“LA LUNGA ECLISSE Passato e presente del dramma della sinistra” di Achille Occhetto

Legnano – Venerdì 22 marzo, Libreria Nuova Terra

Presentazione del nuovo libro di Achille Occhetto,
La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra
(Sellerio Editore)

 

1 – Ho accettato molto volentieri l’invito a partecipare alla presentazione di questo libro di Occhetto. Perché si tratta di un bel libro, appassionato e profondo. E anche perché è un vivo piacere poter discutere con Achille Occhetto.

Tutti sappiamo che Occhetto è stato l’ultimo segretario del PCI, anche se per poco tempo, ed è poi diventato per cinque anni il primo segretario del partito nato dal PCI, il PDS. Non sempre però ricordiamo cosa sono stati quei sei anni in cui Occhetto è stato segretario nazionale: gli anni della più tumultuosa tempesta politica di tutto il dopoguerra italiano.

Nell’89 un evento decisivo su scala globale: il crollo del muro. Nel ’90: l’avvento sulla scena politica italiana dei primi movimenti identitari regionalista: la Lega lombarda e la Liga veneta, il primo segno della futura irruzione populista. Nel ’92 lo scoppio di Tangentopoli che di fatto ha liquidato il sistema politico della Prima Repubblica. Nel 93 – 94 l’irruzione di Berlusconi, il primo miliardario outsider che si impone sulla scena politica mondiale, l’apripista del populismo mediatico.

Occhetto ha traghettato il grosso del suo partito al di là di quella immensa bufera. Certo, la sua direzione si conclude con una sconfitta elettorale alle elezioni del ’94, ma con giusto orgoglio può scrivere che la sinistra sconfitta in quelle elezioni era ancora in piedi, con 12 milioni di voti e una vitalità che le avrebbe permesso da lì a poco di reagire e tornare protagonista sulla scena italiana.

Penso che Occhetto abbia ragione. Anzi sia doveroso aggiungere che le forze traghettate oltre quell’immensa bufera hanno rappresentato l’unica formazione politica che sia riuscita a non farsi travolgere dall’ecatombe del ’92, e che esse sono state, di fatto, l’ossatura portante del centrosinistra nei due – tre decenni successivi.

2 – Veniamo al libro. Il titolo innanzitutto: l’autore parla di “Eclisse” e non di “crollo” per segnalare un offuscamento drammatico della sinistra, ma non una sua sparizione definitiva.

Per ricostruire la ragioni di questa “eclisse” Occhetto si impegna in una accurata, severissima, perfino spietata analisi storica. La lente del passato, ovvero, come l’autore stesso dice, lo sguardo sul “presente come storia e sulla storia come presente”, è adottato con una serietà e con un impegno oggi desueto, in tempi in cui si la conoscenza storica è svalutata oppure ridotta a semplice erudizione.

Lasciatemi sottolineare questo punto. Nel 92, come ben sappiamo, è stato distrutto e liquidato il partito italiano dalle radici più antiche, il Partito socialista. Così pure un altro grande partito che aveva governato l’Italia per quarant’anni, la DC, cede di colpo pezzi enormi del suo elettorato prima al localismo identitario leghista e, poi, al populismo mediatico berlusconiano. Nell’un caso e nell’altro non abbiamo letto – da parte di chi aveva diretto questi partiti – riflessioni così impegnative sulle motivazioni di simili schianti. Occhetto, invece, che ha guidato l’unico partito sopravvissuto alla bufera, si immerge in una ricerca tanto appassionata quanto dolorosa sulle radici di lungo termine della crisi del suo partito.

La riflessione di Occhetto segue un preciso filo conduttore: ovvero cerca di spiegare come sia stato possibile che un movimento come quello comunista, che ha generato immense speranze nel mondo, abbia potuto andare incontro a un processo di involuzione che lo ha portato addirittura alla sua dissoluzione. Questa ricostruzione storica è intessuta di osservazioni non scontate, di vivo interesse. Come le pagine – che vorrei riprendere per un attimo – sull’internazionalismo, da Occhetto indicato come il fattore di maggiore fascino del movimento operaio e del movimento comunista.

Leggendo il libro mi è venuta in mente quella scena del film “Il giovane Marx” – probabilmente l’avete visto – in cui viene cambiato lo striscione che sovrasta la riunione della Lega dei Giusti e per la prima volta appare la scritta: “proletari di tutto il mondo unitevi”. Siamo nel 1848: è il primo momento in cui quella parola d’ordine appare nella storia: essa si imporrà nel mondo grazie al Manifesto di Marx e di Engels.

Occhetto ricostruisce la potente forza espansiva di quella idea, raccolta e rilanciata dai comunisti durante e dopo la Grande Guerra, ma anche il modo con cui viene progressivamente svilita e accantonata. Un passaggio chiave, sottolinea l’autore, si ha quando ad essa viene sovrapposta la teoria dei “due campi”, quello socialista e quello capitalista. Ovvero una teoria che rattrappisce e congela l’internazionalismo: da una parte un campo socialista che si autocelebra e dall’altra un campo capitalista di cui non si colgono le contraddizioni e le potenziali evoluzioni. L’internazionalismo viene di fatto ridotto alla difesa degli interessi dello stato guida del campo socialista. La conseguenza, dice Occhetto, – e si tratta di osservazione decisiva – è che il movimento operaio e quello comunista perdono sempre più peso sulla scena globale, fino a lasciare il terreno sgombro per l’affermazione della “globalizzazione”, ovvero per quello che potremmo chiamare l’internazionalismo delle classi dominanti.

Questa riflessione, ad ampio respiro, sulla grande storia si intreccia nel libro con il vissuto personale dell’autore, con le scelte e le passioni di Achille Occhetto, giovane militante e poi dirigente comunista. Il tono del libro, il pathos che esso riesce a trasmettere, sta proprio in questa sovrapposizione tra il grande dramma della storia e le vicende personali dell’autore.

La parabola del comunismo, la sua espansione e poi la sua crisi, vengono così raccontate nel loro intreccio con le scelte dei comunisti italiani: ne emerge la diversità del comunismo italiano (nella ricostruzione di Occhetto giganteggia, giustamente, la figura di Antonio Gramsci), ma anche la persistenza del legame con l’URSS.

Nella sua ricostruzione Occhetto non si perdona nulla, neppure quella sua giovanile celebrazione di Giuseppe Stalin – di cui mai nessuno gli avrebbe chiesto conto – che ha la ventura di leggere nella sua sezione all’età di 17 anni, in occasione della morte del despota sovietico. La ricostruzione storica è arricchita anche dal racconto di alcuni fatti – pochi ma interessanti – cui Occhetto ha partecipato in prima persona. Uno almeno devo richiamarlo: l’ultimo incontro con i comunisti cinesi, quello in cui avvenne la rottura definitiva. La delegazione del PCI si incontrò con una delegazione cinese al più alto livello, guidata dal segretario Deng Xiao Ping. Si ragionò della guerra nel Vietnam che stava iniziando: i comunisti cinesi esplicitarono la loro speranza che la guerra si internazionalizzasse fino a un loro possibile coinvolgimento, senza escludere la possibilità dello sbocco in uno scontro atomico. Consiglio vivamente la lettura di queste due pagine, che Occhetto estrae dal diario che aveva scritto durante quel viaggio: si tratta di un documento sconcertante, perfino terribile. Che costringe a riflessioni severe e profonde.

In questa narrazione storico – politica l’89, il crollo del “muro” e poi di tutto il socialismo reale, è un evento tutt’altro che improvviso: è il punto di arrivo di una crisi maturata in un tempo assai lungo. È in questo scenario di drammatica profondità storica, dentro questa crisi di lunga durata, che Occhetto colloca la scelta cui, più di ogni altra, è inesorabilmente legata la sua direzione: la “svolta”, il superamento del PCI e la costruzione di un nuovo partito.

 

3 – Ma vi è anche una seconda parte del libro. Essa esplicita il “paradosso” – il termine che usa Occhetto stesso – dei nostri tempi: la risposta alla grande crisi, alle contraddizioni crescenti della globalizzazione non viene da sinistra, ma da “una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista”. “Il vuoto lasciato dalla sinistra è occupato dai populismi”. “Nei quattro angoli del pianeta- scrive anche l’autore – la classe operaia sta voltando le spalle alla sinistra”.

Si tratta di un fenomeno di tale portata che richiede ancora una volta una riflessione a tutto campo, uno scavo per ricostruire anche i passaggi storici in cui si è determinata questa sconcertante torsione politica. Il problema è capire le ragioni per cui non si è stati in grado di costruire una fuoriuscita a sinistra dalla crisi del comunismo, perché invece il ripudio del comunismo abbia generato un riformismo acritico, debole, senza respiro globale, senza visione della società.

Occhetto propone al riguardo riflessioni stimolanti che toccano nodi essenziali del dibattito attuale, o forse sarebbe meglio dire, di quello che dovrebbe essere il dibattito attuale.

Non le riprendo qui: sto parlando anche troppo. Accenno solo al punto essenziale: la debolezza critica di un riformismo minimalista. “La crisi del socialismo europeo – scrive l’autore – sta nella flebile critica all’attuale modello di sviluppo”. “Si è smarrito l’orizzonte. Si è fatto coincidere il crollo del comunismo con il crollo della sinistra. Si è offuscata la possibilità stessa di un mutamento del modello di sviluppo e di una risposta ai nuovi problemi globali nel nome del bene comune dell’umanità”.

Mi limito a dire: condivido appieno queste severe e amare considerazioni.

 

4 – Un’ultima riflessione. L’ultima volta che ho incontrato Occhetto, in occasione della presentazione del suo precedente libro, “Pensieri di un ottuagenario”, mi è capitato di affidargli uno sfogo personale e doloroso, la mia sensazione di un drammatico sfaldamento dell’insieme del mondo della sinistra. Eravamo ancora lontani dalle elezioni del 4 marzo, ma non ci voleva molto per capire come sarebbero finite e per leggere cosa stava accadendo attorno a noi.

Mi sembra una buona cosa poter chiudere questa breve presentazione con un tono un poco diverso. Da allora qualcosa si è mosso, nel profondo della società, e qui a Milano – forse – lo abbiamo potuto toccare con mano meglio e più che altrove. Sto pensando alla grande manifestazione del 2 marzo, “People, prima le persone” e, poi, allo straordinario successo venerdì scorso della manifestazione “Fridays for future”.

C’era qualcosa di nuovo in queste manifestazioni. Nuove modalità organizzative: il motore trainante è stata la partecipazione dal basso, tramite un variegato tessuto associativo. Nuovi messaggi: mutualismo e civismo quali motori trainanti di un nuovo solidarismo. E ancora: tanti, tantissimi giovani, con una loro embrionale cultura critica.

Mi piace richiamare questi fatti a conclusione di un ragionamento sulla crisi drammatica della nostra sinistra. Forse nella società, tra i giovani, qualcosa si sta muovendo. Forse è giunto il momento per rimettere in circolo – finalmente – anche qualche parola di speranza.

QUALE FUTURO PER LA DEMOCRAZIA? *

Cattura

1 – Da qualche anno in occasione della ricorrenza della fondazione della Casa della Cultura proponiamo un incontro per evidenziare e approfondire i nodi su cui si sta concentrando la nostra riflessione. Due anni fa abbiamo ragionato sulle implicazioni degli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica: “Il futuro dietro l’angolo”, abbiamo proposto. Lo scorso anno abbiamo focalizzato la questione del “senso”, ovvero del dove si sta andando. Quest’anno abbiamo deciso di ragionare sul “futuro della democrazia”.

C’è stato un passaggio storico – nel decennio che è seguito alla caduta del Muro – in cui la democrazia appariva come una forma politica trionfante e indiscutibile. Si era messa in moto quella che Huntington chiamò la terza ondata della democratizzazione: i regimi dittatoriali e autoritari sembravano cedere “naturalmente” il passo alla democrazia e il sistema democratico veniva celebrato come il nostro destino certo e indiscutibile.

Oggi, a distanza di venti – trent’anni, si respira un’aria molto diversa, con tanti e difficili interrogativi che si stanno addensando. Vi sono segnali di ritorno a regimi illiberali e tanti altri di trasformazioni profonde della democrazia stessa.

2 – Cominciamo con uno sguardo fotografico, a tutto campo. Esso ci segnala in modo inoppugnabile che alla fine del secolo scorso la qualifica “democratico” è stata distribuita con qualche eccessiva generosità.

Molti paesi cui era stata attribuita la qualifica di democratici dopo la “terza ondata” ci appaiono oggi “democrazie elettorali” piuttosto che democrazie liberali. Il che significa che al diritto di voto corrisponde un pluralismo alquanto zoppicante e un sistema di garanzie – per le minoranze politiche e per l’insieme dei cittadini – che dobbiamo definire per lo meno rudimentale.

C’è poi un altro gruppo di paesi nei quali si stanno verificando veri e propri processi involutivi. Si tratta di realtà distribuite in varie parti del mondo: si va da alcuni stati dell’Est europeo – come la Polonia e l’Ungheria – ad altri di importanza cruciale nel medio Oriente come la Turchia fino a paesi dell’America Latina come il Venezuela e, per altri aspetti, il Brasile. Sembrava avessero imboccato saldamente la strada della democrazia, ma ora stanno virando verso forme neo – autoritarie. Nell’est europeo è stata coniata dagli stessi protagonisti la formula “democrazie illiberali”, di per se stessa assai eloquente. La Turchia, dopo il tentato golpe, si è immersa in una spirale di arresti, di intimidazioni e di svuotamento dei contrappesi e delle garanzie democratiche. In Sud America sta ritornando prepotente la tentazione del caudillismo: difficile spiegare altrimenti la sconcertante elezione a Presidente del Brasile di quel Bolsonaro che si autoproclama fascista e nostalgico dei gorilla militari.

Ma c’è dell’altro: vi sono segni di sofferenza del sistema democratico anche nel cuore dei paesi a più lunga e consolidata tradizione democratica. Essi si manifestano attraverso un sintomo ben preciso: il dilagare del populismo. A breve giro di termine la Brexit, l’avvento di Trump e la vittoria dei giallo – verdi in Italia squadernano dinanzi agli occhi il rischio di un’involuzione delle nostre democrazie. L’eruzione dei populismi è il sintomo di una grave crisi democratica: una crisi di rappresentanza. Ovvero, l’esplosione di una profonda insoddisfazione sociale e politica che cerca affannosamente nuove strade per imporsi sulla scena pubblica.

Nell’insieme un quadro di trasformazione e di sofferenza della democrazia sulla quale riteniamo opportuno soffermarci con la dovuta attenzione. Per mettere a fuoco un interrogativo: siamo a una crisi nella democrazia o a una crisi della democrazia?

3 – Ma quali sono i fattori che hanno reso difficile il consolidamento dei nuovi regimi democratici e che hanno messo in sofferenza anche le democrazie più consolidate? A me sembra che sia possibile individuare tre grandi nodi che si sono via via sovrapposti e intrecciati tra di loro.

Prima questione: la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel diciannovesimo e ventesimo secolo, era intimamente collegata allo stato nazionale. La sovranità dei cittadini si è sempre esercitata dentro i confini dello stato nazionale. Ma è indubbio che la globalizzazione, quella che si è dispiegata negli ultimi trenta – quarant’anni, quest’ultima globalizzazione, mette in sofferenza gli stati nazionali. Ho detto: questa globalizzazione, perché altre precedenti globalizzazioni hanno visto come protagonisti gli stessi stati nazionali che arrivarono a contendersi fragorosamente il dominio e il controllo del globo.

Quest’ultima globalizzazione, invece, ha generato e messo in movimento potenti forze sovranazionali. Senza ombra di dubbio è emersa come protagonista assoluta la finanza globale. Per non parlare dei giganteschi conglomerati che hanno bilanci superiori a quelli di larga parte degli stati nazionali e che sfuggono inesorabilmente al controllo e al condizionamento dei singoli paesi. Gli stati hanno visto sottrarsi molti poteri sulla regolamentazione dei mercati, sulla produzione, sulle comunicazioni mentre, per altro verso, proprio per fronteggiare questa situazione inedita, hanno ceduto altri poteri a nuovi organismi sovranazionali. Nell’un caso e nell’altro hanno visto restringersi i campi su cui esercitare la propria sovranità.

Ancora, sono emersi problemi di ordine e grandezza globale dinanzi ai quali ci si è sentiti privi di strumenti adeguati per intervenire. Si pensi ai movimenti delle popolazioni o al problema del riscaldamento globale, della minaccia del cambiamento climatico.

Qui, a me sembra, nella debolezza e nella crisi di ruolo degli stati nazionali, sta una delle ragioni principali della crisi di legittimazione che ha investito tutti i regimi politici nel mondo e che, ovviamente, si manifesta con particolare acutezza proprio nei paesi democratici, là dove i cittadini hanno i canali aperti attraverso cui fare sentire la propria voce.

Non sono mancati generosi tentativi di supplire allo svuotamento della cittadinanza nazionale proponendo e inseguendo una inedita cittadinanza globale. In effetti si è formato un embrione di opinione pubblica globale, che di tanto in tanto, su specifiche questioni, riesce a fare sentire la propria voce. Si sono formati anche soggetti che si muovono a tutto campo sulla scena globale: si pensi alla rete delle ONG e alla loro influenza su alcune rilevanti questioni. La stessa giornata di lotta odierna – con i tanti giovani che si stanno mobilitando nel mondo intero – segnala il formarsi di un movimento globale di opinione pubblica che si propone di contrastare il cambiamento climatico.

In Europa, come ben sappiamo, si è andati oltre: si è costruita ex novo istituzione continentale per dare uno sbocco alla insufficienza dello stato nazionale: l’Unione Europea è stato il tentativo più coraggioso di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di realizzare una nuova sfera di sovranità democratica sovranazionale.

Ma in realtà né il sogno della cittadinanza globale né il progetto della cittadinanza europea sono riusciti a creare meccanismi democratici alternativi, sovranazionali, tali da mitigare e bilanciare lo svuotamento della sovranità nazionale. Si è aperto un vuoto nell’esercizio della sovranità democratica: esso ha eroso la legittimità dei regimi politici democratici dentro ogni singolo paese. In questo vuoto si è formato l’humus dei nuovi sovranismi, dentro i quali sentiamo ribollire umori inquietanti, intolleranti, xenofobi, al fondo antidemocratici.

4 – Seconda questione: gli sviluppi di questi ultimi decenni hanno spezzato il nesso, per quanto discusso e problematico, che ha legato tra di loro democrazia e uguaglianza. Antica questione su cui, da angolature assai diverse, hanno scritto cose decisive nella fase aurorale delle democrazie occidentali due giganti del pensiero come Toqueville e Marx. Il filosofo tedesco per dire che si trattava solo di uguaglianza formale, mentre l’aristocratico francese segnalava che con l’introduzione della democrazia si era messo in moto un processo inarrestabile verso l’uguaglianza.

Lasciamo pure sullo sfondo le suggestioni e implicazioni teoriche di questa discussione e stiamo ai fatti. La democrazia nel dopoguerra si è consolidata nei paesi occidentali perché ha dischiuso una stagione di inclusione sociale e ha realizzato un sistema straordinario di protezione sociale. L’ascesa del mondo del lavoro e la costruzione del welfare sono i tratti distintivi della democrazia nel dopoguerra, della democrazia dei trent’anni d’oro, della stagione segnata dalla cultura e dai valori dell’antifascismo.

La legittimazione popolare della democrazia, il suo fascino anche nel mondo popolare, è intimamente legato a questi processi sociali e politici. Durante quella stagione il sistema politico democratico ha saputo raccogliere e organizzare le domande dei cittadini, compreso quelle della parte più debole e disagiata della democrazia: la cittadinanza democratica ha trovato i suoi canali di scorrimento, ha avuto un significato vivo e pulsante. Tutto ciò ha cominciato ad essere messo in discussione dai primi anni Ottanta.

La democrazia inclusiva di questo dopoguerra ha iniziato da allora a scricchiolare. Si sono progressivamente occlusi i canali della rappresentanza democratica: pesa qui la progressiva, inarrestabile, frantumazione del lavoro: il peso politico del mondo del lavoro si è via via ridotto. A seguito dell’indebolimento del mondo del lavoro si è affievolita, spenta anche la voce della parte più disagiata della società. La solidarietà è evaporata e l’individualismo si è radicalizzato.

L’effetto complessivo ci è ben noto: le disuguaglianze hanno iniziato a ricrescere. Il tutto accompagnato da un mutamento profondo del clima culturale: l’uguaglianza sociale ha perso il carattere di valore – di idea limite – verso cui tendere. Anzi, nell’arena pubblica ha preso via via più forza un’argomentazione che legittima la disuguaglianza.

Possiamo dire che nell’insieme si è verificato uno scivolamento, potremmo dire perfino uno stravolgimento, della democrazia: essa, dopo essere stata per trenta e più anni, la forma politica nella quale ha potuto realizzarsi una progressiva ascesa delle classi subalterne, si è trasformata nella forma politica migliore per la legittimazione del potere delle classi dominanti. In altre parole, si è verificato un autentico rovesciamento della percezione sociale della democrazia. Politologi e storici come john Dunn e Tony Judt hanno sollevato per tempo la questione: oggi è impossibile prescindere da questo nodo dalle immense implicazioni.

5 – A tutto ciò dobbiamo aggiungere, dall’inizio del nuovo secolo, un processo nuovo, l’ultimo che si è delineato ma non per questo meno rilevante: il tendenziale passaggio – nel quale siamo immersi – dalla democrazia organizzata alla democrazia disintermediata.

Tocchiamo qui un nodo ancora poco riflettuto, ma di immense implicazioni: la crisi dei corpi intermedi, i partiti soprattutto, accelerato dalle applicazioni alla vita pubblica delle nuove tecnologie dell’informazione. Qualche problema stava già emergendo ai tempi della crescita esplosiva del sistema mediatico: l’overload informativo, la sovrabbondanza del sistema dell’informazione, stava iniziando a deformare lo spazio pubblico. Ma negli ultimi anni è accaduto qualcosa che va ben oltre: la Rete prima, e poi i social, stanno letteralmente trasformando la vita pubblica.

C’è già un’ampia letteratura sul “direttismo”, sul fascino della semplificazione, sul trionfo delle emozioni a scapito delle argomentazioni. A tutto ciò bisogna aggiungere la tendenza ultimissima, quella legata all’esplosione dei social, ovvero il peso crescente della gestione dei big data, della profilazione degli utenti della Rete tramite algoritmi, l’uso del fake e il ricorso crescente ai bot per inchiodare i frequentatori dei social nelle loro echo – chambers.

I soggetti che guidano e strutturano la discussione sulla Rete si stanno disincarnando: la discussione è suscitata e diretta da strumentazioni tecniche che agiscono e colpiscono automaticamente, sprigionando anche un’inaudita carica di aggressività e di violenza nel confronto pubblico. L’utopia che aveva accompagnato l’ascesa della Rete, l’autoproduzione di massa delle notizie e dei commenti, si sta trasformando nel suo esatto contrario, in un’autentica distopia. Sto accennando a fenomeni ancora poco conosciuti ma con i quali ormai dobbiamo confrontarci giorno per giorno: si pensi al sistema di comunicazione del ministro degli Interni, e all’algoritmo, detto “La Bestia”, con cui gestisce la sua presenza sulla Rete e con cui scatena le sue campagne.

Sono mutamenti profondi, radicali, rapidissimi, che sollevano domande inquietanti. In questa situazione dove e come si forma l’opinione pubblica? Dove è finita quell’opinione pubblica ben informata che avrebbe dovuto formarsi con il dibattito razionale suscitato e gestito dai corpi intermedi di cui ragionava all’incirca quarant’anni fa Jurgen Habermas?

È dentro queste dinamiche che la semplificazione populista e il leaderismo populista trovano il terreno di coltura ideale.

6 – Ho indicato alcuni cambiamenti profondissimi che stanno investendo la democrazia. Essa sta cambiando, anzi è cambiata profondamente. Questi processi, come ben sappiamo, generano mutamento, stravolgimento, crisi.

Il problema, per riprendere la domanda da cui siamo partiti, è se questi mutamenti profondi hanno generato una crisi della democrazia oppure una crisi nella democrazia. Ovvero, se la democrazia riesce ad avere gli anticorpi per evitare processi degenerativi.

Per evitare che lo sbocco di questa crisi sia lo sfarinamento dei corpi intermedi, il prevalere, in un’opinione pubblica scomposta e frantumata, dominata da passioni ed emozioni incontrollate, nel segno della paura, della rabbia, dallo spirito di rivalsa e di ritorsione, con cittadini pronti a identificarsi con, e a consegnarsi nelle mani di leader autoritari. Si tratta di uno scenario inquietante, ma tutt’altro che irreale, uno scenario cui il “popolo” ( il cittadino dimenticato, la parti più disagiate della popolazione) tornerebbe in primo piano ma in un contesto di valori e di politiche autoritario e reazionario.

Nel qual caso resterebbe, probabilmente – (probabilmente non significa sicuramente!) – l’involucro democratico, ovvero il ricorso periodico al voto dei cittadini, ma con garanzie liberali indebolite e senza più quella crescita civile e sociale che è stata il motivo più profondo di fascino, di attrazione e di legittimazione delle nostre democrazie.

7 – Insomma, mi sembra opportuno riflettere seriamente sul fatto che questa crisi possa avere sbocchi anche molto inquietanti. La minaccia populista, il sintomo di questa crisi, deve essere presa molto sul serio: il “momento populista” può essere di non breve durata e può avere sbocchi anche molto sgradevoli.

Si tratta di pensare a come costruire uno sbocco positivo a questa crisi. Ma per questo bisogna avere il coraggio di andare alla radice dei problemi. Per altro a me sembra evidente che i nodi accennati – la visione acritica della globalizzazione, la torsione neoliberale della democrazia, l’ingenua fiducia nella Rete – toccano direttamente il nostro mondo culturale e politico di riferimento: un po’ tutti noi, noi inteso come il mondo della sinistra nel suo insieme, siamo spinti – a me sembra – a una coraggiosa e profonda azione di ripensamento. Se vogliamo, ovviamente, non lasciarci travolgere dai segnali inquietanti di crisi democratica che si sono addensati.

*Milano, 15 marzo 2019, in occasione del 73° della Casa della Cultura