ROSETTA, UN PROGETTO CULTURALE NOMADE

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martedì 24 gennaio

Oggi presentiamo un progetto culturale del tutto nuovo per la Casa della Cultura, “Rosetta”, un progetto “nomade” che vivrà nei prossimi 24 mesi fuori dalla Casa della Cultura, nelle nove zone della città di Milano.

Nasce in collaborazione con “cheFare”, una piattaforma per l’innovazione culturale animata e diretta da giovani studiosi e operatori culturali.

Molti di voi probabilmente avevano già notato la collaborazione con “cheFare”: quattro incontri organizzati assieme, all’incirca un anno fa, sulla “cultura in rete” mentre sul nostro sito da tempo appaiono articoli sull’innovazione culturale proposti proprio da “cheFare”.

Questa volta, assieme, ci si lancia in un’operazione molto più impegnativa che assorbirà molte energie nei prossimi due anni.

La novità per la Casa della Cultura è davvero rilevante. Si aggiunge alle tante innovazioni introdotte in questi ultimi anni.

Innanzitutto abbiamo dilatato il ventaglio delle nostre iniziative: cerchiamo di proporre un ragionamento che riguarda tutti i campi della conoscenza ( nella nostra programmazione, oltre ai nostri temi tradizionali – la filosofia, la storia, la letteratura, la cultura politica – sono entrate di prepotenza tutte le arti – il cinema, la musica, il teatro, le arti figurative – e le nuove frontiere della scienza, dalle neuroscienze alla genetica ), per delineare una vera e propria enciclopedia critica della contemporaneità.

Abbiamo poi cercato di usare tutte le opportunità del digitale: trasformato il sito in una rivista, avviato un bimestrale on line – “viaborgogna3” -, costruito una presenza sistematica dentro i social – Facebook e Twitter – e avviato il servizio streaming e un canale youTube: l’intento è utilizzare le immense potenzialità del digitale per spezzare le barriere temporali e spaziali che limitavano la fruizione delle nostre attività: a questo punto possiamo dire che si può usufruire della proposta della Casa della Cultura in ogni momento e da ogni luogo: basta avere tra le mani un dispositivo elettronico collegato in Rete.

Il tutto – voglio sottolinearlo – senza mai cedere alle lusinghe del nuovismo: per costruire qualcosa di solido non basta voltare le spalle al passato, ma serve un’operazione culturale a un tempo più complessa e rigorosa che abbiamo cercato di condensare nell’espressione “ritorno al futuro“.

Con Rosetta facciamo un passo ulteriore: ci proponiamo di uscire anche fisicamente da via Borgogna, di interagire con direttamente con i luoghi della partecipazione e dell’innovazione culturale, con le realtà della creatività culturale giovanile.

Bertram Niessen e Valeria Verdolini illustreranno, poi, puntualmente il modo come si articolerà il progetto “Rosetta”: da parte mia ancora poche parole per esplicitare il senso di questa operazione per la Casa della Cultura.

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Noi partiamo dal fatto che tante cose stanno cambiando, tumultuosamente: si tratta di conoscere, afferrare bene, a fondo, cosa sta accadendo. La vita culturale cambia: e quanto cambia!

Tutti sanno quanto la rivoluzione digitale ha stravolto la produzione e la distribuzione musicale: cambiamenti non meno radicali si stanno delineando ormai anche nell’editoria, nel giornalismo, nella trasmissione di ogni forma di conoscenza, nell’educazione stessa. Sullo fondo di questi cambiamenti vi è un sistema dei media in continua, intensa evoluzione. Pensiamo al fatto che per anni il centro dello scontro politico in Italia è stato il duopolio televisivo: ormai è superato per qualcosa che è avvenuto a prescindere dalla lotta politica. È arrivata Sky, la Sette è stata rilanciata, soprattutto si è potenziato e dilatato l’uso della Rete, da cui l’irruzione di Netflix e di tanto altro. Ma la crescita e il rimescolamento dei media trascina con sé una trasformazione delle modalità narrative e creative: si pensi alla straordinaria effervescenza, al riposizionamento, della “serie” televisive.

Insomma, le forme della creatività, la cultura stessa stanno cambiando in profondità: abbiamo un bisogno vitale di capire, conoscere, interagire con i mondi che sono toccati o immersi dentro questi processi.

Permettetemi per un attimo di ampliare ulteriormente il ragionamento: questi cambiamenti della vita culturale sono un tassello di una più generale, profonda trasformazione nella quale siamo immersi: “capire la grande trasformazione“, questo il titolo che abbiamo dato quest’anno alla nostra scuola di cultura politica.

Sappiamo che al fondo di questi imponenti cambiamenti stanno la globalizzazione e l’innovazione tecnologica e scientifica. Mentre la globalizzazione ridisegna i rapporti tra le varie parti del globo e accelera la circolazione dei cambiamenti, l’innovazione tecno – scientifica ridefinisce il nostro rapporto con la natura, i lavori, le nostre modalità di relazione, la nostra stessa vita. Ogni giorno si accumulano nuove conoscenze nelle tecnologie digitali, nelle nanotecnologie, nelle biotecnologie, nella robotica e nelle neuroscienze: e ora incominciamo a intuire che la loro ibridazione determinerà un vero e proprio salto di paradigma tecnologico e che ormai stiamo arrivando proprio lì.

Ma dove ci stanno portando tutti questi tumultuosi cambiamenti? C’è qualcuno che guida e orienta le scelte o dobbiamo accettare semplicemente che esse accadano come di default? Dobbiamo solo prendere atto dell’inesorabilità o possiamo ragionare di fini e di valori con cui orientare quest’immensa trasformazione? Questa è la domanda cruciale deinostri tempi. Ed è attorno a questa questione che si intrecciano le speranze e le paure, che si muovono i moti più profondi dell’opinione pubblica dei nostri tempi.

Ecco allora il fenomeno strano, inquietante, la grande questione che stiamo toccando con mano proprio in questi giorni. Trump in America, la Brexit voluta da Farage, i populismi che scuotono l’Europa fino a casi limite, all’Ungheria nella quale lo scontro è tra la destra di Orban e un’altra destra con nostalgie filonaziste e alla Polonia nella quale si vincono le elezioni al grido di “Dio, patria e famiglia”.

Guardiamo bene in faccia quello che sta accadendo: si sta delineando una risposta di destra a questi cambiamenti, alle inquietudine e paure che portano con sé. Il mondo progressista in tutto l’Occidente ( e non solo ) è in difficoltà, come mai dal dopoguerra ad oggi. A ben vedere è come se non si riuscisse più a tenere assieme i due grandi perni della narrazione progressista, da un lato la crescita della soggettività, la libertà e il rispetto dei diritti umani e dall’altro lato la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza sociale. I due perni della proposta progressista si sono allontanati, si sono separati e dentro questa smagliatura, dentro questa frattura di stanno inserendo minacciosamente i nuovi populismi.

Vi è l’urgenza di ricomporre i mille rivoli del discorso progressista, di ricostruire una narrazione che sappia fare interagire virtuosamente e tenere assieme le mille e mille diversità in cui sembra essersi frantumato il campo progressista.

Ho allargato per un attimo l’arco del ragionamento perché volevo mettere bene in chiaro il senso profondo del nostro richiamo assillante al pensiero critico, all’urgenza di ritornare a guardare e studiare le cose a tutto campo, con mente aperta, sgombra di pregiudizi ma anche pronta a problematizzare, a mettere in discussione la vulgata corrente, il pensiero unico, a moltiplicare gli interrogativi, a porre le domande più difficili e più scomode. In questi anni tanti anche fra di noi si sono abituati alla semplificazione, alla banalizzazione, alla ricerca di facili scorciatoie, alla leggerezza delle emozioni: tutto ciò rischia di essere travolto dall’onda della paura e del rancore cavalcato dai populisti. Serve il ritorno all’esercizio severo del pensiero critico e alla ricostruzione di pensieri lunghi.

Ma tutto questo, ecco il punto dove volevo arrivare, non può nascere solo dall’elaborazione di qualche studioso. Il pensiero critico deve confrontarsi e interagire con le sorgenti vere, reali, della partecipazione e della creatività, come ad esempio con le realtà – così importanti a Milano – di coworking, con i centri innovativi di produzione e distribuzione culturale, con i luoghi dove già vive il meticciato culturale. Senza questo contatto, senza questa interazione e discussione serrata, la riflessione critica rischia di insterilirsi, di non afferrare i processi reali, forse perfino di non decollare, di perdere la sua funzione di linfa vitale di nuovi processi culturali e sociali.

Ecco perché stiamo cercando ostinatamente il rapporto con il mondo della ricerca, dell’innovazione, della creatività culturale, in primis quella giovanile. Sappiamo quanto è difficile oggi fare incontrare e dialogare anche mondi contigui. Sappiamo che il nostro campo di riferimento, il mondo progressista, appare spesso come una galassia di progetti e di linguaggi che non riescono a convergere. Proprio per questo abbiamo chiamato “Rosetta” questo progetto: come la stele di Rosetta, che ha aperto nuove strade di traduzione e di comprensione o come la sonda Rosetta che è andata ad esplorare Habitat sconosciuti.

“Rosetta”, questo progetto, è un tassello importante di questa nostra scelta di andare a discutere e confrontarci anche con pubblici non abituati al nostro linguaggio e alla nostra problematica, per innovarci, metterci in discussione, cercare nuove strade per fare vivere e pulsare nel concreto il nostro progetto culturale.

TRENT’ANNI DOPO. IL PCI DEGLI ANNI ’80

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Appunti per la presentazione del libro

Trent’anni dopo. Il PCI degli anni ’80

di Michelangela Di Giacomo e Novella Di Nunzio

(Oltre Edizioni 2016).
21 gennaio 2017

Libreria Popolare, Via Tadino 18, Milano

Due trentenni che si misurano su un avvenimento cruciale di trent’anni fa: la scomparsa del PCI.

Lavoro ben fatto (bibliografia amplia, anzi: completa – ricostruzione dei fatti accuratissima).
Intento riuscito: comprendere le ragioni del lutto. Sostengono di avere qualche difficoltà ad afferrare appieno il trauma: più una prudenza retorica che una difficoltà reale: afferrano assai bene, secondo me, la portata storica e le implicazioni emotive di quello che accadde in quei cinque anni.

1 – Anni Ottanta: periodizzanti. Concordo appieno: più chiaro oggi, a posteriori, di quanto lo fu allora. Non mancarono segni forti: sconfitta alla Fiat, il riflusso, l’edonismo reaganiano ecc. Eppure per molti la sensazione di una partita aperta ecc. In realtà: Reagan, Thatcher: fine dei “trent’anni d’oro”; iniziano i “trent’anni ingloriosi”, la stagione della globalizzazione liberista

2 – Il libro non affronta gli ultimi anni di Berlinguer. Ma un punto va sottolineato: sforzo straordinario – intimamente commovente – di reagire a quanto stava accadendo. Avvertiva il profondo cambiamento in corso: tentativo di reagire … Torino, movimenti, questione morale … senza farsi schiacciare con sguardo all’indietro. Piccolo: sbaglia profondamente la sua lettura, là dove parla di avere colto nell’attaccamento a Berlinguer una motivazione reazionaria, conservatrice: in realtà lo sforzo più rigoroso di reagire “da sinistra” all’immenso cambiamento che si era messo in moto …

3 – Dopo la morte di Berlinguer qualcosa di profondo cambia dentro il gruppo dirigente del PCI. Le giustificazioni non mancano: sfaldamento dell’URSS e di tutto il socialismo reale; aggressività politica e ideologica del di un PSI che sembrava avere il vento in poppa ecc. Eppure stiamo pur sempre parlando di un partito che nel 1983 aveva il 29.9 dei voti e circa 1 milione e 700.000 iscritti. Nonostante questo accadde un fenomeno che voi cogliete benissimo: il suo stesso gruppo dirigente cominciò a non credere più nella funzione (nella narrazione) di questo partito. Ansia, via via crescente, di dimostrare che il partito non era più quello che era; un diffuso imbarazzo, perfino un vero e proprio senso di colpa per essere – nonostante originalità e particolarità – un partito comunista … Bisogno di giustificazione, ricerca affannosa di ogni possibile segnale di cambiamento, fino al punto che, a guardare bene, il cambio del nome, alla fin fine, nonostante il trauma che provocò, era tutt’altro che inaspettato

4- La discussione ci fu, vera, dentro e fuori il partito. Dolorosa, confusa, ma di certo ci fu! Da questo punto di vista enorme differenza con l’oggi: intellettuali, dirigenti, militanti: articoli, lettere, documenti … la vita democratica pulsava ancora. Forse l’ultimo momento di una grande discussione di popolo nella sinistra italiana

5 – dal grande corpo del Pci emersero argomentazioni diverse: ricostruite assai bene, scavando anche sulla memorialistica (negazione del lutto, rimozione del lutto, elaborazione del lutto).

Da notare alcune cose per afferrare meglio l’inclinazione della discussione. Due testi di “svoltisti”: “Post” e “Rendi conto”.
De Angelis: vergogna di essere stato comunista, senso di colpa … fino a inchinarsi a chi lo aveva guidato nella comprensione dell’errore: Nolte, Furet, Dino Grandi!
Petruccioli: “giocare la partita per il governo”. Ma per chi? Per che cosa? Per rappresentare che cosa? Interrogativi spariti: l’importante era che gli ex comunisti fossero assimilati nel ceto politico di governo, diventassero spendibili come élites di governo … A ben vedere in quelle posizioni riemerge un’antica musica della cultura politica italiana, quella dei Mosca, dei Pareto (la classe politica, la circolazione delle élites!). Scompariva la rappresentanza del mondo del lavoro, dei più deboli, l’emancipazione della classi subalterne, tutto ciò che aveva dato senso all’epopea del movimento socialista e comunista! Att! allora erano le posizioni solo di Petruccioli e di pochi altri: eppure a distanza di trent’anni la terribile, dolorosa sensazione che quelle siano state le posizioni vincenti.

6 – Introduco così l’ultima riflessione (che va al di là della cronologia del libro, ma che merita …).
Per tanti anni ciò che restò del Pci continuò ad essere l’ossatura di ciò che restava della sinistra italiana. Da questo punto di vista appare riuscito il tentativo della “svolta”, la sua motivazione profonda: continuare su altre basi la storia della sinistra. Senza dubbio questa era l’intenzione di Occhetto e di molti “svoltisti” e sarebbe ingeneroso non riconoscere che il risultato.
Ma mentre gli svoltisti discutevano di rifondare la sinistra, essi nel loro sforzo non incontrarono un’altra sinistra in buona salute con cui confrontarsi, a cui aggregarsi, con cui ripartire ecc. In realtà mentre il PCI tentava di cambiare se stesso si stava imponendo una nuova egemonia liberale – liberista: si stavano ponendo le premesse del “pensiero unico” liberista, del dominio delle nuove élites globali, di un nuovo aggressivo capitalismo shumpeteriano ecc. Il socialismo e la socialdemocrazia ben presto, negli anni successivi all’89, si sarebbero trovati anche loro in grande difficoltà.
Accadde così un fatto che solo oggi riusciamo a cogliere in tutte le sue tremende implicazioni: la svolta, al di là delle intenzioni del grosso degli svoltisti, si inserì dentro un percorso che non portava verso la costruzione di una nuova sinistra, ma verso la sua lenta eutanasia, la sua “sussunzione” dentro la logica delle nuove élites globali liberali. La vicenda Blair è al riguardo esemplare: apparve, nel 1997, come una brillante risposta alle difficoltà; si dimostrò ben presto come il cavallo di Troia nella sinistra della nuova finanza globale.
Anche per questo oggi, mentre avvertiamo i morsi dolorosi della globalizzazione liberista, mentre non riusciamo a fuoriuscire dalla grave crisi globale, sentiamo che la sinistra è ammutolita, spesso addirittura scomparsa (Ungheria, Polonia, Italia ecc) e che la risposta alla globalizzazione e alla sua crisi è tutta nelle mani delle nuove formazioni populiste. Soprattutto, la sinistra (o quanto ne resta) non riesce più a parlare al popolo: la narrazione dominante è divenuta (dall’America all’Europa ecc) quella liberista. Per la sinistra, stavolta, sono davvero tempi di ricostruzione dalle radici.