne parlano anche voci molto autorevoli.

Il tema è stato evocato da papa Francesco. “Serve un patto educativo globale che educhi a un nuovo umanesimo”, ha detto il pontefice. Espressione forte, ma, nel caso del pontefice, del tutto coerente con il suo insegnamento: il tema del nuovo umanesimo era già implicito in tanti atti del papa e attraversava tutta la sua Enciclica, Laudato si’.

Più sorprendente – spero comprendiate la mia franchezza – è stato sentire evocare il nuovo umanesimo dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Anche perché ne ha parlato la prima volta nella sua veste di Presidente uscente, dimissionario: si trattava del discorso in Senato con cui replicava a Matteo Salvini che gli aveva appena tolto la fiducia. In quel momento Conte era il Presidente di una maggioranza giallo – verde che per quattordici mesi si era distinta per tutto meno che per atti e parole evocative di un “nuovo umanesimo”. In quel contesto, nell’ambito di quel discorso, il richiamo a un nuovo umanesimo era, quanto meno, del tutto inaspettato.

Nei giorni successivi il Presidente del Consiglio ha precisato ulteriormente che “il nuovo umanesimo” deve essere l'”orizzonte culturale del paese”. Ne prendiamo atto. E sottolineiamo l’aspetto positivo: un tema a noi caro, il più impegnativo fra quanti da noi sollevati, sta entrando nel vivo del dibattito pubblico.

Sono passati quasi dieci anni da quando, in questa sede, abbiamo cominciato a interrogarci sull’urgenza e l’importanza di un nuovo umanesimo: finalmente se ne discute in tante sedi. Se ne parla in incontri pubblici, il tema sta affiorando anche sui media. Buona cosa quindi.

L’incontro di oggi, il quinto incontro pubblico organizzato nell’ambito del percorso comune della Casa della Cultura e della Casa della Carità per recuperare uno “sguardo umano”, si inserisce in questa situazione di attenzione, di curiosità, di interesse diffuso per la proposta di un “nuovo umanesimo”.

Vediamo allora di chiarire bene, grazie anche all’autorevolezza dei nostri interlocutori, il senso di questa proposta. Da parte mia cerco di introdurre la discussione accennando alcuni grandi nodi che spingono a mettere a fuoco questa prospettiva.

 

2 – Cominciamo a ricordare le ragioni per cui, all’incirca un anno fa, abbiamo deciso con la Casa della Carità di avviare questo percorso: al Planetario – ricordate -, poi i seminari sulle disuguaglianze, sulla paura, sulle nuove pratiche solidali. Oggi siamo al quinto appuntamento.

La nostra iniziativa nasceva dal bisogno di lanciare un allarme rispetto alla pericolosa deriva del clima pubblico nel paese. Uomini di governo che si scagliavano contro i più deboli, che agitavano impunemente le corde della xenofobia, che gonfiavano le vele del razzismo. La rabbia sociale, alimentata dallo stesso potere pubblico, tendeva a traboccare in aggressività diffuse e in manifestazioni d’odio. I social (non a caso il 22 prossimo, in Casa della Carità, discuteremo proprio di social e di relazioni virtuali), in questo contesto, erano diventati con inquietante frequenza strumenti di espressione di istinti intolleranti, di trasmissione di vere e proprie incitazioni all’odio e all’aggressione.

Era urgente, questo il senso della nostra iniziativa, fare sentire voci diverse, richiamare al senso del limite, impedire che i messaggi di intolleranza e di odio diventassero la normalità incontrastata. Era urgente, insomma, riproporre il problema – come abbiamo detto – dello sguardo umano, della dignità e del rispetto di tutte le persone. Soprattutto delle più deboli.

 

3 – Quando, come in quest’incontro, poniamo il problema di un “nuovo umanesimo” andiamo oltre questa emergenza, allarghiamo l’orizzonte del ragionamento. Stiamo invitando a riflettere su un problema più di fondo che attraversa tutto l’Occidente e non solo, ci proponiamo di mettere a fuoco problemi strutturali che stanno modificando la condizione umana, che stanno alterando le relazioni fra gli esseri umani e degli esseri umani con la natura e l’ambiente circostante.

Si tratta di una riflessione che vorremmo impostare con serietà ed impegno anche perché avvertiamo il rischio che la proposta di un nuovo umanesimo, così pervasiva ma anche un po’ vaga, possa, se non impostata e declinata con attenzione, di dissolversi in una retorica un po’ banale e poco concludente, del tipo: vogliamoci tutti un po’ più di bene.

Cerchiamo perciò di collocare il problema nella sua giusta dimensione. Secondo noi – proviamo ad impostare bene il problema – siamo immersi in una trasformazione epocale, una vera e propria “grande trasformazione” (l’espressione venne usata da un grande studioso, Karl Polanyi, per spiegare il passaggio dal mondo agricolo tradizionale a quello industriale), una nuova grande trasformazione quindi, che sta cambiando profondamente il modo di lavorare, di comunicare e di vivere degli esseri umani. Essa nasce dall’azione congiunta di due potentissimi fattori di cambiamento, la globalizzazione e gli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica: la loro azione congiunta, sovrapposta, sta letteralmente riplasmando la vita umana.

Con alcuni effetti che dobbiamo cogliere lucidamente: da un lato la rottura di legami sociali essenziali, con l’allentamento delle strutture tradizionali di solidarietà sociale, fino all’emersione di vere e proprie forme di solitudine involontaria di massa; dall’altro lato l’alterazione del rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale fino al punto di generare fenomeni radicalmente nuovi e potenzialmente devastanti come il cambiamento climatico.

È dentro questo scenario di mutazione radicale che dilagano quell’incertezza e quello spaesamento oggi così diffusi nell’opinione pubblica. Le persone, gli esseri umani, avvertono un mutamento profondo delle strutture sociali e delle condizioni ambientali: tutto cambia, rapidissimamente, ma in tanti non riescono ad afferrare quale sarà la direzione, lo sbocco del cambiamento. L’innovazione è radicale quanto mai nel passato, ma ad essa nessuno riesce ad affiancare l’idea di progresso, di un cammino chiaro, progressivo, in avanti. Innovazione radicale senza progresso: c’è n’è abbastanza per esporre le persone a inquietudini diffuse e a mille interrogativi anche laceranti.

In un simile passaggio epocale emergono inesorabilmente gli interrogativi sulla collocazione degli esseri umani nella società e nella natura. È successo altre volte nel passato: ai grandi passaggi epocali è corrisposto un ripensamento della collocazione dell’uomo nel mondo.

La straordinaria stagione dell’umanesimo italiano ed europeo – per riprendere un esempio classico – è maturata nel passaggio dal mondo medievale al mondo moderno. In quel frangente storico, un passaggio drammatico come ci stanno ricordando tanti studi e pubblicazioni recenti (ricordo per la diffusione che hanno avuto gli studi di Michele Ciliberto e Massimo Cacciari), è maturata una nuova visione dell’uomo, del suo modo di concepire la sua collocazione sulla terra e nell’universo, di pensare e praticare il lavoro, le relazioni umane, di immergersi nella storia.

Anche noi oggi siamo dentro un passaggio epocale, di portata non dissimile a quello che, alcuni secoli fa, segnò la transizione all’età moderna. Stanno emergendo interrogativi di fondo che ci incalzano, a cui non possiamo illuderci di sfuggire. Ecco perché emerge la questione di un nuovo umanesimo.

 

4 – Non si tratta, quindi, solo di contrastare eccessi e intemperanze, neppure solo di frenare i deliri dei populismi sovranisti. Il problema è più profondo e ha carattere generale: bisogna affrontare e dare risposte positive a una trasformazione generale e globale i cui sviluppi ed esiti appaiono assai incerti.

Quando ci si addentra seriamente in queste riflessioni, tornano in mente le riflessioni di un giovanissimo filosofo tedesco, là dove nei suoi famosi manoscritti del 1844, annotava che “il prodotto del lavoro umano comincia ad ergersi minaccioso contro l’uomo stesso”. Da cui traeva la prospettiva di un umanesimo radicale nel quale umanesimo e naturalismo non potevano neppure essere pensabili separatamente. Scriveva il giovane Marx poco più che ventenne che “il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura” e che “la società è l’unità essenziale dell’uomo con la natura”.

Il nuovo umanesimo su cui vogliamo ragionare deve rispondere alla crisi dei legami sociali ed anche alla minaccia ambientale incombente. Fenomeni come il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la ricorrenza di fenomeni metereologici estremi segnalano quanto è minacciato l’equilibrio uomo – natura: una nube oscura si addensa sulla stessa riproduzione della specie umana. Umanesimo e naturalismo, per l’appunto, non sono più pensabili separatamente.

Il tema, in tempi recenti, è stato posto con particolare vigore da papa Francesco quando nella sua Enciclica ci ha ricordato che “tutto nel mondo è intimamente connesso”, ovvero che vi è una connessione inestricabile tra dimensione sociale, economica, demografica e ambientale.

In discussione – ecco il punto essenziale – sotto la spinta della gigantesca trasformazione in corso, è l’idea stessa di organizzazione del lavoro, della società, del rapporto con la natura. Ovvero in discussione è il modello stesso di sviluppo. La riflessione sul nuovo umanesimo si intreccia profondamente con quella per un nuovo modello di sviluppo. Il modello di sviluppo dei paesi industrializzati, abbiamo scritto nell’invito, non è più sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale. Per la libertà e la dignità degli esseri umani, per la salvaguardia del nostro ambiente, per la riproduzione stessa della specie umana urge pensare e imboccare un nuovo modello di sviluppo.

 

5 – C’è un lavoro immenso di ricerca, di progettazione, di costruzione che ci attende. Ci attendono nuovi conflitti sociali e nuove battaglie culturali. In questo orizzonte l’idea di un nuovo umanesimo può rappresentare la cornice ideale, il motivo ispiratore unificante.

Ma sorge a questo punto una domanda cui non possiamo sfuggire: queste idee sono destinate a restare pure riflessioni teoriche o riusciamo anche ad intravedere con quali gambe possano camminare? Domanda lecita. Anzi, decisiva.

Vi sarebbero tante ragioni per manifestare dubbi e scetticismo: lo scenario attorno a noi spesso è sconsolante. Eppure vi sono almeno due osservazioni che ci permettono di mantenere un atteggiamento di ragionata speranza.

La prima ci è proposta dalla cronaca politica. Che è tanto spesso avara di messaggi positivi. Ma vi è un punto che non dobbiamo sottovalutare: ogni qual volta sembra che le cose prendano la piega peggiore e stiano precipitando, c’è sempre qualcosa che frena e ostacola la deriva irreparabile. È successo anche stavolta: dopo uno strappo confuso, grazie anche a comportamenti ambigui, ma, alla stretta, l’ipotesi peggiore, il trionfo dei populismi sovranisti e xenofobi, non si è realizzata. Un pezzo grande d’Italia (forse sarebbe meglio dire: un pezzo grande d’Europa) non vuole imboccare questa strada, non vuole correre questo rischio: non è molto, ma non è neppure poco. Non sottovaluterei questa linea di resistenza: cercherei, con realismo, di farne tesoro.

Ma c’è dell’altro. Nella passata primavera, proprio mentre il clima politico e sociale tendeva al peggio, vi sono state alcune reazioni di grande interesse. Proprio qui a Milano.

Ricordo il 2 marzo: quella straordinaria manifestazione “People”, promossa da un amplissimo cartello di associazioni. Quel giorno una folla imponente ha invaso le strade di Milano nel nome del solidarismo, del mutualismo, della cooperazione, della responsabilità ambientale. Non era mai accaduto. Si è trattato del venire alla luce, o meglio del condensarsi assieme per la prima volta, di mille energie che sono già all’opera, che nei fatti si muovono in un orizzonte diverso rispetto all’ossessiva centralità dell’homo oeconomicus imposta dal pensiero neoliberale, e che ora, a quanto hanno lasciato intravedere, vorrebbero tentare di mettersi assieme per fare sentire la propria voce, per imprimere un segno diverso allo spirito del nostro tempo.

Pochi giorni dopo, verso la metà di marzo, una marea di giovani e di giovanissimi ha risposto all’appello di Greta Thunberg, di Fridays for future. Poteva accadere, poteva non accadere: qualcuno ha detto che era una partecipazione leggera, trascinata mediaticamente, basata su una motivazione emotiva e superficiale. Resta il fatto che la piazza milanese si è riempita di ragazzi come mai in precedenza. E quella mobilitazione non si è spenta: basti pensare al week end appena passato, alle scadenze programmate per i prossimi giorni. C’è tutto un lavoro, una discussione, una mobilitazione capillare che sta continuando. Per di più si tratta di una mobilitazione globale, che investe tanti paesi del mondo. Quei ragazzi – del mondo! – ci parlano di umanesimo e naturalismo globale, di un nuovo umanesimo cosmopolitico. Tante volte abbiamo lamentato la passività dei ragazzi: ora che c’è davvero qualcosa che si muove prendiamone atto e assumiamoci le nostre responsabilità.

Ho fatto riferimento a due fatti diversi, ma entrambi segnalano che nella società qualcosa si sta muovendo. Sono queste, mi sembra, le prime energie sulle quali contare per fare vivere il progetto di “un nuovo umanesimo”.

“LA LUNGA ECLISSE Passato e presente del dramma della sinistra” di Achille Occhetto

Legnano – Venerdì 22 marzo, Libreria Nuova Terra

Presentazione del nuovo libro di Achille Occhetto,
La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra
(Sellerio Editore)

 

1 – Ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare alla presentazione di questo libro di Occhetto. Perché si tratta di un bel libro, appassionato e profondo. E anche perché è un vivo piacere poter discutere con Achille Occhetto.

Tutti sappiamo che Occhetto è stato l’ultimo segretario del PCI, anche se per poco tempo, ed è poi diventato per cinque anni il primo segretario del partito nato dal PCI, il PDS. Non sempre però ricordiamo cosa sono stati quei sei anni in cui Occhetto è stato segretario nazionale: gli anni della più tumultuosa tempesta politica di tutto il dopoguerra italiano.

Nell’89 un evento decisivo su scala globale: il crollo del muro. Nel ’90: l’avvento sulla scena politica italiana dei primi movimenti identitari regionalista: la Lega lombarda e la Liga veneta, il primo segno della futura irruzione populista. Nel ’92 lo scoppio di Tangentopoli che di fatto ha liquidato il sistema politico della Prima Repubblica. Nel 93 – 94 l’irruzione di Berlusconi, il primo miliardario outsider che si impone sulla scena politica mondiale, l’apripista del populismo mediatico.

Occhetto ha traghettato il grosso del suo partito al di là di quella immensa bufera. Certo, la sua direzione si conclude con una sconfitta elettorale alle elezioni del ’94, ma con giusto orgoglio può scrivere che la sinistra sconfitta in quelle elezioni era ancora in piedi, con 12 milioni di voti e una vitalità che le avrebbe permesso da lì a poco di reagire e tornare protagonista sulla scena italiana.

Penso che Occhetto abbia ragione. Anzi sia doveroso aggiungere che le forze traghettate oltre quell’immensa bufera hanno rappresentato l’unica formazione politica che sia riuscita a non farsi travolgere dall’ecatombe del ’92, e che esse sono state, di fatto, l’ossatura portante del centrosinistra nei due – tre decenni successivi.

2 – Veniamo al libro. Il titolo innanzitutto: l’autore parla di “Eclisse” e non di “crollo” per segnalare un offuscamento drammatico della sinistra, ma non una sua sparizione definitiva.

Per ricostruire la ragioni di questa “eclisse” Occhetto si impegna in una accurata, severissima, perfino spietata analisi storica. La lente del passato, ovvero, come l’autore stesso dice, lo sguardo sul “presente come storia e sulla storia come presente”, è adottato con una serietà e con un impegno oggi desueto, in tempi in cui si la conoscenza storica è svalutata oppure ridotta a semplice erudizione.

Lasciatemi sottolineare questo punto. Nel 92, come ben sappiamo, è stato distrutto e liquidato il partito italiano dalle radici più antiche, il Partito socialista. Così pure un altro grande partito che aveva governato l’Italia per quarant’anni, la DC, cede di colpo pezzi enormi del suo elettorato prima al localismo identitario leghista e, poi, al populismo mediatico berlusconiano. Nell’un caso e nell’altro non abbiamo letto – da parte di chi aveva diretto questi partiti – riflessioni così impegnative sulle motivazioni di simili schianti. Occhetto, invece, che ha guidato l’unico partito sopravvissuto alla bufera, si immerge in una ricerca tanto appassionata quanto dolorosa sulle radici di lungo termine della crisi del suo partito.

La riflessione di Occhetto segue un preciso filo conduttore: ovvero cerca di spiegare come sia stato possibile che un movimento come quello comunista, che ha generato immense speranze nel mondo, abbia potuto andare incontro a un processo di involuzione che lo ha portato addirittura alla sua dissoluzione. Questa ricostruzione storica è intessuta di osservazioni non scontate, di vivo interesse. Come le pagine – che vorrei riprendere per un attimo – sull’internazionalismo, da Occhetto indicato come il fattore di maggiore fascino del movimento operaio e del movimento comunista.

Leggendo il libro mi è venuta in mente quella scena del film “Il giovane Marx” – probabilmente l’avete visto – in cui viene cambiato lo striscione che sovrasta la riunione della Lega dei Giusti e per la prima volta appare la scritta: “proletari di tutto il mondo unitevi”. Siamo nel 1848: è il primo momento in cui quella parola d’ordine appare nella storia: essa si imporrà nel mondo grazie al Manifesto di Marx e di Engels.

Occhetto ricostruisce la potente forza espansiva di quella idea, raccolta e rilanciata dai comunisti durante e dopo la Grande Guerra, ma anche il modo con cui viene progressivamente svilita e accantonata. Un passaggio chiave, sottolinea l’autore, si ha quando ad essa viene sovrapposta la teoria dei “due campi”, quello socialista e quello capitalista. Ovvero una teoria che rattrappisce e congela l’internazionalismo: da una parte un campo socialista che si autocelebra e dall’altra un campo capitalista di cui non si colgono le contraddizioni e le potenziali evoluzioni. L’internazionalismo viene di fatto ridotto alla difesa degli interessi dello stato guida del campo socialista. La conseguenza, dice Occhetto, – e si tratta di osservazione decisiva – è che il movimento operaio e quello comunista perdono sempre più peso sulla scena globale, fino a lasciare il terreno sgombro per l’affermazione della “globalizzazione”, ovvero per quello che potremmo chiamare l’internazionalismo delle classi dominanti.

Questa riflessione, ad ampio respiro, sulla grande storia si intreccia nel libro con il vissuto personale dell’autore, con le scelte e le passioni di Achille Occhetto, giovane militante e poi dirigente comunista. Il tono del libro, il pathos che esso riesce a trasmettere, sta proprio in questa sovrapposizione tra il grande dramma della storia e le vicende personali dell’autore.

La parabola del comunismo, la sua espansione e poi la sua crisi, vengono così raccontate nel loro intreccio con le scelte dei comunisti italiani: ne emerge la diversità del comunismo italiano (nella ricostruzione di Occhetto giganteggia, giustamente, la figura di Antonio Gramsci), ma anche la persistenza del legame con l’URSS.

Nella sua ricostruzione Occhetto non si perdona nulla, neppure quella sua giovanile celebrazione di Giuseppe Stalin – di cui mai nessuno gli avrebbe chiesto conto – che ha la ventura di leggere nella sua sezione all’età di 17 anni, in occasione della morte del despota sovietico. La ricostruzione storica è arricchita anche dal racconto di alcuni fatti – pochi ma interessanti – cui Occhetto ha partecipato in prima persona. Uno almeno devo richiamarlo: l’ultimo incontro con i comunisti cinesi, quello in cui avvenne la rottura definitiva. La delegazione del PCI si incontrò con una delegazione cinese al più alto livello, guidata dal segretario Deng Xiao Ping. Si ragionò della guerra nel Vietnam che stava iniziando: i comunisti cinesi esplicitarono la loro speranza che la guerra si internazionalizzasse fino a un loro possibile coinvolgimento, senza escludere la possibilità dello sbocco in uno scontro atomico. Consiglio vivamente la lettura di queste due pagine, che Occhetto estrae dal diario che aveva scritto durante quel viaggio: si tratta di un documento sconcertante, perfino terribile. Che costringe a riflessioni severe e profonde.

In questa narrazione storico – politica l’89, il crollo del “muro” e poi di tutto il socialismo reale, è un evento tutt’altro che improvviso: è il punto di arrivo di una crisi maturata in un tempo assai lungo. È in questo scenario di drammatica profondità storica, dentro questa crisi di lunga durata, che Occhetto colloca la scelta cui, più di ogni altra, è inesorabilmente legata la sua direzione: la “svolta”, il superamento del PCI e la costruzione di un nuovo partito.

 

3 – Ma vi è anche una seconda parte del libro. Essa esplicita il “paradosso” – il termine che usa Occhetto stesso – dei nostri tempi: la risposta alla grande crisi, alle contraddizioni crescenti della globalizzazione non viene da sinistra, ma da “una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista”. “Il vuoto lasciato dalla sinistra è occupato dai populismi”. “Nei quattro angoli del pianeta- scrive anche l’autore – la classe operaia sta voltando le spalle alla sinistra”.

Si tratta di un fenomeno di tale portata che richiede ancora una volta una riflessione a tutto campo, uno scavo per ricostruire anche i passaggi storici in cui si è determinata questa sconcertante torsione politica. Il problema è capire le ragioni per cui non si è stati in grado di costruire una fuoriuscita a sinistra dalla crisi del comunismo, perché invece il ripudio del comunismo abbia generato un riformismo acritico, debole, senza respiro globale, senza visione della società.

Occhetto propone al riguardo riflessioni stimolanti che toccano nodi essenziali del dibattito attuale, o forse sarebbe meglio dire, di quello che dovrebbe essere il dibattito attuale.

Non le riprendo qui: sto parlando anche troppo. Accenno solo al punto essenziale: la debolezza critica di un riformismo minimalista. “La crisi del socialismo europeo – scrive l’autore – sta nella flebile critica all’attuale modello di sviluppo”. “Si è smarrito l’orizzonte. Si è fatto coincidere il crollo del comunismo con il crollo della sinistra. Si è offuscata la possibilità stessa di un mutamento del modello di sviluppo e di una risposta ai nuovi problemi globali nel nome del bene comune dell’umanità”.

Mi limito a dire: condivido appieno queste severe e amare considerazioni.

 

4 – Un’ultima riflessione. L’ultima volta che ho incontrato Occhetto, in occasione della presentazione del suo precedente libro, “Pensieri di un ottuagenario”, mi è capitato di affidargli uno sfogo personale e doloroso, la mia sensazione di un drammatico sfaldamento dell’insieme del mondo della sinistra. Eravamo ancora lontani dalle elezioni del 4 marzo, ma non ci voleva molto per capire come sarebbero finite e per leggere cosa stava accadendo attorno a noi.

Mi sembra una buona cosa poter chiudere questa breve presentazione con un tono un poco diverso. Da allora qualcosa si è mosso, nel profondo della società, e qui a Milano – forse – lo abbiamo potuto toccare con mano meglio e più che altrove. Sto pensando alla grande manifestazione del 2 marzo, “People, prima le persone” e, poi, allo straordinario successo venerdì scorso della manifestazione “Fridays for future”.

C’era qualcosa di nuovo in queste manifestazioni. Nuove modalità organizzative: il motore trainante è stata la partecipazione dal basso, tramite un variegato tessuto associativo. Nuovi messaggi: mutualismo e civismo quali motori trainanti di un nuovo solidarismo. E ancora: tanti, tantissimi giovani, con una loro embrionale cultura critica.

Mi piace richiamare questi fatti a conclusione di un ragionamento sulla crisi drammatica della nostra sinistra. Forse nella società, tra i giovani, qualcosa si sta muovendo. Forse è giunto il momento per rimettere in circolo – finalmente – anche qualche parola di speranza.

QUALE FUTURO PER LA DEMOCRAZIA? *

Cattura

1 – Da qualche anno in occasione della ricorrenza della fondazione della Casa della Cultura proponiamo un incontro per evidenziare e approfondire i nodi su cui si sta concentrando la nostra riflessione. Due anni fa abbiamo ragionato sulle implicazioni degli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica: “Il futuro dietro l’angolo”, abbiamo proposto. Lo scorso anno abbiamo focalizzato la questione del “senso”, ovvero del dove si sta andando. Quest’anno abbiamo deciso di ragionare sul “futuro della democrazia”.

C’è stato un passaggio storico – nel decennio che è seguito alla caduta del Muro – in cui la democrazia appariva come una forma politica trionfante e indiscutibile. Si era messa in moto quella che Huntington chiamò la terza ondata della democratizzazione: i regimi dittatoriali e autoritari sembravano cedere “naturalmente” il passo alla democrazia e il sistema democratico veniva celebrato come il nostro destino certo e indiscutibile.

Oggi, a distanza di venti – trent’anni, si respira un’aria molto diversa, con tanti e difficili interrogativi che si stanno addensando. Vi sono segnali di ritorno a regimi illiberali e tanti altri di trasformazioni profonde della democrazia stessa.

2 – Cominciamo con uno sguardo fotografico, a tutto campo. Esso ci segnala in modo inoppugnabile che alla fine del secolo scorso la qualifica “democratico” è stata distribuita con qualche eccessiva generosità.

Molti paesi cui era stata attribuita la qualifica di democratici dopo la “terza ondata” ci appaiono oggi “democrazie elettorali” piuttosto che democrazie liberali. Il che significa che al diritto di voto corrisponde un pluralismo alquanto zoppicante e un sistema di garanzie – per le minoranze politiche e per l’insieme dei cittadini – che dobbiamo definire per lo meno rudimentale.

C’è poi un altro gruppo di paesi nei quali si stanno verificando veri e propri processi involutivi. Si tratta di realtà distribuite in varie parti del mondo: si va da alcuni stati dell’Est europeo – come la Polonia e l’Ungheria – ad altri di importanza cruciale nel medio Oriente come la Turchia fino a paesi dell’America Latina come il Venezuela e, per altri aspetti, il Brasile. Sembrava avessero imboccato saldamente la strada della democrazia, ma ora stanno virando verso forme neo – autoritarie. Nell’est europeo è stata coniata dagli stessi protagonisti la formula “democrazie illiberali”, di per se stessa assai eloquente. La Turchia, dopo il tentato golpe, si è immersa in una spirale di arresti, di intimidazioni e di svuotamento dei contrappesi e delle garanzie democratiche. In Sud America sta ritornando prepotente la tentazione del caudillismo: difficile spiegare altrimenti la sconcertante elezione a Presidente del Brasile di quel Bolsonaro che si autoproclama fascista e nostalgico dei gorilla militari.

Ma c’è dell’altro: vi sono segni di sofferenza del sistema democratico anche nel cuore dei paesi a più lunga e consolidata tradizione democratica. Essi si manifestano attraverso un sintomo ben preciso: il dilagare del populismo. A breve giro di termine la Brexit, l’avvento di Trump e la vittoria dei giallo – verdi in Italia squadernano dinanzi agli occhi il rischio di un’involuzione delle nostre democrazie. L’eruzione dei populismi è il sintomo di una grave crisi democratica: una crisi di rappresentanza. Ovvero, l’esplosione di una profonda insoddisfazione sociale e politica che cerca affannosamente nuove strade per imporsi sulla scena pubblica.

Nell’insieme un quadro di trasformazione e di sofferenza della democrazia sulla quale riteniamo opportuno soffermarci con la dovuta attenzione. Per mettere a fuoco un interrogativo: siamo a una crisi nella democrazia o a una crisi della democrazia?

3 – Ma quali sono i fattori che hanno reso difficile il consolidamento dei nuovi regimi democratici e che hanno messo in sofferenza anche le democrazie più consolidate? A me sembra che sia possibile individuare tre grandi nodi che si sono via via sovrapposti e intrecciati tra di loro.

Prima questione: la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel diciannovesimo e ventesimo secolo, era intimamente collegata allo stato nazionale. La sovranità dei cittadini si è sempre esercitata dentro i confini dello stato nazionale. Ma è indubbio che la globalizzazione, quella che si è dispiegata negli ultimi trenta – quarant’anni, quest’ultima globalizzazione, mette in sofferenza gli stati nazionali. Ho detto: questa globalizzazione, perché altre precedenti globalizzazioni hanno visto come protagonisti gli stessi stati nazionali che arrivarono a contendersi fragorosamente il dominio e il controllo del globo.

Quest’ultima globalizzazione, invece, ha generato e messo in movimento potenti forze sovranazionali. Senza ombra di dubbio è emersa come protagonista assoluta la finanza globale. Per non parlare dei giganteschi conglomerati che hanno bilanci superiori a quelli di larga parte degli stati nazionali e che sfuggono inesorabilmente al controllo e al condizionamento dei singoli paesi. Gli stati hanno visto sottrarsi molti poteri sulla regolamentazione dei mercati, sulla produzione, sulle comunicazioni mentre, per altro verso, proprio per fronteggiare questa situazione inedita, hanno ceduto altri poteri a nuovi organismi sovranazionali. Nell’un caso e nell’altro hanno visto restringersi i campi su cui esercitare la propria sovranità.

Ancora, sono emersi problemi di ordine e grandezza globale dinanzi ai quali ci si è sentiti privi di strumenti adeguati per intervenire. Si pensi ai movimenti delle popolazioni o al problema del riscaldamento globale, della minaccia del cambiamento climatico.

Qui, a me sembra, nella debolezza e nella crisi di ruolo degli stati nazionali, sta una delle ragioni principali della crisi di legittimazione che ha investito tutti i regimi politici nel mondo e che, ovviamente, si manifesta con particolare acutezza proprio nei paesi democratici, là dove i cittadini hanno i canali aperti attraverso cui fare sentire la propria voce.

Non sono mancati generosi tentativi di supplire allo svuotamento della cittadinanza nazionale proponendo e inseguendo una inedita cittadinanza globale. In effetti si è formato un embrione di opinione pubblica globale, che di tanto in tanto, su specifiche questioni, riesce a fare sentire la propria voce. Si sono formati anche soggetti che si muovono a tutto campo sulla scena globale: si pensi alla rete delle ONG e alla loro influenza su alcune rilevanti questioni. La stessa giornata di lotta odierna – con i tanti giovani che si stanno mobilitando nel mondo intero – segnala il formarsi di un movimento globale di opinione pubblica che si propone di contrastare il cambiamento climatico.

In Europa, come ben sappiamo, si è andati oltre: si è costruita ex novo istituzione continentale per dare uno sbocco alla insufficienza dello stato nazionale: l’Unione Europea è stato il tentativo più coraggioso di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di realizzare una nuova sfera di sovranità democratica sovranazionale.

Ma in realtà né il sogno della cittadinanza globale né il progetto della cittadinanza europea sono riusciti a creare meccanismi democratici alternativi, sovranazionali, tali da mitigare e bilanciare lo svuotamento della sovranità nazionale. Si è aperto un vuoto nell’esercizio della sovranità democratica: esso ha eroso la legittimità dei regimi politici democratici dentro ogni singolo paese. In questo vuoto si è formato l’humus dei nuovi sovranismi, dentro i quali sentiamo ribollire umori inquietanti, intolleranti, xenofobi, al fondo antidemocratici.

4 – Seconda questione: gli sviluppi di questi ultimi decenni hanno spezzato il nesso, per quanto discusso e problematico, che ha legato tra di loro democrazia e uguaglianza. Antica questione su cui, da angolature assai diverse, hanno scritto cose decisive nella fase aurorale delle democrazie occidentali due giganti del pensiero come Toqueville e Marx. Il filosofo tedesco per dire che si trattava solo di uguaglianza formale, mentre l’aristocratico francese segnalava che con l’introduzione della democrazia si era messo in moto un processo inarrestabile verso l’uguaglianza.

Lasciamo pure sullo sfondo le suggestioni e implicazioni teoriche di questa discussione e stiamo ai fatti. La democrazia nel dopoguerra si è consolidata nei paesi occidentali perché ha dischiuso una stagione di inclusione sociale e ha realizzato un sistema straordinario di protezione sociale. L’ascesa del mondo del lavoro e la costruzione del welfare sono i tratti distintivi della democrazia nel dopoguerra, della democrazia dei trent’anni d’oro, della stagione segnata dalla cultura e dai valori dell’antifascismo.

La legittimazione popolare della democrazia, il suo fascino anche nel mondo popolare, è intimamente legato a questi processi sociali e politici. Durante quella stagione il sistema politico democratico ha saputo raccogliere e organizzare le domande dei cittadini, compreso quelle della parte più debole e disagiata della democrazia: la cittadinanza democratica ha trovato i suoi canali di scorrimento, ha avuto un significato vivo e pulsante. Tutto ciò ha cominciato ad essere messo in discussione dai primi anni Ottanta.

La democrazia inclusiva di questo dopoguerra ha iniziato da allora a scricchiolare. Si sono progressivamente occlusi i canali della rappresentanza democratica: pesa qui la progressiva, inarrestabile, frantumazione del lavoro: il peso politico del mondo del lavoro si è via via ridotto. A seguito dell’indebolimento del mondo del lavoro si è affievolita, spenta anche la voce della parte più disagiata della società. La solidarietà è evaporata e l’individualismo si è radicalizzato.

L’effetto complessivo ci è ben noto: le disuguaglianze hanno iniziato a ricrescere. Il tutto accompagnato da un mutamento profondo del clima culturale: l’uguaglianza sociale ha perso il carattere di valore – di idea limite – verso cui tendere. Anzi, nell’arena pubblica ha preso via via più forza un’argomentazione che legittima la disuguaglianza.

Possiamo dire che nell’insieme si è verificato uno scivolamento, potremmo dire perfino uno stravolgimento, della democrazia: essa, dopo essere stata per trenta e più anni, la forma politica nella quale ha potuto realizzarsi una progressiva ascesa delle classi subalterne, si è trasformata nella forma politica migliore per la legittimazione del potere delle classi dominanti. In altre parole, si è verificato un autentico rovesciamento della percezione sociale della democrazia. Politologi e storici come john Dunn e Tony Judt hanno sollevato per tempo la questione: oggi è impossibile prescindere da questo nodo dalle immense implicazioni.

5 – A tutto ciò dobbiamo aggiungere, dall’inizio del nuovo secolo, un processo nuovo, l’ultimo che si è delineato ma non per questo meno rilevante: il tendenziale passaggio – nel quale siamo immersi – dalla democrazia organizzata alla democrazia disintermediata.

Tocchiamo qui un nodo ancora poco riflettuto, ma di immense implicazioni: la crisi dei corpi intermedi, i partiti soprattutto, accelerato dalle applicazioni alla vita pubblica delle nuove tecnologie dell’informazione. Qualche problema stava già emergendo ai tempi della crescita esplosiva del sistema mediatico: l’overload informativo, la sovrabbondanza del sistema dell’informazione, stava iniziando a deformare lo spazio pubblico. Ma negli ultimi anni è accaduto qualcosa che va ben oltre: la Rete prima, e poi i social, stanno letteralmente trasformando la vita pubblica.

C’è già un’ampia letteratura sul “direttismo”, sul fascino della semplificazione, sul trionfo delle emozioni a scapito delle argomentazioni. A tutto ciò bisogna aggiungere la tendenza ultimissima, quella legata all’esplosione dei social, ovvero il peso crescente della gestione dei big data, della profilazione degli utenti della Rete tramite algoritmi, l’uso del fake e il ricorso crescente ai bot per inchiodare i frequentatori dei social nelle loro echo – chambers.

I soggetti che guidano e strutturano la discussione sulla Rete si stanno disincarnando: la discussione è suscitata e diretta da strumentazioni tecniche che agiscono e colpiscono automaticamente, sprigionando anche un’inaudita carica di aggressività e di violenza nel confronto pubblico. L’utopia che aveva accompagnato l’ascesa della Rete, l’autoproduzione di massa delle notizie e dei commenti, si sta trasformando nel suo esatto contrario, in un’autentica distopia. Sto accennando a fenomeni ancora poco conosciuti ma con i quali ormai dobbiamo confrontarci giorno per giorno: si pensi al sistema di comunicazione del ministro degli Interni, e all’algoritmo, detto “La Bestia”, con cui gestisce la sua presenza sulla Rete e con cui scatena le sue campagne.

Sono mutamenti profondi, radicali, rapidissimi, che sollevano domande inquietanti. In questa situazione dove e come si forma l’opinione pubblica? Dove è finita quell’opinione pubblica ben informata che avrebbe dovuto formarsi con il dibattito razionale suscitato e gestito dai corpi intermedi di cui ragionava all’incirca quarant’anni fa Jurgen Habermas?

È dentro queste dinamiche che la semplificazione populista e il leaderismo populista trovano il terreno di coltura ideale.

6 – Ho indicato alcuni cambiamenti profondissimi che stanno investendo la democrazia. Essa sta cambiando, anzi è cambiata profondamente. Questi processi, come ben sappiamo, generano mutamento, stravolgimento, crisi.

Il problema, per riprendere la domanda da cui siamo partiti, è se questi mutamenti profondi hanno generato una crisi della democrazia oppure una crisi nella democrazia. Ovvero, se la democrazia riesce ad avere gli anticorpi per evitare processi degenerativi.

Per evitare che lo sbocco di questa crisi sia lo sfarinamento dei corpi intermedi, il prevalere, in un’opinione pubblica scomposta e frantumata, dominata da passioni ed emozioni incontrollate, nel segno della paura, della rabbia, dallo spirito di rivalsa e di ritorsione, con cittadini pronti a identificarsi con, e a consegnarsi nelle mani di leader autoritari. Si tratta di uno scenario inquietante, ma tutt’altro che irreale, uno scenario cui il “popolo” ( il cittadino dimenticato, la parti più disagiate della popolazione) tornerebbe in primo piano ma in un contesto di valori e di politiche autoritario e reazionario.

Nel qual caso resterebbe, probabilmente – (probabilmente non significa sicuramente!) – l’involucro democratico, ovvero il ricorso periodico al voto dei cittadini, ma con garanzie liberali indebolite e senza più quella crescita civile e sociale che è stata il motivo più profondo di fascino, di attrazione e di legittimazione delle nostre democrazie.

7 – Insomma, mi sembra opportuno riflettere seriamente sul fatto che questa crisi possa avere sbocchi anche molto inquietanti. La minaccia populista, il sintomo di questa crisi, deve essere presa molto sul serio: il “momento populista” può essere di non breve durata e può avere sbocchi anche molto sgradevoli.

Si tratta di pensare a come costruire uno sbocco positivo a questa crisi. Ma per questo bisogna avere il coraggio di andare alla radice dei problemi. Per altro a me sembra evidente che i nodi accennati – la visione acritica della globalizzazione, la torsione neoliberale della democrazia, l’ingenua fiducia nella Rete – toccano direttamente il nostro mondo culturale e politico di riferimento: un po’ tutti noi, noi inteso come il mondo della sinistra nel suo insieme, siamo spinti – a me sembra – a una coraggiosa e profonda azione di ripensamento. Se vogliamo, ovviamente, non lasciarci travolgere dai segnali inquietanti di crisi democratica che si sono addensati.

*Milano, 15 marzo 2019, in occasione del 73° della Casa della Cultura

INTERVENTO ALLA TAVOLA ROTONDA: EUROPEISMO DELLE IDENTITÀ E DELLE DIFFERENZE

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Forum Europeo di Psicoanalisi
Amore e odio per l’Europa – Forum di Milano
Sabato 16 febbraio 2019, presso l’Aula Magna
dell’Università Statale DI Milano

A conclusione del convegno: Amore e odio per l’Europa, convocato presso l’aula magna dell’Università statale dall’associazione internazionale dei lacaniani – milleriani il 16 febbraio 2019

 

1 – Il titolo del convegno – Amore e odio per l’Europa – esprime magnificamente le passioni estreme che si stanno condensando in Europa e che, fra l’altro, danno un sapore inedito all’ormai prossimo rinnovo del Parlamento Europeo.

Queste due passioni estreme sembrano coesistere, anche se di questi tempi vi è una tendenza prevalente: dall’amore per l’Europa si è passati al disagio, all’insofferenza, perfino all’odio. Questo slittamento nell’umore pubblico si tocca con mano soprattutto in Italia, fino a pochi anni fa il paese con i più radicati sentimenti europeisti (l’Europa era vista come l’estrema ancora di salvezza rispetto alle incertezze delle classi dirigenti italiane), oggi governato da due formazioni populiste che nella campagna elettorale hanno esasperato i toni antieuropeisti, sia come polemica contro la casta europea sia come rivendicazione sovranista.

 

2 – Altre volte nella storia dell’Europa moderna gli umori sono cambiati bruscamente. All’Europa illuminista è subentrata, dopo le guerre napoleoniche, l’Europa romantica nella quale si sono costruite e assestate le principali nazionalità europee.

Verso la fine dell’Ottocento l’Europa sembrava avere imboccato una nuova era di pace, la Belle Epoque per l’appunto. Un momento storico affascinante, ma che si rivelò fragile ed effimero: quei quarantacinque anni di pace furono possibili perché le tensioni intraeuropee erano scaricate nella conquista imperiale del mondo. Quando, conquistato il mondo intero, si dovette decidere quali fossero le potenze dominanti in Europa si precipitò nella moderna “guerra dei trent’anni”, in quei due terribili conflitti globali nati proprio qui, nel cuore del nostro continente.

Dopo la seconda guerra l’Europa sembrò avere appreso la lezione: le frontiere vennero gradualmente abolite, vennero inventate – primi nel mondo- istituzioni nuove, sovranazionali. Dal Mercato Comune alla CEE fino all’Unione Europea, cui aderivano, prima della Brexit, ben vent’otto paesi. Oggi sembra un sogno sfocato: la più coraggiosa innovazione politica del dopoguerra ora sta scricchiolando in modo inquietante.

 

3 – Perché questo rigetto? Molti sostengono che si tratta delle conseguenze della “grande crisi economica”, di quella crisi a doppia tornata, che in Europa ha colpito prima nel 2008 e poi nel 2011. Questione serissima: l’Italia non ha ancora recuperato i livelli economici precedenti alla crisi. Per di più la gestione europea della crisi è stata quanto meno discutibile: è indubbio che nel 2011 la Germania (e i paesi ad essa più strettamente collegati) hanno imposto una “austerità” che sarebbe stato saggio evitare. Aggiungiamo che da troppo tempo una parte troppo grande di cittadini non migliora la propria condizione: molti anzi, soprattutto i più giovani, avvertono uno slittamento all’indietro delle proprie condizioni di vita.

Eppure questa spiegazione non è esaustiva. Gli scricchiolii non nascono solo nei paesi economici in sofferenza: si avvertono anche in paesi in pieno boom (si pensi alla Polonia) e anche altri che hanno saputo reagire prontamente al doppio colpo del 2008 e del 2011.

Per di più sintomi del tutto analoghi a quelli che scuotono l’Europa stanno dilagando in paesi non europei. La presidenza americana di Trump, il fatto politico più sconcertante dei nostri tempi, ci esonera da quell’osservazione che tante volte nel passato è uscita dalla nostra bocca: “queste cose in America non succedono”. Succedono anche in America, purtroppo, perfino di peggio. Per non parlare poi di una vicenda scioccante come quella del Brasile: un grande paese che elegge Presidente un nostalgico dei “gorilla”, un uomo che in campagna elettorale ha rivendicato il diritto non solo a torturare ma anche a uccidere gli avversari.

 

4 – Cosa sta accadendo? Di certo qualcosa di maledettamente serio.

L’ipotesi interpretativa che vorrei proporvi è che negli ultimi trent’anni la globalizzazione, lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica e l’ideologia neoliberale – i tre processi dominanti degli ultimi decenni – hanno impresso un’accelerazione vertiginosa ai cambiamenti, hanno determinato “una nuova grande trasformazione”. Ma il tutto è avvenuto senza alcuna cabina di regia, al traino di una crescita tumultuosa dei mezzi che ha reso evanescente, perfino cancellato, ogni finalità.

Nell’insieme si è innescato un cocktail micidiale di cambiamenti che oggi a tante, troppe persone sembra sfuggito a ogni controllo. Il lavoro, la comunicazione, lo spazio fisico, la vita delle persone hanno iniziato a cambiare a ritmi vertiginosi; l’innovazione è diventata inarrestabile anzi: ognuno è sollecitato a immergersi e a portare il proprio contributo all’innovazione continua. Ci sente scagliati dentro un vortice di cambiamento, gettati nel futuro, ma un futuro che appare indecifrabile: un “futuro addosso”, come ho titolato il mio ultimo lavoro.

Il futuro incombente genera nostalgia: un sentimento oggi diffusissimo. Retrotopia, ha scritto Baumann in un suo libretto postumo. Siamo in tempi di nostalgia, ovvero in tempi neoromantici. In estrema sintesi: è esplosa la percezione del tempo e dello spazio. Ecco perché torna, prepotente, il tema dell’identità, la questione che avete giustamente proposto per questa tavola rotonda finale.

 

5 – Ragioniamo attentamente. Il sogno universalistico dell’Europa unita, delle frontiere aperte, di diritti uguali per tutti sembra in ritirata. In tutti i paesi ci si confronta con un’opinione pubblica incerta, inquieta, che cova sentimenti di rabbia e rancore che possono esplodere in ogni momento: si pensi ai “gilets jaunes”.

È in questo contesto generale che sta emergendo e dilagando il richiamo a identità particolari, alle identità nazionali innanzitutto – ecco il ritorno dei nazionalismi, detti sovranismi in polemica con il potere sovranazionale dell’Europa -, alle identità subnazionali (la Catalogna e, contrapposto ad essa, la rabbiosa risposta del voto andaluso), oppure alle comunità etiche (in Italia: la “comunità degli onesti” contrapposta alla casta, alle élites tradizionali).

Da dove viene tutto ciò? Capirlo non è facile: probabilmente è opportuno innovare con coraggio le stesse categorie interpretative. A me sembra che le persone si sentano immerse in processi che stanno scuotendo la loro vita quotidiana, che alterano e compromettono le relazioni con gli altri, che percepiscono come una minaccia.

Tre fenomeni, soprattutto, mi sembrano decisivi: la disintermediazione, la solitudine involontaria, lo spaesamento. La disintermediazione è il fenomeno tipico dei nostri tempi: sospinta dal digitale, essa diffonde l’illusione dell’onnipotenza dell’individuo mentre, in realtà, smontando i tessuti organizzati della società, ne accentua la fragilità e l’esposizione al rischio. La solitudine involontaria, antica questione segnalata dai filosofi morali come il peggiore castigo per gli esseri umani, si sta diffondendo in profondità, erodendo il tradizionale tessuto della solidarietà sociale. Terzo, non meno importante: lo spaesamento, ovvero la difficoltà di orientarsi in una mole crescente di stimoli e di informazioni cui non corrispondono adeguati strumenti di decodifica.

Di tutto questo ci ha parlato due, tre anni fa Ken Loach in un film bellissimo, premiato con la Palma d’oro a Cannes, “Io Daniel Blake”. Il film parlava di un falegname di mezza età, Daniel Blake, che non riusciva più a orientarsi in un mondo dove tutto stava cambiando con tanta rapidità. La sua professionalità, le sue competenze improvvisamente erano svalutate: il mondo circostante si era fatto ostile, respingente. Ciò che prima era lineare e afferrabile si era fatto complicato e ambiguo: per ovviare alla disoccupazione viene indirizzato ai centri per l’impiego, strutture burocratiche che si rivelano per lui una trappola mortale.

Per tante persone la realtà quotidiana comincia ad assumere una dimensione ambigua, sfuggente, perfino minacciosa. Di certo non è la prima volta che accade. Pensiamo al modo come si è evoluta la percezione dello straniero tra gli antichi. Lo straniero veniva chiamato hostis, l’ospite, ma a un certo punto questa stessa parola assunse anche un significato diverso, l’ospite belligerante. Un passo ancora e l’hostis divenne il nemico. Lo straniero divenne a un tempo ospite e nemico. Questa ambiguità si produsse molti millenni fa, ma qualcosa del genere si sta riproducendo anche sotto i nostri occhi.

Freud nel 1919 introdusse un concetto che a me sembra meriti di essere richiamato, l’unheimlich, il perturbante. Qualcosa che ci è noto e familiare, ma che nel contempo suscita inquietudine, paura, perfino spavento. Mi chiedo se quello che sta accadendo attorno a noi (la disintermediazione, la solitudine involontaria, lo spaesamento) non stia trasformando la realtà quotidiana, ciò che ci è noto e familiare, in qualcosa di fastidioso, urtante, minaccioso. Come se il perturbante, l’unheimlich, fosse entrato prepotentemente nelle nostre vite.

 

6 – La spinta identitaria, ovvero la ricerca di protezione e di scurezza attraverso identità nettamente definite, viene cavalcata dai movimenti e dalle formazioni populiste. I populismi sono tanti e diversi tra di loro (ne ho classificati sei: i nazional – populismi, i populismi identitari, i populismi patrimoniali, i populismi dell’antipolitica, i populismi mediatici e quelli per contagio), ma vi sono tratti ben precisi che li accomunano. Uno soprattutto merita di essere richiamato, perché fra tutti il più pericoloso: i populismi, tutti, senza eccezione alcuna, si affermano sulla base dell’identificazione con un leader supremo, incontrastato.

Una folla di uomini soli, privi di solidi ancoraggi sociali e politici, senza più corpi intermedi cui appoggiarsi, tende a consegnarsi nelle mani di leader autoritari, venditori di parole d’ordine semplici e urlate, ripetute con imperterrita insistenza a dispetto di ogni argomentazione razionale.

Il fenomeno è stato individuato a suo tempo, nel 1921 (attenzione alle date!) da Sigmund Freud in un saggio (“Psicologia delle masse e analisi dell’io”) che di questi tempi mi capita di citare in continuazione. Si tratta del fenomeno più inquietante di questa stagione populista, perché esso può innescare pericolose derive autoritarie.

 

7– Non sarà semplice contrastare queste spinte identitarie e le connesse pulsioni populiste. Gli scricchiolii dell’Unione Europea stavolta sono maledettamente seri.

Ci attende una battaglia difficile e complessa. Per correggere alcune storture dell’Unione Europea stessa: l’accento negli anni passati è stato messo troppo sulla costruzione del mercato europeo. Serve mettere in circolo un’altra idea di Europa: un’Europa sociale e solidale, più attenta alle disuguaglianze sociali e territoriali, un’Europa più democratica perché più permeabile e sensibile all’inquietudine e al disagio sociale.

Ma a monte vi è un’altra questione, proprio quella proposta nel titolo stesso di questa tavola rotonda, ovvero “identità e differenze”. Bisogna trovare la forza di rimettere in circolo l’idea di un’Europa animata e sorretta da valori universalistici nella quale possa sopirsi il cozzo tra identità chiuse, in urto rancoroso e rabbiose le une con le altre; un’Europa nelle quali le differenze siano rispettate e valorizzate come un punto di forza; quell’Europa che per prima ha tentato di fare vivere l’“universalismo delle differenze”.

Un’Europa aperta, inclusiva, rassicurante: il luogo migliore per fare vivere quell’idea di humanitas che è stata pensata proprio qui, nel nostro continente. L’umanesimo è il vero orizzonte europeo. Il cuore della nostra battaglia culturale è un “nuovo umanesimo”, o meglio in simili frangenti preferirei parlare di un “umanesimo tragico”, un umanesimo consapevole delle tremende contraddizioni, dell’asprezza dello scontro che lo attende.

 

 

UNA BELLA SERATA ALLO IULM: LA QUESTIONE DEL “FARMACO POPULISTA” INTERESSA ANCHE I GIOVANI

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Venerdì 16 novembre allo IULM ho avuto la prima occasione pubblica per discutere de “Il futuro addosso”. In una bella sala, con all’incirca 150 ragazzi, in prevalenza studenti dell’ultimo anno del liceo, si è discusso seriamente di populismi. Il titolo dell’incontro – “Perché (non) siamo popolo” – aiutava a inquadrare la discussione: costringeva a pensare. L’uso del termine “popolo” è generalmente scontato: il titolo spingeva i partecipanti a interrogarsi sul senso stesso della parola.

La grecista Martina Treu ha aperto la discussione invitando a ragionare sulla demagogia: il suo autore del cuore, Aristofane, ha scritto cose memorabili sulla questione. Paolo Giovannetti ha riproposto dal canto suo l’antica, e sempre pungente, questione della non popolarità della letteratura italiana: alcune testi di Manzoni, Verga e Jahier hanno aiutato a inquadrare la discussione. Lo storico De Giuseppe ha poi ripercorso alcune tappe del populismo novecentesco.

A quel punto il terreno era ben predisposto per ragionare sui populismi contemporanei. Il mio intervento ha ruotato attorno alla questione delle trasformazioni della democrazia contemporanea: dalla democrazia delegata alla democrazia disintermediata. I ragazzi hanno ascoltato attentamente, alcuni sono intervenuti. Alla fine vi sono state richieste di andare anche nelle loro scuole a discutere.

Insomma, la questione del “farmaco populista” sembra proprio interessare anche i più giovani.

UN DIBATTITO SUL NAZIONAL-POPULISMO POLACCO

 

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Cronaca di un dibattito imprevisto, ma a suo modo interessante e denso di insegnamenti. Alcuni docenti milanesi avevano proposto alla Casa della Cultura un dibattito con un professore polacco di scienze politiche, con una buona padronanza della lingua italiana. La proposta non è caduta nel vuoto: poteva essere una buona occasione per capire cosa davvero sta accadendo in Polonia. E in effetti venerdì 9 febbraio in Casa della Cultura si è svolto un dibattito che si è rivelato di indubbio interesse, ma per ragioni alquanto diverse da quelle che si potevano inizialmente ipotizzare.

È bastato ascoltare le prime battute dell’ospite della serata, il professore Stefan Bielanski, per comprendere che si aveva a che fare con un sostenitore del Pis, ovvero del partito populista di destra guidato da Jaroslaw Kaczynski. Che aveva una e una sola preoccupazione: dimostrare che il governo e il partito di maggioranza in Polonia non hanno nulla a che fare con il nazional – populismo, che sono solo una variante del conservatorismo europeo, avvicinabile tutt’al più al partito democristiano bavarese, alla CSU. Ma per avvalorare la sua tesi, ecco il punto davvero interessante, il professore ha fatto ricorso a tutte le principali categorie del pensiero e della narrazione populista!

Prima questione: la controversa modifica costituzionale relativa all’ordinamento giudiziario che ha fatto inalberare l’Unione Europea fino al punto da minacciare il ricorso all’articolo 7. Bielanski ha difeso con determinazione questa scelta perché la volontà del popolo è superiore alle norme costituzionali: se il popolo appoggia a maggioranza il controllo dell’esecutivo sulla magistratura è giusto che esso venga stabilito per legge. Quanto poi alle minacce dell’UE esse sono poco più che rumore mediatico: tutti sanno che l’eventuale ricorso all’articolo 7 sarà sicuramente bloccato da un veto dell’Ungheria di Orban.

Seconda questione: l’immigrazione. La Polonia ha una sua immigrazione, quella ucraina, e non intende andare oltre quella. A metà secolo sarà l’unico paese europeo senza cittadini praticanti la religione islamica: un fatto unico ed esemplare, argomenta Bielansky, che tutt’al più può suscitare invidia, ma di certo non riprovazione. E poi che senso ha l’insistenza dell’Italia per far arrivare in Polonia 6.000 profughi? È certo che non resterebbero in Polonia neppure un giorno: scapperebbero subito in Germania. Per trattenerli saremmo costretti a istituire un lager (sic!).

Terza questione: la legge sulla Shoah appena approvata che nega ogni responsabilità polacca nella persecuzione ebraica durante la seconda guerra mondiale. Essa nasce, dice il professore, come reazione alla stampa occidentale che ha ingiustamente attribuito questa responsabilità al popolo polacco. Sono le accuse della stampa che hanno provocato e reso inevitabile questa reazione da parte del Parlamento e del popolo polacco.

Infine, a dibattito ormai concluso, Bielansky ha motivato la vittoria di Trump in America come imprevedibile ma salutare ribellione contro le èlites, proprio come accade in Polonia dove, alla fin fine, è in corso una rivolta dell’opinione pubblica contro le élites dell’Unione Europea.

In poche parole, il professore polacco voleva evitare la qualifica populista in quanto, secondo lui, essa risuona come ingiustamente denigratoria, ma sulla giustizia ha usato gli stessi argomenti di Berlusconi, sull’immigrazione ha parlato come Salvini, sulla stampa ha fatto proprie le tesi di Trump. E, infine, ha riproposto la tesi classica populista della rivolta della gente semplice contro le élites.

Il populismo, ecco la vera questione, la mentalità populista, il modo di fare politica populista, sono penetrati in profondità negli orientamenti e nella cultura diffusa. I cliché populisti vengono usati anche da chi si affanna a negarli. Sarà bene che tutti comincino a rendersene conto. Anche quei docenti universitari che, a quanto sembra, interagiscono con un po’ troppa leggerezza e sufficienza con quanto sta accadendo.

La Casa della Cultura imprenditore culturale per necessità e per scelta

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1 – In tanti, ancora oggi, pensano che la Casa della Cultura di Milano sia un ente finanziato dal Comune o da qualche altra istituzione pubblica. Chi scrive se lo sente spesso ripetere, come si trattasse di cosa scontata: grande è la sorpresa quando viene risposto che il centro culturale milanese è un’associazione che vive di autofinanziamento. Anche gli interlocutori provenienti da altri paesi danno per scontato un qualche ombrello protettivo pubblico sulla Casa della Cultura: indimenticabile l’imbarazzo di un noto studioso dell’Europa del Nord che, per rispondere a un nostro invito, aveva acquistato un costosissimo biglietto d’aereo per Milano – di quelli che si prendono in aeroporto all’ultimo momento! – con la tranquilla e ostentata sicurezza di chi pensava che il rimborso sarebbe stato pagato da un ente pubblico.

Questa diffusa convinzione è alimentata da molti e diversi “pre – giudizi”. Nei paesi del Nord Europa, ad esempio, vi è una robustissima pratica di sostegno pubblico all’attività culturale. A Berlino, a pochi passi dal Parlamento, per portare un esempio che ha qualche attinenza con il nostro discorso, ci si imbatte nell’imponente “Casa delle culture”, una realtà grandiosa che può vivere solo con un generoso sostegno pubblico: le sue stesse dimensioni evidenziano in modo lampante da dove origina il fraintendimento di tanti nostri gentili ospiti europei. Anche in Italia, ovviamente, vi è stata e vi è una pratica diffusa di sostegno e di sovvenzionamento dell’attività culturale. A ben riflettere anche la celebre affermazione sfuggita dalla bocca di un ministro dell’economia, “Con la cultura non si mangia”, svela quanto sia radicata la convinzione che senza generose sovvenzioni pubbliche sia impossibile fare una buona attività culturale. Il ritorno economico delle iniziative culturali, si pensa, è inadeguato per sorreggerle. Se questo vale per l’intrattenimento culturale di qualità, a maggior ragione – se ne deduce – deve valere per un centro culturale che ha come sua finalità la promozione del dibattito pubblico!

Ad alimentare ulteriormente questa confusione sta anche il fatto che la Casa della Cultura è percepita come un’istituzione. La durata nel tempo e la qualità della sua programmazione hanno radicato questo centro culturale nella realtà milanese: da oltre settant’anni l’associazione operante in via Borgogna è un’articolazione viva e pulsante della città. Essa è diventata un patrimonio di Milano, qualcosa che contribuisce a definirne l’immagine di città aperta e culturalmente ricca e stimolante.

2 – Eppure, nonostante tutte queste convinzioni diffuse, la Casa della Cultura di Milano è un’associazione che si autofinanzia. Ad essa si può guardare oggi anche come a un caso di imprenditoria culturale collettiva. Non è sempre stato così: lo è diventata dopo un lungo percorso, un po’ per necessità ma un po’ anche per scelta.

Il primo progetto di questo centro culturale risale alla stagione della Resistenza quando, in alcuni incontri nella clandestinità, Antonio Banfi, Elio Vittorini ed Eugenio Curiel cominciarono a ragionare di un’associazione che si proponesse dopo la guerra come punto di incontro dell’alta cultura progressista milanese ed italiana.

Gli inizi, nell’immediato dopoguerra, nel marzo del ’46, furono sfolgoranti: tutta la Milano colta accorreva ai dibattiti che si succedevano a ritmo incalzante nelle tre sale collocate subito dietro la Scala. Gli incontri si svolgevano in via dei Filodrammatici, in una sede prestigiosa, nell’ex club dei Nobili requisito dai partigiani durante i giorni della Resistenza. Quella stagione durò poco: cambiato il clima politico generale, quando al “vento del Nord” subentrò la grande gelata della guerra fredda, l’azienda proprietaria dello stabile, la Breda, rivendicò la sua proprietà e lo stesso ministro degli Interni, Mario Scelba, intervenne per sciogliere rapidamente la questione.

Anche il clima culturale era profondamente cambiato: passioni e entusiasmi in un breve volgere di tempo lasciarono il posto a una stagione di aspre contrapposizioni ideali e culturali. La Casa della Cultura visse una crisi che ne mise in dubbio la stessa esistenza. Riprese la sua attività nel 1951, in uno scantinato presso piazza San Babila. Ebbe anche la forza di ripensarsi e di reinventarsi, un po’ come laboratorio di idee e un po’ come fiore all’occhiello di una sinistra che, tramite di essa, voleva esibire apertura e spregiudicatezza culturale. Dalle ripide scale di via Borgogna cominciarono a scendere i più autorevoli intellettuali italiani ed europei, da Sartre a Brecht, da Moravia e Pasolini a tanti illustri filosofi, storici, psicanalisti, artisti: è in quella stagione che si forma e si fissa l’immagine della Casa della Cultura.

Il tutto, sempre, all’insegna della più rigorosa sobrietà. “Pochi soldi e grandi idee” scrisse Rossana Rossanda, la giovane e brillante segretaria che per tredici anni animò e diresse il centro di via Borgogna. La sede della ripartenza, in via Borgogna 3, era proprio uno scantinato: esso era stato donato dalla famiglia di Eugenio Curiel, in memoria del giovane intellettuale e leader politico assassinato poco prima della Liberazione. Rossanda, quando narra dei primi tempi in via Borgogna, ricorda i tubi degli scarichi che attraversavano la sala e i topi che non mancavano di affacciarsi durante le riunioni. Quella cantina, povera e spoglia, divenne ben presto lo “scantinato più famoso di Milano”: austero ed essenziale, anche se ingentilito dalla generosità con cui famosi architetti ne avevano progettato gli interni e gli arredamenti.

Quell’imprinting sobrio ed anche po’ austero restò anche nei decenni successivi. Con quello standard, fatto di grande qualità e di poche risorse, la Casa della Cultura riuscì a stabilizzarsi nei decenni successivi. Quella sua sobria esistenza era allora garantita dal fatto di avere alla spalle un grande partito di riferimento, il PCI, che era il garante ultimo del funzionamento del centro culturale di via Borgogna. I comunisti non interferivano con la programmazione culturale, ma garantivano di fatto la continuità del centro e la copertura dei suoi bisogni essenziali di funzionamento. Il responsabile della conduzione della sede – Rossana Rossanda, ma anche chi ne prese il posto nei vent’anni successivi – era un funzionario di partito. Ed era sempre il partito a garantire la rete politica essenziale per reperire i finanziamenti: pochi, ma certi.

3 – La crisi dei partiti cambiò e travolse questo equilibrio. Si è trattato, come è noto, di una crisi con un lungo svolgimento: maturata nei tardi anni Ottanta, esplosa nella primavera del ’92, ai tempi di “Mani pulite”, essa si è trascinata per molti anni fino ad arrivare alla attuale letterale evanescenza dei partiti. Ed è del tutto evidente che partiti leggeri, senza radicamento di massa, finalizzati praticamente solo al confronto elettorale nel quale concentrano tutte le risorse, non siano più in grado di esprimere una politica culturale e neppure di mantenere un rapporto dialettico, ma vivo con centri culturali.

In poco tempo, dopo la crisi del ’92, vi fu un’autentica moria di centri culturali che animavano e davano un tocco particolare alla vita pubblica milanese. L’implosione del PSI, ad esempio, portò in tempi brevissimi al crollo e alla liquidazione di un centro culturale come il Turati che negli anni Ottanta aveva raggiunto riconoscimento e prestigio in città. Altri sono scomparsi oppure si sono progressivamente spenti, trasformandosi in un pallido ricordo di quello che furono in passate stagioni.

La Casa della Cultura, unico fra i centri del dibattito pubblico esistenti nella Milano degli anni Ottanta, seppe resistere, ma per questo dovette, ancora una volta, trasformarsi e ripensarsi profondamente. L’innovazione ha riguardato le modalità organizzative e l’impianto stesso della programmazione culturale: di fatto vi è stato bisogno di rimettere a fuoco le motivazioni stesse, in gergo aziendale la mission, del centro culturale.

Come è ovvio, questo passaggio ha scosso e rimesso in discussione tutto il funzionamento della Casa della Cultura. L’ombrello protettivo del partito di riferimento si è dissolto: si sono dovute reinventare le condizioni per la sopravvivenza quotidiana dell’associazione. Pezzo dopo pezzo il vecchio impianto si è squagliato: la rete protettiva che garantiva le risorse progressivamente si è diradata e indebolita, il segretario/direttore non poteva più essere un funzionario di partito, il mantenimento stesso della sede non poggiava più sulla garanzia del partito. Tutto questo è precipitato nella primavera del 2013, quando un evento traumatico, il crollo del soffitto nella sala delle conferenze, rimise in discussione la possibilità stessa di continuare l’attività della Casa della Cultura. In quel frangente il partito – in quel momento il Partito Democratico, ultimo nella lunga catena delle trasformazioni successive del PCI – si defilò da ogni responsabilità: l’unica opzione che mise in campo, in perfetta coerenza con il disinteresse per la cultura politica che sembra ormai caratterizzare tutto il sistema dei partiti italiani, fu la monetizzazione del valore dello stabile, ovvero la sua vendita. Il che avrebbe voluto dire l’interruzione della storia della Casa della Cultura e la sua chiusura.

È in quel frangente decisivo che la Casa della Cultura è stata costretta a contare solo sulle proprie forze, ad imboccare la strada della sua completa autonomia. La sede è stata rimessa a nuovo con un appello diretto alla città, con un’operazione di crowdfunding. La domanda di sostegno è stata rivolta a tutti coloro che erano interessati a dare continuità all’attività della Casa della Cultura: la risposta è stata straordinaria. In quel frangente fu chiaro che la Casa della Cultura aveva in se stessa le energie e le risorse per continuare la sua storia. Esattamente da quel momento si può parlare del centro culturale di via Borgogna come di qualcosa che è assimilabile a un imprenditore culturale. Dissoltisi i vecchi legami, la Casa della Cultura si è ridefinita nei fatti come un soggetto di imprenditoria culturale collettiva: imprenditoria no profit, ma che pur sempre per svolgere la sua attività deve contare solo sulle proprie forze.

4 – La scelta dell’autonomia è stata preparata da un ripensamento profondo dell’attività e della programmazione della Casa della Cultura. Da un certo momento essa ha dovuto prendere atto di non essere più il “naturale” referente degli intellettuali e del pubblico colto di una ben precisa area politico – culturale. Per i primi tre decenni e più del dopoguerra era stato chiaro a tutti che in via Borgogna si confrontavano vivacemente e liberamente le varie anime della sinistra laica e progressista e che il nucleo portante di quella complessa interazione era rappresentato dal mondo culturale, a quel tempo assai esteso e vivace, gravitante attorno al Partito Comunista. Poi, dalla seconda metà degli anni Ottanta, quell’area politico – culturale era andata sfrangiandosi sempre di più, fino a dissolversi. Accadde così che tra gli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo si evidenziò per la Casa della Cultura il problema di conquistare – potremmo dire: di inventare – un pubblico nuovo. Esso sarebbe stato, da allora in avanti, inesorabilmente molto più disomogeneo: la curva gaussiana relativa alla distribuzione originaria del pubblico, seppure già dotata di una sua dinamica, veniva aprendosi e sparpagliandosi sempre di più.

Si trattava di incontrare il pubblico colto che gravita naturalmente in un’istituzione collocata al centro della città, ma anche i pubblici delle periferie. Vi era, poi, il pubblico dei giovani, dove si toccava con mano una soluzione di continuità con la domanda culturale delle generazioni precedenti. Vi erano i tanti che concentrano le proprie energie nella ricerca di senso, ma anche coloro che sono catturati nel vortice dell’innovazione tecnologica. Insomma, questa realtà complessa, articolata, che si configurava sempre più come società degli individui, senza baricentro sociale e culturale, costringeva ad ampliare la proposta e l’offerta culturale per raggiungere persone dagli interessi così diversi.

Per intercettare e fidelizzare questi nuovi pubblici serviva uno sforzo enorme per ridefinire la proposta culturale, per reinventare il ruolo e lo spazio del centro di via Borgogna nella vita pubblica, per riconfermarli giorno per giorno, per di più in un ambiente come quello milanese saturo di proposte culturali. I cittadini milanesi, come è noto, affollano le mille offerte di intrattenimento culturale proposte dalle più svariate agenzie. La Casa della Cultura, in questo panorama complesso e affollato, doveva riuscire a definire con chiarezza l’area cui rivolgersi, lo spazio da occupare.

Servivano le idee, ma anche il coraggio e la fantasia per costruire questo nuovo progetto culturale. Bisognava anche capire da dove partire e quali fossero le risorse da valorizzare maggiormente. Ben presto fu chiaro che quel nome, Casa della Cultura, che per i milanesi colti è dal dopoguerra sinonimo di serietà, di rigore, di ricerca aperta e coraggiosa, costituiva di fatto una sorta di brand – continuiamo ad usare i linguaggio aziendale – di particolare prestigio. Si trattava di estrarre da quel brand tutto il valore possibile, ma per questo bisognava afferrare con chiarezza, mettere a fuoco cosa avesse impresso nell’esperienza della Casa della Cultura un quid in più.

L’originalità della storia della Casa della Cultura non stava nell’affiancamento al Partito Comunista: tanti altri centri culturali hanno avuto in Italia questa caratteristica, ma erano naufragati senza lasciare alcuna traccia. La particolarità della Casa della Cultura, il fascino e il prestigio che hanno accompagnato la sua storia, stavano in qualcos’altro, ovvero nell’accento messo sistematicamente sul pensiero critico. Il suo più autorevole ispiratore, il filosofo Antonio Banfi, è stato in Italia l’interprete più rigoroso del razionalismo critico. Ad esso si sono ispirati i suoi grandi allievi (Paci, Preti, Cantoni, Anceschi, Formaggio ecc), i protagonisti di quella che è stata chiamata “la scuola di Milano” e che per anni ha fornito la linfa al centro culturale milanese. La Casa della Cultura assunse così un profilo diverso da quello di tanti altri centri culturali vicini al Partito Comunista. Vittorini, ad esempio, si scontrò frontalmente con Togliatti, ma continuò ad animare la vita della Casa della Cultura milanese. Oppure ancora, nel ’56, al momento delle drammatiche vicende di Budapest, via Borgogna divenne il riferimento della critica contro lo stalinismo e della protesta della cultura di sinistra. Lo stile della Casa della Cultura, la sua eterodossia, la sua ricerca sempre aperta, sempre un po’ borderline, affondano le radici in quella ispirazione e tensione critica. Da qui bisognava ripartire per ridefinire e rilanciare la proposta culturale della Casa della Cultura.

La soluzione si è così delineata rapidamente, in modo logico e naturale: il pubblico cui rivolgersi era rappresentato da coloro che cercano gli strumenti per orientarsi criticamente nel mondo, per potersi posizionare sulle grandi questioni politiche, etiche e sociali che scuotono la società. Al fondo, si trattava di reinventare l’antica suggestione di un rapporto vivo e fecondo tra la politica e la cultura cha tanta parte aveva avuto nella storia di via Borgogna. Ma, ovviamente, il tutto doveva ora verificarsi in una situazione completamente diversa dal passato. La politica ma anche le modalità stesse di organizzazione della cultura erano andate trasformandosi in profondità: restava, però, la necessità di ricostruire canali di scorrimento tra l’elaborazione culturale e la vita pubblica.

Si trattava di operare un consapevole “ritorno al futuro”, di fare vivere quell’ispirazione critica nel mondo nuovo segnato dalla globalizzazione liberista e dalla travolgente innovazione tecno – scientifica. In altre parole si trattava di pensare la Casa della Cultura come strumento per costruire un’enciclopedia critica della contemporaneità. Questo progetto, assai arduo e impegnativo, permette però di occupare uno spazio incredibilmente e drammaticamente vuoto: il pensiero critico è dolorosamente latitante in questi tempi che portano il segno opprimente del “pensiero unico”. Esso rende possibile, inoltre, dare un senso preciso all’attività del centro culturale milanese, in continuità con le motivazioni più profonde che ne hanno sorretto l’attività in più di settant’anni.

5 – Le risorse economiche per fare vivere questo progetto dovevano essere cercate lì, fra quanti interessati alla realizzazione e alla costruzione di questa enciclopedia critica della contemporaneità. A tutti loro viene chiesto un contributo per reperire le risorse necessarie. Ecco perché è lecito usare l’espressione: “imprenditore culturale collettivo”. L’accento si sposta inesorabilmente sul contributo dei soci. Il loro apporto è decisivo per consolidare l’attività del centro culturale: le loro quote di adesione e il loro contributo al crowdfundingsono i primi pilastri su cui poggia ora la Casa della Cultura. Tante e diverse sono le modalità con cui può esprimersi questo sostegno, come nel caso della generosa donazione di opere da parte di artisti, pittori e scultori, per affrontare il rifacimento della sede.

Nella programmazione crescono i corsi per cui si chiede un contributo ai frequentatori. La scelta non è fatta a cuor leggero: la Casa della Cultura si è sempre pensata come un servizio ai cittadini milanesi, come un luogo in cui tutti gli amanti della cultura e della riflessione potessero entrare liberamente. Ora comincia la ricerca di un nuovo equilibrio fra l’offerta di incontri gratuiti – ancora oggi di gran lunga maggioritari – e corsi a pagamento. La “Scuola di cultura politica”, la “Scuola di autobiografia”, il seminario annuale di filosofia, il seminario di filosofia del cinema prevedono un contributo per i frequentatori, la qual cosa, per altro, non ha danneggiato la frequentazione. Anzi, per alcuni aspetti la quota di iscrizione ai corsi rappresenta un vincolo positivo che incentiva alla partecipazione continuativa, soprattutto nel caso di cicli articolati in molti incontri.

I volontari, altra risorsa fondamentale nella Casa della Cultura, gestiscono settori interi di attività. Senza dimenticare, per altro, che tutti i relatori ai convegni potrebbero essere considerati a pieno titolo come “volontari”: partecipano tutti e sempre alle iniziative senza la richiesta di onorari, solo con il rimborso delle spese vive.

Anche finanziamenti da cittadini privati e da enti privati concorrono al funzionamento della Casa della Cultura, come supporto della sua attività generale oppure, talvolta, mirati anche al sostegno di uno specifico progetto congiunto. Ne è esempio il progetto triennale, finanziato dalla Fondazione Cariplo, di diffusione di incontri culturali nei quartieri periferici della città. Cariplo sollecita, giustamente, la diffusione dell’attività culturale di qualità nelle aree periferiche, ma per questo ha bisogno di soggetti con adeguate competenze. La Casa della Cultura ha tutte queste competenze, ma deve essere messa nelle condizioni di poterle usare anche al di fuori del suo ambiente consueto. Da qui un progetto triennale che si configura così come un vero e proprio patto siglato tra l’ente erogatore e il centro culturale.

Tutti questi tasselli, nel loro insieme, concorrono a garantire l’autosufficienza finanziaria della Casa della Cultura. Ad essa si è arrivati, come dovrebbe risultare con chiarezza da quanto scritto sopra, per necessità: l’autofinanziamento era la strada obbligata per continuare a svolgere la propria funzione in un mondo in cui il vecchio e tradizionale ombrello protettivo della politica si era ormai dissolto e aveva perso ogni significato.

A ben vedere, però, ognuno dei passaggi che hanno permesso di imboccare questa strada è stato sorretto anche da una libera e consapevole scelta, ovvero dalla convinzione che per dare solidità e respiro alla proposta culturale era gioco forza sganciarsi dall’orizzonte del giorno per giorno, dai personalismi esasperati e da quella modesta strumentalità cui sembra precipitata la dinamica politica. Un progetto culturale ha bisogno di respiro, di sguardo lungo, di obiettivi ambiziosi: i partiti oggi sembrano incapace di proporli e perfino di accettarli. Ecco perché l’autonomia e l’autofinanziamento sono oggi una scelta razionale e obbligata per garantire la ricerca e l’attività culturale, per generare e mettere in circolazione anche la stessa cultura politica.

6 – La sfida è complicata e difficile, non solo perché il reperimento delle risorse non è mai garantito a priori. Al fondo vi è qualcosa di ancora più impegnativo. Come abbiamo già accennato, si è dissolto e frantumato il pubblico tradizionale di riferimento di un centro come la Casa della Cultura: la Milano colta e progressiva, orientata tendenzialmente a sinistra, oggi si è scomposta e dispersa in mille rivoli, con gusti attenzioni e interessi anche profondamente diversi. Oggi, invece di un pubblico da conquistare, vi sono tanti diversi pubblici da raggiungere e da motivare.

Un progetto che oggi voglia animare un dibattito pubblico consapevole deve perciò spaziare dalle questioni inerenti il confronto – scontro delle culture fino a quelle dell’innovazione tecnologica e delle nuove frontiere della scienza. Insomma, deve aprirsi a tutto campo: ecco perché ci si è proposti l’obiettivo, assai impegnativo, di costruire un'”enciclopedia critica della contemporaneità”.

Eppure è opportuno, a conclusione di questo ragionamento, mettere l’accento anche su alcune straordinarie potenzialità che si stanno aprendo e che sarebbe imperdonabile non cercare di esplorare fino in fondo. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione aprono scenari del tutto nuovi anche per chi ha come propria missione la promozione del dibattito pubblico. Vi sono mille fondati motivi per guardare con preoccupazione al dibattito che si sviluppa sui social, per sottolinearne la superficialità, l’irruenza, l’autoreferenzialità e la mancanza di riflessività. Eppure a queste considerazioni se ne possono sovrapporre anche altre: tante persone più di prima possono essere raggiunte e vi sono molte più possibilità di offrire materiali per la consultazione. Forse aveva proprio ragione Umberto Eco, nei suoi studi pionieristici sulla televisione: la tecnologia, argomentava in “Apocalittici e integrati”, può generare una cosa e il suo contrario, ciò che conta è come viene usata.

Di certo per la Casa della Cultura la tecnologia è una sfida in più, con cui sarebbe colpevole non misurarsi. Essa permette di spezzare barriere di spazio e di tempo che obiettivamente limitavano l’efficacia di un centro culturale. Le iniziative potevano, fino a poco fa, essere fruite solo dai frequentatori fisici dei dibattiti. Chi non poteva partecipare per problemi di orario o per lontananza fisica era irrimediabilmente condannato a perdere gli stimoli della discussione.

Oggi siamo nelle condizioni di fare vivere le discussioni che organizziamo in via Borgogna anche in altri tempi e in altri luoghi. Le dirette streaming e la consultazione delle registrazioni conservate nell’archivio video aprono scenari del tutto inediti: nel corso dell’ultimo anno vi sono stati oltre 100.000 contatti al canale Youtube della Casa della Cultura, in progressione accelerata rispetto ai 35.000 dell’anno precedente. I nostri messaggi promozionali scorrono anche su una piattaforma come Facebook dove i 25.000 likers ci segnalano occhi attenti, soprattutto di giovani donne! Il digitale permette anche di fare circolare testi scritti a costi infinitamente più ridotti che nel passato: il sito è ormai una vera e proprio rivista che, a sua volta, contiene un bimestrale, “viaBorgogna3”, nel quale vengono riordinate e proposte alcune delle operazioni culturali più impegnative.

Rossana Rossanda, nelle sue memorie, ha scritto: “Una volta andavamo in via Borgogna … “. Oggi dovremmo correggere e aggiungere: la sera si va in via Borgogna, oppure ci si collega in streaming, si consulta il sito, si legge la rivista bimestrale “viaBorgogna3” ecc. In via Borgogna potevano partecipare solo i cittadini di Milano e dintorni: all’offerta in rete possono accedere tutti i cittadini italofoni. Insomma, tutto è cambiato, ma forse sono ancora più di prima le ragioni per tenere saldo il nostro filo rosso: un pensiero critico capace di pensare il presente e progettare il futuro, mantenendo salde le radici nella propria storia.

Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura

Paper consegnato per il Convegno ASSI (primo convegno italiano di storici di impresa): “Imprenditori e manager nella storia economica”, Milano, Università Bocconi, 6 – 7 ottobre 2017