TRENT’ANNI DOPO. IL PCI DEGLI ANNI ’80

trentannidopo

Appunti per la presentazione del libro

Trent’anni dopo. Il PCI degli anni ’80

di Michelangela Di Giacomo e Novella Di Nunzio

(Oltre Edizioni 2016).
21 gennaio 2017

Libreria Popolare, Via Tadino 18, Milano

Due trentenni che si misurano su un avvenimento cruciale di trent’anni fa: la scomparsa del PCI.

Lavoro ben fatto (bibliografia amplia, anzi: completa – ricostruzione dei fatti accuratissima).
Intento riuscito: comprendere le ragioni del lutto. Sostengono di avere qualche difficoltà ad afferrare appieno il trauma: più una prudenza retorica che una difficoltà reale: afferrano assai bene, secondo me, la portata storica e le implicazioni emotive di quello che accadde in quei cinque anni.

1 – Anni Ottanta: periodizzanti. Concordo appieno: più chiaro oggi, a posteriori, di quanto lo fu allora. Non mancarono segni forti: sconfitta alla Fiat, il riflusso, l’edonismo reaganiano ecc. Eppure per molti la sensazione di una partita aperta ecc. In realtà: Reagan, Thatcher: fine dei “trent’anni d’oro”; iniziano i “trent’anni ingloriosi”, la stagione della globalizzazione liberista

2 – Il libro non affronta gli ultimi anni di Berlinguer. Ma un punto va sottolineato: sforzo straordinario – intimamente commovente – di reagire a quanto stava accadendo. Avvertiva il profondo cambiamento in corso: tentativo di reagire … Torino, movimenti, questione morale … senza farsi schiacciare con sguardo all’indietro. Piccolo: sbaglia profondamente la sua lettura, là dove parla di avere colto nell’attaccamento a Berlinguer una motivazione reazionaria, conservatrice: in realtà lo sforzo più rigoroso di reagire “da sinistra” all’immenso cambiamento che si era messo in moto …

3 – Dopo la morte di Berlinguer qualcosa di profondo cambia dentro il gruppo dirigente del PCI. Le giustificazioni non mancano: sfaldamento dell’URSS e di tutto il socialismo reale; aggressività politica e ideologica del di un PSI che sembrava avere il vento in poppa ecc. Eppure stiamo pur sempre parlando di un partito che nel 1983 aveva il 29.9 dei voti e circa 1 milione e 700.000 iscritti. Nonostante questo accadde un fenomeno che voi cogliete benissimo: il suo stesso gruppo dirigente cominciò a non credere più nella funzione (nella narrazione) di questo partito. Ansia, via via crescente, di dimostrare che il partito non era più quello che era; un diffuso imbarazzo, perfino un vero e proprio senso di colpa per essere – nonostante originalità e particolarità – un partito comunista … Bisogno di giustificazione, ricerca affannosa di ogni possibile segnale di cambiamento, fino al punto che, a guardare bene, il cambio del nome, alla fin fine, nonostante il trauma che provocò, era tutt’altro che inaspettato

4- La discussione ci fu, vera, dentro e fuori il partito. Dolorosa, confusa, ma di certo ci fu! Da questo punto di vista enorme differenza con l’oggi: intellettuali, dirigenti, militanti: articoli, lettere, documenti … la vita democratica pulsava ancora. Forse l’ultimo momento di una grande discussione di popolo nella sinistra italiana

5 – dal grande corpo del Pci emersero argomentazioni diverse: ricostruite assai bene, scavando anche sulla memorialistica (negazione del lutto, rimozione del lutto, elaborazione del lutto).

Da notare alcune cose per afferrare meglio l’inclinazione della discussione. Due testi di “svoltisti”: “Post” e “Rendi conto”.
De Angelis: vergogna di essere stato comunista, senso di colpa … fino a inchinarsi a chi lo aveva guidato nella comprensione dell’errore: Nolte, Furet, Dino Grandi!
Petruccioli: “giocare la partita per il governo”. Ma per chi? Per che cosa? Per rappresentare che cosa? Interrogativi spariti: l’importante era che gli ex comunisti fossero assimilati nel ceto politico di governo, diventassero spendibili come élites di governo … A ben vedere in quelle posizioni riemerge un’antica musica della cultura politica italiana, quella dei Mosca, dei Pareto (la classe politica, la circolazione delle élites!). Scompariva la rappresentanza del mondo del lavoro, dei più deboli, l’emancipazione della classi subalterne, tutto ciò che aveva dato senso all’epopea del movimento socialista e comunista! Att! allora erano le posizioni solo di Petruccioli e di pochi altri: eppure a distanza di trent’anni la terribile, dolorosa sensazione che quelle siano state le posizioni vincenti.

6 – Introduco così l’ultima riflessione (che va al di là della cronologia del libro, ma che merita …).
Per tanti anni ciò che restò del Pci continuò ad essere l’ossatura di ciò che restava della sinistra italiana. Da questo punto di vista appare riuscito il tentativo della “svolta”, la sua motivazione profonda: continuare su altre basi la storia della sinistra. Senza dubbio questa era l’intenzione di Occhetto e di molti “svoltisti” e sarebbe ingeneroso non riconoscere che il risultato.
Ma mentre gli svoltisti discutevano di rifondare la sinistra, essi nel loro sforzo non incontrarono un’altra sinistra in buona salute con cui confrontarsi, a cui aggregarsi, con cui ripartire ecc. In realtà mentre il PCI tentava di cambiare se stesso si stava imponendo una nuova egemonia liberale – liberista: si stavano ponendo le premesse del “pensiero unico” liberista, del dominio delle nuove élites globali, di un nuovo aggressivo capitalismo shumpeteriano ecc. Il socialismo e la socialdemocrazia ben presto, negli anni successivi all’89, si sarebbero trovati anche loro in grande difficoltà.
Accadde così un fatto che solo oggi riusciamo a cogliere in tutte le sue tremende implicazioni: la svolta, al di là delle intenzioni del grosso degli svoltisti, si inserì dentro un percorso che non portava verso la costruzione di una nuova sinistra, ma verso la sua lenta eutanasia, la sua “sussunzione” dentro la logica delle nuove élites globali liberali. La vicenda Blair è al riguardo esemplare: apparve, nel 1997, come una brillante risposta alle difficoltà; si dimostrò ben presto come il cavallo di Troia nella sinistra della nuova finanza globale.
Anche per questo oggi, mentre avvertiamo i morsi dolorosi della globalizzazione liberista, mentre non riusciamo a fuoriuscire dalla grave crisi globale, sentiamo che la sinistra è ammutolita, spesso addirittura scomparsa (Ungheria, Polonia, Italia ecc) e che la risposta alla globalizzazione e alla sua crisi è tutta nelle mani delle nuove formazioni populiste. Soprattutto, la sinistra (o quanto ne resta) non riesce più a parlare al popolo: la narrazione dominante è divenuta (dall’America all’Europa ecc) quella liberista. Per la sinistra, stavolta, sono davvero tempi di ricostruzione dalle radici.

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