AXEL HONNETH, L’IDEA DI SOCIALISMO. Un breve saggio che merita di essere letto

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1 – Discutiamo seriamente il libro di Axel Honneth, “L’idea di socialismo“: la scelta stessa di uscire con un libro di questo genere, con questo titolo, con questo argomento, rappresenta un fatto culturale.

Erano anni che il socialismo era scomparso dalla pubblicistica, quasi come un “residuato bellico, un sopravvissuto“. Ora è il direttore del celebre Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, l’allievo di Habermas, che ci invita a rimetterlo nell’agenda culturale e politica. Si tratta di un’occasione da non farsi scappare.

2 – “Socialismo”: questa parola ha una storia lunga alle spalle. Honneth ne rintraccia le prime apparizioni addirittura nel XVIII secolo: sembra venisse usata in modo spregiativo contro i sostenitori del diritto naturale che volevano fondare l’ordinamento giuridico sul naturale impulso umano alla socialità e non sulla rivelazione divina. In realtà nel significato che noi conosciamo, ovvero come parola che vuole indicare una nuova forma di organizzazione sociale, appare in Francia verso il 1830, probabilmente grazie alla penna di Pierre Leroux. Era la Francia che aveva appena dietro le spalle la cesura storica della Rivoluzione francese: Honneth giustamente stabilisce un legame strettissimo tra gli ideali della rivoluzione francese e la nascita dell’idea stessa di socialismo.

Generalmente si è soliti dire che l’idea di socialismo nasce in contrapposizione a quella di individualismo che inizia ad emergere negli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese. Honneth sposta leggermente l’accento: depura o lascia sullo sfondo questo elemento polemico e sottolinea un nesso inscindibile tra l’idea di socialismo e due valori portanti della rivoluzione francese: la libertà e la fraternità. Nella Francia postrivoluzionaria, argomenta il nostro autore, si comincia a pensare che la libertà non può essere un privilegio di qualcuno, che la libertà di ciascuno non deve essere vista come un limite, ma piuttosto come un ausilio per la libertà di tutti gli altri. Insomma, si comincia a ragionare su un’idea non individualistica di libertà, su una nuova libertà sociale: è il concetto di fraternità che permette di ripensare e tenere assieme libertà e comunità.

Questo angolo visuale permette a Honneth di recuperare e valorizzare le primissime esperienze e le primissime teorizzazioni socialiste (i sociali sti utopisti, avrebbe detto Engels): sono esperienze in cui i motivi ispiratori, le categorie più ricorrenti, sono soprattutto associazione, cooperazione, comunità. Sono queste probabilmente le pagine più belle del libro, anche perché Honneth vede proprio in questa tensione associativa, nella reinvenzione del concetto stesso di comunità, nella spinta a cooperare, l’operazione più affascinante del movimento socialista, quella che può tornare a parlare anche all’oggi, quella più densa di attualità.

3 – Vi sarebbero, però, – scrive Honneth – tre tare originarie del socialismo con cui fare i conti. I nodi che solleva sono grossi e meritano di essere discussi puntualmente.

Con la prima tara non si può che concordare: la sottovalutazione della libertà individuale. L’accento posto sulla libertà sociale fa scivolare in second’ordine la libertà della singola persona: qui stanno sicuramente le radici di tanti guai successivi. Oggi penso che siamo tutti d’accordo sull’impossibilità di pensare il socialismo senza le libertà individuali.

Più problematiche appaiono le altre due questioni: la visione della storia e il rapporto con il mondo del lavoro industriale. Oggi è un luogo comune prendersi gioco della teleologia, della visione finalistica della storia che fin dalle origini ha attraversato in varie forme il movimento socialista. Le ragioni sono evidenti: nelle nostre mani si è disfatto non solo il materialismo storico, ma anche – perfino – la fiducia illuministica nel progresso. Eppure, mi sembra che la questione meriti qualche ulteriore riflessione.

Proviamo a guardare all’indietro, a collocare storicamente il problema: davvero qualcuno pensa che i militanti socialisti avrebbero potuto affrontare gli immensi sacrifici della loro lotta senza la visione di una meta, senza la speranza di una nuova società? Penso a quegli uomini che dovevano affrontare prove tremende: licenziamenti, miseria per sé e per le proprie famiglie, arresti e deportazioni. Davvero avrebbero potuto farlo senza quella cosa, la “fede nel socialismo“, che oggi viene liquidata con tanto sufficienza?

Ma soffermiamoci sull’oggi. Abbiamo alle spalle trent’anni e più di postmoderno che ci hanno abituati a liquidare ogni visione di lungo periodo, a concentrare l’attenzione solo sul presente, a vivere il presente come unica dimensione della vita, a immergerci nel presente. Eppure la mia impressione è che il futuro, il problema del futuro, che era stato liquidato con tanta leggerezza, stia tornando prepotentemente tra noi. O meglio, la mia impressione è che il futuro in modo del tutto imprevisto abbia cominciato a rotolarci addosso.

Che cos’è l’inquietudine che ci circonda se non la sensazione nuova, inquietante che il mondo stia cambiando tumultuosamente, che il nostro ambiente di vita si stia radicalmente cambiando senza però – attenzione: qui sta il punto – senza che siamo noi a deciderlo? Siamo entrati dentro una “nuova grande trasformazione“, ma a ridisegnare il mondo sono due grandi forze impersonali: la globalizzazione e l’innovazione tecnologica e scientifica. La globalizzazione ridisegna i rapporti tra le varie parti del globo e accelera la circolazione dei cambiamenti mentre l’innovazione tecnologica e scientifica ridefinisce il nostro rapporto con la natura, i lavori, le nostre modalità di relazione, la durata stessa della nostra vita. Ogni giorno si accumulano nuove conoscenze nelle tecnologie digitali, nelle biotecnologie, nelle nanotecnologie, nella robotica, nelle neuroscienze: e ora incominciano a intuire che la loro ibridazione determinerà un vero e proprio salto di paradigma tecnologico e noi stiamo arrivando propri lì.

Ma non appena ci rendiamo di cosa sta davvero accadendo incominciamo a domandarci: dove ci stanno portando questi tumultuosi cambiamenti? C’è qualcuno che guida e orienta le scelte o dobbiamo accettare semplicemente che esse accadano automaticamente (oggi si direbbe: di default?). Dobbiamo solo prendere atto dell’inesorabilità o possiamo ragionare di fini e di valori con cui orientare questa immensa trasformazione? Sono domande cruciali dei nostri tempi ed esse ci costringono nuovamente a fare qualcosa cui ci eravamo disabituati, a non crogiolarci nel presente. Il problema dei soggetti della storia umana, dei fini e dei valori verso cui orientare il futuro sta ritornando tra di noi: sarà bene che ricominciamo ad attrezzarci teoricamente per affrontarlo. In poche parole: dobbiamo pensare al futuro anche se non siamo in grado di prevederlo. A me sembra che così si dovrebbe interpretare la proposta di “sperimentalismo storico” con cui Honneth chiude le sue considerazioni al riguardo.

Qualche riflessione merita anche la terza presunta “tara”: l’ancoraggio del socialismo al mondo del lavoro industriale. Qui temo di non concordore con Honneth: sento riecheggiare tesi antiche, il clima che fa da sottofondo alla Scuola di Francoforte, la ben nota sfiducia di Adorno e Horkheimer verso la classe operaia. A me sembra, invece, storicamente indiscutibile che l’idea di socialismo si è diffusa nel mondo ed ha avuto la forza che ha avuto proprio perché si è intrecciata profondamente con la vicenda della classe operaia. Per tante ragioni, fra queste anche per la lucidità con cui alcuni pensatori – e qui il più importante è stata sicuramente Marx – hanno intravisto il possibile ruolo sociale e politico del proletariato industriale. Per altro nel loro pensiero non c’era alcuna banalità meccanicistica: a tutti noi è ultranota la distinzione tra classe in sé e classe per sé, insomma il ruolo della battaglia delle idee, della paziente costruzione politica e ideale del movimento operaio.

Ancora una volta: lo sguardo attuale applicato troppo semplicemente al passato può trarre in inganno. Noi oggi stiamo vivendo un fenomeno doloroso, di immensa portata politica: la dissoluzione del movimento operaio, di quel soggetto potente della storia che era fatto dall’intreccio di sindacato, soggetto politico e visione ideale. Il movimento operaio si è dissolta negli ultimi trent’anni. Non per questo possiamo svalutare il ruolo che ha avuto per centocinquant’anni: esso è stato una forza sociale e politica fondamentale per oltre un secolo. Aggiungo: la crisi verticale del movimento operaio non ci autorizza a svalutare il ruolo che il lavoro può e deve svolgere anche oggi: ma su questo punto cercherò di fare almeno alla fine del ragionamento.

4 – Permettetemi però di andare oltre, di sollevare una questione più di fondo: secondo me per tornare a discutere seriamente dell’idea di socialismo bisogna fare un passo ulteriore rispetto allo stesso Honneth, bisogna che ci liberiamo di un certo irenismo che attraversa tutto il libro, bisogna guardare più in faccia la realtà. Mi spiego meglio: tutto il ragionamento di Honneth si dispiega nel cielo delle idee, in un confronto tra teorie politiche. Le sue riflessioni, secondo me, avrebbero assunto ben altra forza se fossero state inserite nella dura, cruda cronaca politica di questi tempi. Forse Honneth è stato danneggiato proprio dal fatto che ha saputo anticipare i tempi, che ha fiutato l’aria prima di eventi confermativi del suo ragionamento. Il suo libro è uscito in Germania nel 2015, probabilmente pensato e scritto nei due – tre anni precedenti. E in questi ultimissimi anni sono accadute tante cose.

Da quando Honneth ha scritto il libro è accaduto un fatto letteralmente impensabile: che si è cominciato a parlare di socialismo là dove sembrava impossibile che potesse accadere, negli Stati Uniti, durante la campagna elettorale: il candidato Bernie Sanders si è dichiarato socialista, si è presentato con una piattaforma socialista e ha conteso fino alla fine la nomination ad Hillary Clinton. La cosa ancora più incredibile era che i sondaggi continuavano a dire che, tra i due sfidanti, era Sanders quello che aveva più possibilità di battere Trump. Notate bene: stiamo parlando di qualcosa che era completamente fuori dalla logica politica fino a pochi mesi prima. E lo sorprese non sono finite: i supporters di Sanders, come sapete, erano i più giovani e chi si occupava di cose americane non poteva esserne meravigliato: personalmente avevo capito che stava accadendo qualcosa di molto importante e sorprendente quando mi sono imbattuto nella rivista “Jacobin“, una rivista di giovani americani che è senza dubbio la più interessante rivista socialista di questi tempi.

 Ma Bernie Sanders purtroppo non è la sola novità di questi tempi. Tante altre cose sono accadute in pochissimo tempo: Trump, la Brexit ispirata da Farage, i populismi che dilagano (Le Pen, in tanti altri paesi dell’Europa Occidentale, per non parlare di quello che sta accadendo in Ungheria – dove il nazionalista di destra Orban subisce la concorrenza dello Jobbit, una formazione che non nasconde nostalgie neonaziste e in Polonia dove imperversa una formazione politica che si è affermata al grido di: Dio, patria e famiglia), l’UE sottoposta a tensioni inquietanti.

C’è qualcosa che accomuna questi populismi: chiusure nazionaliste, pulsioni xenofobe, aggressività verso nemici ricercati o inventati, leadership tendenzialmente autoritarie. Ancora: a ogni piè sospinto vengono agitati la paura e il rancore. Di fatto si tratta di un’onda populista di destra che sembra attraversare tante parti del mondo (non solo occidentale: si pensi all’India, alle Filippine, al Messico di Nieto o agli ultimi sviluppi in Argentina e Brasile ). E dinanzi a tutto questo il mondo progressista è in difficoltà, come mai dal dopoguerra ad oggi. Questa afasia della sinistra è il punto più allarmante ed è proprio su questo che dobbiamo soffermarci.

Cosa sta accadendo? A me sembra che il discorso brutale, semplificato, aggressivo dei populismi accarezza paure e insicurezze diffuse, la paure e le insicurezze provocate proprio dalla globalizzazione liberista e dall’ondata di innovazioni tecnologiche. Dinanzi ai cambiamenti la destra populista dice: costruiamo barriere difensive, chiudiamoci a riccio, voltiamo lo sguardo ad un passato rassicurante. Ecco la riscoperta della nazione comunità: da sempre la nazione è la comunità più rassicurante attorno alla quale costruire barriere e fili spinati. Questo messaggio scende in profondità, tocca e coinvolge proprio gli strati più popolari: non a caso le sirene populiste sono ben attente proprio ai bisogni della parte più debole del popolo. Pensiamo a Trump: protezionismo per creare posti di lavoro operaio. Oppure pensiamo all’Ungheria e alla Polonia: le destre urlano ai quattro venti che difenderanno a ogni costo lo stato sociale e bloccheranno le privatizzazioni.

E la sinistra, quella che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni, appare in singolare difficoltà: in Ungheria e Polonia addirittura buttata fuori dal Parlamento. Dove sta la sua difficoltà? A me sembra che il suo vero grande problema sta nel non riuscire a tenere assieme i due grandi perni della narrazione progressista, da un lato la crescita della soggettività, la libertà e il rispetto dei diritti umani e dall’altro lato la solidarietà, la giustizia e l’uguaglianza sociale. I due perni della narrazione progressista si sono allontanati, si sono separati e dentro questa smagliatura, dentro questa frattura si stanno inserendo minacciosamente i nuovi populismi di destra.

Il fenomeno può essere guardato da più punti di vista: c’è chi, nei suoi gruppi dirigenti, si è lasciato attrarre dalla sirena neoliberale fino al punto – clamoroso qui il caso di Tony Blair – da identificarsi con le élites globali liberali. C’è chi più nobilmente ha vissuto con generosità il fascino della narrazione dei diritti e soprattutto dei diritti umani e ha spostato tutto l’accento sulla questione della libertà. In ogni caso, qualunque sia stata la motivazione, i gruppi dirigenti della sinistra hanno dato l’impressione di avere dimenticato la grande lezione di quello che era il nascente movimento socialista: l’uguaglianza dei diritti non basta e può perfino essere ingannevole se ad essa non si accompagna l’uguaglianza sostanziale. I discorsi sui diritti, la stessa democrazia, possono diventare un velo che nasconde la crescita delle disuguaglianze. Detto diversamente: il liberalismo delle élites, quella che è prevalso in questi tre ultimi decenni, è cosa molta diversa da un liberalismo incorporato in un sistema democratico e socialista. Detto in altro modo ancora: libertà e sicurezza si sono dislocati su due piani diversi e a nessuno sfugge quanto può diventare pericolosa la lacerazione e la contrapposizione fra questi due valori essenziali per la vita umana: può prendere corpo l’idea che la sicurezza – nel senso più ampio possibile – deve venire garantita ad ogni costo, anche a prezzo dei diritti di libertà.

5 – A nessuno può sfuggire, o per lo meno questo è il cuore del mio ragionamento, che siamo dentro una svolta, un passaggio storico, di grande portata: a me sembra di poter dire che siamo nel pieno di un sommovimento periodizzante, di una frattura che segna un passaggio della storia. Tante cose stanno cambiando con una rapidità sorprendente: tutti stanno aggiornando e rivedendo l’agenda politica e culturale.

E’ dentro questo sommovimento che sta ritornando l’idea di socialismo. La storia è affascinante per la sua imprevedibilità: ha degli scarti del tutto imprevedibili. Il socialismo è riapparso nel mondo anglosassone, in quell’America dove non aveva mai attecchito. Ma pensiamo anche agli scossoni che si stanno succedendo in tutti i partiti socialisti: Gran Bretagna, ora Francia, qualcosa del genere in Germania: le leadership si spostano – bene, male? – a sinistra, recuperano linguaggi, valori, proposte della tradizione e della cultura socialista. Honneth aveva fiutato bene: l’idea di socialismo da residuato bellico, da sopravvissuto ritorna nell’agenda del confronto politico e culturale.

Per concludere il ragionamento vorrei provare, però, a scavare un attimo più a fondo. Proviamo a riflettere ulteriormente sulla genesi e sui momenti in cui è stata più forte la presa dell’idea di socialismo: la sua forza e il suo fascino stavano in qualcosa che andava oltre la spinta alla cooperazione e all’associazione. Per dirla con il linguaggio del tempo passato, un linguaggio però che rifletteva rigorosamente processi reali, il motivo ispiratore del socialismo, quello davvero unificante, stava nell’idea di emancipazione delle classi subalterne. Emancipazione: un’idea letteralmente sradicata. Cosa vuol dire? Viene da ex mancipium. Mancipium: facoltà di godere e disporre di cose e di schiavi. Ex mancipium: estrarre da questa condizione, rompere l’assoggettamento, spingere verso l’alto le classi subalterne: questa – l’emancipazione – è stata la vera, straordinaria funzione storica del movimento socialista.

Ma non stiamo parlando di qualcosa, di un nodo, che sta ritornando di straordinaria attualità? Tutti i dati ci dicono che la mobilità sociale si è bloccata, che le disuguaglianze sociali stanno crescendo vertiginosamente, che si sta formando una nuova élite globale che concentra nelle sue mani ricchezza e potere.

Notiamo bene: i populismi traggono alimento proprio da questa denuncia. Essi propongono una soluzione barbarica a questo problema: l’identificazione della gente semplice con un capo che li guida e protegge e la mobilitazione contro qualche capro espiatorio.

Ma non è compito delle forze progressiste pensare e organizzare una propria risposta, riprendere in mano e rielaborare la questione dell’emancipazione ovvero della riapertura della mobilità sociale, di un nuovo orizzonte di giustizia? Certo, ritornare su questa strada non sarà – non sarebbe una passeggiata. Tornare a ragionare sul socialismo non è un problema di vintage lessicale: questo semplice fatto rimetterebbe in discussione la scala delle priorità, rimescolerebbe l’agenda politica e sociale delle forze progressiste.

Provo ad esemplificare alcune delle conseguenze. Oggi sembra un luogo comune, una verità non discutibile, che bisogna abbassare le tasse. Talmente scontato che un ex presidente del Consiglio pochi giorni fa ha potuto parlare dei governi Prodi come di “governi Dracula”, con un “fisco vampiro” mentre lui al contrario avrebbe puntato tutto sull’abbattimento delle tasse. Meno tasse sembra l’orizzonte scontato, ma meno tasse equivale a meno stato sociale e meno stato sociale vuol dire allargare l’insicurezza sociale, il che – ci dice la cronaca di questi mesi – spinge i cittadini più poveri nelle braccia del populismo. E’ un giro vizioso, senza vie d’uscita. A meno che si cerchi di ragionare diversamente, in base ad altri presupposti e ci si interroghi se in questi anni si è andati nella direzione giusta. Prendiamo un dato semplicissimo: nel 1945 l’aliquota marginale negli States era del 94 % (!!!), scesa via via progressivamente: ora un gruppo come Apple paga l’1,5 % (!!!) di tasse sui profitti. Per questo saltano le misure di sicurezza sociale e allora mi chiedo: non sta lì la ragione dell’ascesa di Trump? Possiamo bloccare la deriva populista, antidemocratica, senza pensare diversamente, senza recuperare altri presupposti di pensiero?

Un altro esempio. Sembra scontato oggi pensare all’azienda come una realtà che ha un’unica funzione: produrre valore per gli azionisti. Al punto che gli azionisti, si dice e si legifera di conseguenza, possono sbarazzarsi della forza lavoro come e quando vogliono. Ma siamo certi che questa sia la concezione migliore di un’azienda, che non si possa pensarla diversamente, come una societas che trae la sua forza dalla convergenza di interessi e dalla sostanziale solidarietà tra tutti coloro che interagiscono con essa? E per quale ragione un’azienda pensata in quest’altro modo dovrebbe essere meno efficiente di una in cui gli azionisti fanno ciò che vogliono? Vi sono argomenti seri, e tante verifiche storiche, per sostenere che un’azienda che valorizza il lavoro riesce a competere meglio di altre. La valorizzazione del lavoro, idea centrale del progetto emancipatore socialista, riacquista nuova pregnanza e forza.

Come si vede rimettere in campo l’idea di socialismo, l’idea limite di una società giusta, potrebbe avere profonde conseguenze: si tratterebbe di un’operazione che rimetterebbe in sinergia elaborazione culturale, teorica, e la vita pubblica.

Un’ultima considerazione, per concludere. Permettetemi di affrontare la questione da un punto di vista leggermente diverso. Proviamo per un attimo a guardarci attorno. Il campo progressista non è povero di risorse: esse lavorano però isolate le une dalle altre. Vi è chi mette in primo piano la difesa dei diritti delle persone, chi si impegna per la cura delle persone più disagiate, chi dedica le proprie energie a ripensare il rapporto con la natura. Mondi diversi che camminano fianco a fianco, ma non interagiscono tra di loro, quasi fossero autistici, incapaci di dialogare e di costruire una prospettiva comune. Ciò che si è dissolto è una prospettiva comune, una narrazione che potesse tenere assieme tante diversità. E allora mi chiedo – ma qui davvero pongo la questione sotto forma di una domanda non retorica – se la riscoperta dell’idea di socialismo, ovvero di una società democratica e giusta, non possa permettere di rimettere in moto una narrazione unitaria, un punto di convergenza nel quale possano interagire virtuosamente e tenersi assieme le mille e mille diversità in cui in questi anni si è frantumato il campo progressista.

Concludo, come vedete, con un interrogativo, ma forse questa è la dimostrazione migliore di quanto il breve saggio di Axel Honneth meriti di essere letto.