DISUMANIZZAZIONE E NUOVO UMANESIMO

Una nuova narrazione: I fini – Scuola di cultura politica X edizione
Domenica 20 ottobre 2019 Scuola di cultura politica 2019 – 2020

 

Disumanizzazione e nuovo umanesimo

1 – Da qualche tempo si parla spesso di nuovo umanesimo. In occasioni e in sedi anche del tutto inaspettate. Lo ha fatto il Presidente del Consiglio durante la sua replica in Senato: in quel discorso ha parlato addirittura del nuovo umanesimo come “nuovo orizzonte politico e ideale” per il paese. Confesso che ho avuto un sobbalzo: chi parlava in quel momento era il Presidente del Consiglio uscente della maggioranza giallo – verde, che si era distinta per tante cose, ma di certo non per scelte umanitarie. In quel momento ho avuto la percezione che un concetto decisivo, che cerco di proporre da circa una decina d’anni, stava correndo il rischio di trasformarsi in un facile passe partout, utilizzabile con disinvoltura per mettersi la coscienza a posto.

Devo dire che nel giro di pochi giorni autorevolissimi esponenti del mondo cattolico si sono affrettati a correggere quella prima impressione. Uno dei teologi italiani più autorevoli, Bruno Forte, ha spiegato sul Corriere che Giuseppe Conte non aveva improvvisato: era stato un allievo del Cardinale Silvestrini, aveva frequentato la Casa di Nazareth. Insomma, l’uscita era tutt’altro che casuale, era parte di un’operazione politico – culturale finalizzata a dare slancio ad un’operazione – il ribaltamento della maggioranza, il nuovo ruolo di Conte stesso – cui cominciavano a guardare con attenzione forze rilevanti, fra cui anche una parte delle stesse gerarchie cattoliche.

Motivo in più allora per discuterne seriamente.

2 – “Nuovo umanesimo” è un termine forte che evoca un passaggio epocale.

Proviamo ad accennare ai periodi storico – culturali per i quali si utilizza con più frequenza il termine “umanesimo”: l’umanesimo greco,

l’umanesimo cristiano, l’umanesimo italiano, ovvero la stagione che prepara il Rinascimento. In tutti questi snodi storici il termine umanesimo è stato adottato per segnalare una vera e propria rottura di continuità. E non si è mai trattato di un passaggio semplice, lineare, indolore.

In questi ultimi tempi sono usciti lavori di grande interesse – ricordo quelli di Michele Ciliberto e di Massimo Cacciari – per problematizzare l’idea dell’umanesimo italiano come una stagione armonica, gioiosa, di crescita progressiva e indolore. Entrambi hanno messo l’accento sulla intima drammaticità della ricerca degli umanisti. Quel loro messaggio così nuovo – quell’accento posto sulla fiducia nell’attività dell’uomo che a distanza di tanto tempo continua a suscitare grande ammirazione in noi – si è formato dentro un vecchio mondo culturale che andava in frantumi: il nuovo mondo culturale degli umanisti è nato in mezzo alle doglie di un parto assai doloroso.

L’Umanesimo italiano, ovvero quel complesso movimento culturale che dal Petrarca fino al Valla e all’Alberti ha contribuito potentemente a mettere al centro del pensiero l’uomo e la sua attività, è nato da una interrogazione sulla condizione dell’uomo e sul suo destino: questioni che tornano in tempi di crisi e di trasformazione come quelli in cui siamo immersi, mentre avvertiamo che inizia un mondo nuovo di cui però non riusciamo a comprendere i tratti.

Ragionare oggi di un nuovo umanesimo vuol dire mettere nel conto un passaggio epocale, una rottura drammatica di paradigmi, un salto per il quale bisogna fronteggiare ostacoli di immensa portata. In questo senso il nuovo umanesimo può diventare davvero il nostro orizzonte politico – culturale.

3 – La riflessione sul nuovo umanesimo ha cominciato ad emergere parecchi anni fa, ben prima che montasse il clima xenofobo e razzista degli ultimi tempi, ben prima delle provocazioni di Salvini e dei segnali di imbarbarimento e di disumanizzazione dilagati negli ultimi tempi.

Ognuno ha dei sensori particolari con cui misura l’andamento delle cose. Personalmente ho cominciato a percepire il salto epocale quando ho messo a fuoco alcuni cambiamenti, dei veri e propri smottamenti, che si stavano verificando nello spazio pubblico.

Innanzitutto una mobilità elettorale sempre più rapida, perfino sorprendente. Eravamo abituati a una sostanziale stabilità, vischiosità dei comportamenti elettorali: da un certo punto in avanti siamo entrati in una stagione di spostamenti profondi e repentini.

Poi una radicalizzazione inconsueta degli elettori: una radicalizzazione che prescinde dall’ancoraggio a grandi narrazioni, che è alimentata da reazioni immediate, quasi istintive, spesso rabbiose.

Ancora, la tendenza sorprendente degli elettori a consegnarsi a uomini forti o presunti tali. Freud aveva osservato questo fenomeno nel 1921 (Psicologia delle masse e analisi dell’io); oggi ci si guarda attorno e tutto sembra andare in questa direzione. Putin: il leader forte per antonomasia della nostra epoca. Modi: soprannominato l’elefante, che interpreta alla perfezione una gestione muscolare della democrazia indiana. Di Trump sapete tutto: la retorica della grandezza dell’America. Il caso limite è Bolsonaro: un autentico cretino diventato presidente di un grandissimo paese per le sue credenziale di ex militare e per i messaggi di tracotanza razziale e di classe. L’elenco può continuare con Erdogan (una guerra scatenata per recuperare consensi!), con Boris Johnson, il leader che promette di spaccare tutto, con Orban che evoca la grande Ungheria prima del 1918, con Kaczynski, il leader che evoca la battaglia di Lepanto. Si potrebbe continuare evocando anche qualche italiano, o no?

Sono, guardati nel loro insieme, fenomeni sorprendenti: essi segnalano un mutamento radicale in corso. Soprattutto segnalano fragilità, disorientamento, spaesamento profondissimi. Perché il cittadino dei paesi democratici, paesi in cui si svolgono libere elezioni, è diventato così fragile, così esposto a suggestioni autoritarie, così propenso a seguire pulsioni rabbiose, che possono tramutarsi in manifestazioni di odio?

Tutto nasce dall’immigrazione? Sicuramente ha un grande peso, ma i fenomeni coinvolgono anche paesi da cui i migranti partono, non arrivano. Oppure, tutto nasce dalla crisi economica? Questione serissima, ma sarebbe allora inspiegabile il fatto che gli stessi fenomeni si manifestano anche in paesi che sono stati solo sfiorati dalla grande crisi del 2008. Probabilmente al fondo c’è qualcosa di più profondo.

4– Si possono intravedere – questa è la riflessione essenziale che vi propongo – due grandi processi squassanti che stanno attraversando un po’ tutto il mondo, due processi che procedono paralleli, anche se possono toccarsi e sovrapporsi.

Direi così: in un colpo solo, nel medesimo tempo, stiamo facendo i conti sia con la disumanizzazione che con il post – umano. Disumano e post umano: solo se colgo entrambi i fenomeni, riesco a spiegare tanta fragilità e tanto spaesamento.

I processi di disumanizzazione sono quelli più evidenti, che più attirano l’attenzione. Generalmente assumono la forma del ritorno prepotente della xenofobia: identità etniche scagliate contro gli altri, per delimitare chi è dentro il recinto e chi è fuori. Nei paesi di immigrazione, quelli più sviluppati, assume la forma dell’insofferenza per gli immigrati. In altri paesi, penso alla Russia, all’India, alla Polonia o all’Ungheria, alla Turchia, prende le forme di un sovranismo aggressivo, a base etnico – religiosa.

In più un individualismo sempre più radicale, un iper – individualismo che sconta una riduzione del legame e dei valori solidaristici. Qualcosa si è spezzato nel tessuto della società: gli esseri umani erano abituati a lavorare assieme e a vivere in comunità più o meno coese. Oggi vediamo dilagare la frantumazione e l’individualizzazione del lavoro e notiamo che anche un allentamento dei legami delle comunità territoriali. Disintermediazione, ovvero la dissoluzione dei corpi e delle comunità intermedie, e solitudine involontaria segnano in modo sempre più evidente la vita delle persone.

Un individuo più solo rispetto al passato, che tende a ricercare aggressive rassicurazioni in comunità etnico – identitarie. Ecco i processi di disumanizzazione tante volte messi a fuoco e denunciati.

Nel contempo, spostando lo sguardo, si registrano altri fenomeni, assai diversi ma non meno problematici: uomini e donne di tutte le latitudini sono sempre più inquieti per le innovazioni tecnologiche a getto continuo che costringono a riorganizzare modalità di lavorare, di comunicare, di vivere. Insomma, lo sviluppo impetuoso delle tecnologie sta alterando le modalità degli uomini di relazionarsi gli uni con gli altri.

I cambiamenti tecnologici investono ormai le modalità stesse di riproduzione della specie umana. Nei paesi più sviluppati siamo ormai al rovesciamento della piramide demografica. Sempre meno nati e un prolungamento sbalorditivo delle aspettative di vita, favorito da progressi spettacolari della medicina: protesi, cellule staminali, editing genetico, inserimento di chip e via dicendo. Le modalità stesse di riproduzione della vita sono rimesse in discussione: si sono diffuse tecniche di procreazione che prescindono da un rapporto sessuato e, ovviamente, tutto ciò porta con sé conseguenze radicali sul modo stesso di pensare la famiglia. Nel giro di una generazione ciò che si pensava immodificabile è stato stravolto. Ci siamo addentrati, con passi rapidissimi, nel post – umano: con evidenti implicazioni sulla tenuta delle referenze simboliche. Studiosi autorevoli parlano di una “nuova economia psichica”, di “caduta delle referenze simboliche” ecc.

Ciò che a me appare chiaro è che disumano e post umano, nel loro insieme, stanno determinando una trasformazione antropologica, ovvero un cambiamento profondissimo della condizione umana.

Per di più, sullo sfondo, uno scenario più generale nel quale sono immersi sia i processi di disumanizzazione sia i segnali del postmoderno, ovvero quel riscaldamento climatico che più di ogni altra cosa segnala il rischio di una rottura drammatica, irreparabile, dell’equilibrio uomo – natura.

Provate per un attimo a guardare nell’insieme questi processi e ditemi se non è corretto parlare di un vero e proprio passaggio epocale.

5 – Processi diversi, ben distinti: disumano, post – umano e rottura dell’equilibrio uomo – natura. Ma c’è qualcosa che li accomuna: la rapidità con cui si diffondono e la loro dimensione globale.

L’ondata xenofoba sembra non risparmiare nessun paese del mondo, proprio come la rivoluzione informatica sta penetrando in tutti le realtà del mondo, anche le più remote. Allo stesso modo i fenomeni più gravi di alterazione dell’equilibrio ambientale riguardano il globo nel suo insieme: lo scioglimento dei ghiacciai e l’acidificazione degli oceani sono fenomeni globali.

In realtà tutti questi processi sono sospinti in avanti da quelle due potentissime forze motrici del cambiamento che stanno letteralmente ridisegnando il mondo: la globalizzazione e lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica.

Mille volte abbiamo parlato della globalizzazione, di questa globalizzazione neoliberale, della sua estensione (ad essa non sfugge più nessuna parte del mondo), dei flussi di capitali e di merci che avvolgono il mondo, dei nuovi movimenti delle popolazioni.

Così pure abbiamo ragionato tante volte delle nuove frontiere della scienza e della tecnologia: la rapidità con cui si accumulano nuove conoscenze. Ciò che più mi ha colpito è che le conoscenze stanno moltiplicandosi non solo nel campo delle scienze naturali: sul Medioevo oggi sappiamo, ci dicono i nostri amici medievalisti, il 90% in più di ciò che conoscevamo cinquant’anni fa! Per non parlare delle barriere sempre nuove che vengono infrante, i nuovi campi di ricerca che si aprono: la biologia sintetica, le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la robotica.

Tutto ciò è notissimo. Meno riflettuto è il fatto che globalizzazione e sviluppo delle scienze agiscano l’una sull’altra: la globalizzazione non potrebbe accelerare in tale modo senza l’apporto delle nuove tecnologie mentre lo sviluppo stesso della scienza e della tecnologia non potrebbe avere questa dinamica travolgente senza l’immersione nel mondo globale.

L’un fenomeno trascina l’altro, in una travolgente accelerazione progressiva. Verso un futuro che diventa, al tempo stesso, sempre più ravvicinato e sempre meno decifrabile.

Ieri si è accesa proprio qui, per stimolo vostro, una interessantissima discussione su antropocene e/o “capitalismocene”: un termine introdotto recentemente, negli anni Ottanta, viene già rimesso in discussione per accentuare gli effetti accelerati e deflagranti dell’attività umana sugli equilibri naturali.

Se si ha ben chiaro questo scenario di vertiginosa espansione e accelerazione del cambiamento su scala globale, se si riflette su queste dinamiche che con tanta frequenza appaiono fuori controllo, si riesce bene a capire la tensione cui è sottoposta la condizione umana. Qui, a me sembra, stanno le radici dell’incertezza e dello spaesamento che sentiamo attorno a noi e che si formano dentro e come conseguenza di questa “grande trasformazione”.

6 – Questi processi – ecco la domanda cruciale- sono inesorabili e incontrollabili? Si tratta di una domanda assai impegnativa, assai difficile: dalla risposta che vi diamo dipende se ha un senso parlare di nuovo umanesimo e come si può definire il significato di questa espressione.

Vi sarebbero ragioni sensate per sostenere che questi processi hanno una tale potenza da essere ormai incontrollabili. Non vi sarebbe altro da fare che interiorizzarne la dinamica: tutt’al più si può ritagliare qualche isola di consapevolezza e di resistenza. Una parte rilevante del pensiero novecentesco, il pensiero nichilista che si era formato nel corso del secolo scorso, spinge indubitabilmente in questa direzione.

Per chi non vuole imboccare questa strada, per chi non accetta un esito nichilista, si apre una strada di ricerca molto impegnativa.

La prima risposta, la più immediata, potrebbe trovarsi nel mettere l’accento sulla battaglia delle idee. Per altro con mille fondate ragioni. C’è

un nesso evidente tra i processi di disumanizzazione e il pensiero dominante.

Gli assiomi del pensiero neoliberale, la massimizzazione dell’interesse egoistico degli individui, il mercato come unico regolatore della vita pubblica, la centralità del consumatore, sono tutte idee che hanno contribuito potentemente a smontare il tessuto solidale e a innescare processi di disumanizzazione. Il disprezzo neoliberale per la politica, la riduzione dei compiti e delle funzioni dei poteri pubblici che ne consegue, hanno avuto un ruolo enorme nello smontare ogni tentativo di governare la globalizzazione e nel lasciare crescere indisturbati i nuovi giganteschi conglomerati globali che controllano il sistema della comunicazione e che utilizzano spregiudicatamente le innovazioni tecnico – scientifiche. C’è stato un momento in cui queste questioni erano balzate all’ordine del giorno, al passaggio di secolo, quando vi fu l’onda del movimento new global. Si ragionava di un altro mondo possibile, di governo della globalizzazione. Tutto è stato lasciato cadere: con molta leggerezza e con altrettanta arroganza.

Vi sono, quindi, ragioni serissime per porre l’accento sull’importanza di una nuova battaglia ideale, per dirla più rigorosamente: “per una riforma morale e intellettuale”. Anche perché il nuovo umanesimo presuppone inesorabilmente la critica e la rimessa in discussione del pensiero unico neoliberale. L’accento deve spostarsi dal mercato alle persone: c’è quindi un problema evidente di battaglia ideale e culturale.

Salvo un dubbio: messa così la questione sembra collocarsi solo nel cielo delle idee, quasi, avrebbe detto il vecchio Antonio Labriola, che le idee siano dei “caciocavalli appesi (appisi)”. I nostri maestri, quelli che introdussero anche in Italia il concetto di “riforma morale e intellettuale”, Francesco De Sanctis e Antonio Gramsci, non dimenticavano mai che il confronto delle idee era parte di un conflitto politico e sociale di più ampia portata. La riforma intellettuale e morale per cui Francesco De Sanctis lavorò tutta la vita era parte della ricostruzione dello spirito nazionale. E in Gramsci la riforma morale e intellettuale era pensata come

tassello indispensabile per modificare i rapporti tra le classi sociali e per rovesciare la relazione fra chi è diretto e chi dirige.

Per mettere su basi serie il ragionamento sul nuovo umanesimo dobbiamo quindi allargare l’ambito del ragionamento: non si tratta solo di condurre una battaglia delle idee, si tratta di pensare le condizioni in cui possa diventare effettiva la centralità delle persone.

7 – Ecco allora il punto essenziale: il nuovo umanesimo, se non vuole essere puro esercizio retorico, oppure peggio se non vuole ridursi a una facile foglia di fico, deve essere pensato dentro l’idea – e dentro il conflitto – per un nuovo modello di sviluppo.

Nuovo umanesimo – nuovo modello di sviluppo: l’una idea tiene e sorregge l’altra. Detto diversamente: nuovo umanesimo e sviluppo sostenibile, sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Solo in un nuovo modello di sviluppo si possono realizzare le condizioni per la libertà e la dignità di ogni persona umana, per considerare ogni singola persona come un fine, per rendere effettiva una cittadinanza responsabile e globale.

Umanesimo e sostenibilità: a ben vedere è l’approccio che attraversa l'”Obiettivo 2030″ dell’ONU. Si tratta di un tema su cui cominciano a ragionare tante forze nel mondo: governare la globalizzazione e piegare lo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica alla ricostruzione di un rapporto positivo uomo – ambiente e alla emancipazione, ovvero al libero sviluppo delle capacità di ogni donna e di ogni uomo.

Insisto: tante forze nel mondo stanno ragionando su questo. È doveroso qui ricordare un evento che ha contribuito potentemente a fare emergere questa discussione: la pubblicazione della Enciclica “Laudato si'”. C’è un passaggio cruciale dell’enciclica, là dove ci ricorda che “tutto nel mondo è intimamente connesso”, ovvero – scrive il Pontefice- vi è una connessione inestricabile tra dimensione sociale, economica, demografica e ambientale. È esattamente l’invito a ragionare su un nuovo modello di

sviluppo: la centralità della persona umana e l’obiettivo di ricostruire il rapporto uomo – natura trascina con sé il ripensamento profondo dell’insieme dello sviluppo.

Ho citato il Pontefice. Permettetemi di fare un’altra citazione. Anche se spostata molto all’indietro nel tempo. Da quando sto cercando di addentrarmi seriamente in queste questioni, mi tornano sempre più in mente le riflessioni di un giovanissimo filosofo tedesco – che avevo frequentato molto in gioventù ma che poi erano rimaste a lungo inoperose in un cassetto della memoria – là dove nei suoi famosi manoscritti del 1844 annotava che “il prodotto del lavoro umano comincia ad ergersi minaccioso contro l’uomo stesso”. Da questa riflessione quel ragazzo di venticinque anni traeva la prospettiva di un umanesimo radicale.

Forse vi sembrerà strano in tempi di oblio se non di condanna sprezzante del pensiero del filosofo di Treviri, ma a me sembra doveroso riproporre la radicale spinta umanistica che animò il giovane Marx ed essa mi appare oggi di straordinaria potenza e attualità. La ricerca di Marx muoveva da una scoperta decisiva: che al fondo di tutta l’attività economica, alla base di ogni cosa, di ogni prodotto, di ogni merce che viene nelle nostre mani, vi è l’attività umana, il lavoro degli esseri umani. Questo lavoro nel rapporto sociale capitalistico viene sottratto agli esseri umani: diventa lavoro estraniato, oggettivato. Il frutto del lavoro umano e l’uomo che l’ha erogato vengono separati, fino al punto che il frutto del lavoro, le merci, cominciano a contrapporsi all’uomo stesso. Questo svelamento, questo disoccultamento, è il nucleo essenziale del pensiero di Marx: tutta la sua produzione culturale è finalizzata a realizzare le condizioni di una riappropriazione da parte degli esseri umani del frutto della loro attività. Marx precisa che questa riappropriazione non può avvenire da parte dei singoli individui, ma da parte dell’uomo sociale, ovvero degli uomini che collaborano tra di loro.

Il giovane filosofo, in alcuni passaggi di grande forza, annota che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la

natura e che l’umanismo si identifica con il naturalismo. L’umanesimo possibile è la ricostruzione di un rapporto con la natura. Potremmo dire che è l’apertura di una condizione nella quale l’uomo – insisto: l’uomo – realizza, vive, colloca nell’esteriorità del vivere la ricchezza della sua intelligenza, della sua riflessività, della sua sensibilità. Il problema è come ridare all’essere umano la possibilità di esprimere liberamente le sue relazioni con il mondo umano, sociale e naturale.

Si tratta di un progetto umanistico radicale: il progetto umanistico più coerente che sono in grado di rintracciare nel pensiero filosofico moderno. Aiuta anche noi a capire come è potuto accadere che il frutto del nostro lavoro e della nostra intelligenza incominci ad ergersi minaccioso contro di noi, come sia possibile che gli sviluppi della scienza e della tecnica ci possano apparire fuori controllo, come è stato possibile che il nostro modello di sviluppo abbia generato – con il riscaldamento climatico – minacce alla nostra sopravvivenza come specie umana.

Penso che per costruire il progetto di un nuovo umanesimo dovremo attingere a larghe mani a queste straordinarie intuizioni. Ovviamente si tratta di un lavoro che deve essere fatto con sapienza e duttilità critica. Oggi ci appaiono chiari alcuni limiti dello sguardo penetrante di Marx: la sua previsione dello sviluppo era troppo lineare, non riuscì a intuire la straordinaria complessità che avrebbe raggiunto lo sviluppo capitalistico. Ma la sua resta una lezione di metodo straordinaria. Egli non si mette “contro” lo sviluppo: ne intuisce le immense potenzialità. Sua è la prima previsione della globalizzazione (il capitale afferrerà tutto il globo), sua è la celebre previsione che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Marx vede la potenza delle forze messe in movimento, ma ne vede anche l’ambivalenza. Esse liberano da vecchie catene, ma stanno generando nuova oppressione. Anche noi oggi vediamo la potenza della globalizzazione e della scienza e della tecnica, ma anche la loro ambivalenza: il problema è permettere all’uomo di riappropriarsene, di rimetterle sotto controllo. Per pensare a un umanismo e a un naturalismo dei nostri tempi, un nuovo umanesimo cosmopolitico.

8 – Ultima questione: stiamo “filosofeggiando” o stiamo parlando di qualcosa che può avere le gambe per camminare? Gambe, ovvero forze sociali e politiche che spingano in questa direzione.

La mia risposta è seccamente positiva: tante cose si muovono attorno a noi, Si tratta di scoprirle e di favorire la connessione tra di loro. Perché il problema, ad oggi, è che tendono ognuna a muoversi per conto proprio.

Si è diffusa una sensibilità nuova sulle questioni ambientali. Siamo tutti, penso, colpiti dal movimento Fridays for future: da tempo non registravamo un fermento così diffuso tra i giovani. E, francamente, eviterei giudizi supponenti sulla giovane Greta: rendiamole il grande merito di avere smosso le acque. E di avere innescato – addirittura! – un movimento globale. Che non accenna a placarsi. Decisivo – anche per noi, penso – sarà il confronto che riusciremo a costruire con questi ragazzi.

Al tema ambientale vi è grande attenzione anche nel mondo delle imprese. Le ragioni sono sicuramente molteplici, ma eviterei di soppesarle con scetticismo: suggerirei di mettere l’accento sull’attenzione e sulla sensibilità nuova che si stanno diffondendo anche nel mondo imprenditoriale. Si tratta di una novità assai rilevante. Assieme al mondo delle imprese e del lavoro, con loro, dovremo discutere seriamente su un nodo decisivo: chi dovrà pagare il prezzo della riconversione ecologica dell’economia (la vicenda francese dei gilets jaunes è esplosa proprio su questo).

E, infine, confesso di essere stato molto colpito il 2 marzo scorso dalla manifestazione “People”, quella straordinaria manifestazione promossa da un cartello amplissimo di associazioni. Quel giorno una folla imponente ha percorso le strade di Milano nel nome del solidarismo, del mutualismo, della cooperazione, della responsabilità ambientale. Una manifestazione di persone che non accettano l’esibizione della disumanità e la condanna alla solitudine involontaria. Non era mai accaduto prima. Si è trattato del venire alla luce, o meglio del condensarsi assieme per la prima volta, di mille energie che sono già all’opera, che nei fatti si muovono in un

orizzonte diverso rispetto all’ossessiva centralità dell’homo oeconomicus imposta dal pensiero neoliberale e che ora, a quanto hanno lasciato intravedere, vorrebbero tentare di mettersi assieme per fare sentire la propria voce, per imprimere un segno diverso allo spirito del nostro tempo.

Insomma, ragionare di nuovo umanesimo non è esercizio per acchiappanuvole. Può incrociare e mettere in movimento forze reali. Può essere l’humus per alimentare nuovi progetti sociali e politici.

Ovviamente so bene che la ragione consiglierebbe di essere pessimisti, ma qualche volta – ricordiamocelo – c’è anche il diritto e il dovere di mettere l’accento sull’ottimismo della volontà.

 

 

PERCHÉ RITORNARE A LEGGERE MARX

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Ho accettato l’invito di Carlo Monti a discutere di Marx non senza qualche preoccupazione. Marx è un autore che conosco bene, eppure questa richiesta mi ha reso un po’ inquieto. Forse perché è da tanto, tanto tempo che ci sono solo rarissime occasioni per discutere pubblicamente di Marx, oppure ancora perché, nel momento stesso in cui Carlo mi ha avanzato questa richiesta, ho realizzato che avrei dovuto fare lo sforzo di parlare di Marx in modo diverso rispetto al passato. E parlare di un grande autore in modo diverso è, pur sempre, una sfida e un impegno non da poco.

Marx, il marxismo, hanno dominato la discussione pubblica negli anni sessanta, settanta. Poi, a un certo punto, c’è stata una brusca cesura: su Marx e sul marxismo è calata una coltre di silenzio. Interrotta solo, ogni tanto, da qualche contumelia. Vi fu un episodio editoriale che riassume sinteticamente questo passaggio. La Casa editrice Einaudi iniziò, verso la fine degli anni Settanta, la pubblicazione di un’impegnativa storia del marxismo. Il primo volume, uscito alla fine del decennio, ebbe un grande successo. Gli altri, che uscirono subito dopo, al passaggio del decennio successivo, furono un drammatico flop editoriale: Marx, da un momento all’altro, non interessava più nessuno.

In realtà l’oblio di Marx e la rimozione, per non dire la condanna, del marxismo hanno emblematizzato il brusco cambio di paradigma culturale che si verificò agli inizi degli anni Ottanta: una pietra tombale scese sulle ideologie che avevano animato il movimento operaio e i movimenti delle classi oppresse nel mondo: si stava entrando, a passo di corsa, nel nuovo mondo neoliberale. Un attimo ancora ed eravamo entrati nell’epoca della globalizzazione neoliberale, che ebbe la sua sanzione e suo trionfo con il passaggio cruciale dell’89, quel vero turning point della storia globale: il crollo del muro. Da quel momento Marx era il passato: anzi, nella nuova ideologia dominante, Marx il passato da rimuovere, anzi da condannare aspramente come ispiratore di un mondo crollato, scomparso: il socialismo reale.

Ma perché si verificò questa abiura? Cosa erano stati Marx e il marxismo?

Il pensiero di Marx, la sua filosofia, ebbero fin dall’inizio, fin dalla metà dell’Ottocento, un destino assai particolare quale non ebbe nessun altra filosofia: il pensiero di Marx, il marxismo furono il punto di riferimento, l’ideologia di riferimento (ideologia è qui un termine voluto: la visione del mondo) dell’emersione sociale e politica delle classi oppresse, del movimento della classe operaia, dei partiti e dei sindacati che costituirono l’ossatura del movimento operaio, del protagonista decisivo della seconda metà dell’Ottocento e di larga parte del Novecento. Il marxismo rappresentò la visione del mondo che dava un senso, una prospettiva, al movimento operaio: presentava una visione della storia che ne esaltava la funzione (la classe operaia soggetto storico del cambiamento), offriva una visione dell’uomo che contrastava sia il nichilismo che la passività subalterna. Insomma, il pensiero di Marx, ebbe grandiosi effetti politici. Si immerse nelle lotte e nella realtà del mondo e inesorabilmente ne uscì trasformato. Vi fu il marxismo (anzi: i marxismi) dell’Occidente, vi fu il marxismo prevalente in Russia e quello che prevalse in Cina, vi fu il marxismo dei paesi in lotta contro il colonialismo: varietà assai diverse fra di loro.

Nel blocco sovietico divenne addirittura la dottrina ufficiale del socialismo reale: la vita pubblica era dominata dal marxismo – leninismo. Quel pensiero, trasformato in ideologia chiusa, dogmatica, intransigente, era diventato qualcosa di simile a una religione ufficiale, di regime, ed era l’unica espressione culturale ammessa in quei paesi. In quella formulazione, chiusa, ripetitiva e dogmatica, della tensione critica di Marx, della sua ispirazione originaria, restava ben poco. Eppure il nome era quello: marxismo – leninismo. E, allora, non è difficile capire perché la paralisi prima e poi il crollo del socialismo reale erano destinati a travolgere anche il marxismo. Marx e il marxismo furono identificati con quel fallimento: oblio e condanna scesero inesorabilmente sul marxismo e sul grande pensatore di Treviri.

Per di più, non scordiamocelo, quegli anni, gli anni Ottanta, coincisero con i primi segni di indebolimento del movimento operaio anche nei paesi occidentali. È una storia che noi ben conosciamo. IL passaggio dal fordismo a nuove modalità produttive, l’irruzione delle nuove tecnologie, il mutamento radicale del lavoro. Sono fenomeni che provocarono la crisi, e nel giro di un paio di decenni, la rapida dissoluzione del movimento operaio: dei suoi partiti, dei suoi sindacati, dell’idea stessa che il movimento operaio potesse essere la forza decisiva per la trasformazione sociale.

Per Marx cominciò la lunga stagione – quasi quarant’anni – della damnatio memoriae e dell’oblio. Pochi gruppi di studiosi – Vittorio Morfino rappresenta assai bene uno di questi – cercarono tenacemente di farlo vivere, di rinnovarlo. Un’azione controcorrente, mentre tutt’attorno imperversava la nuova ideologia dominante, quel neoliberalismo che nelle sue diverse forme, da quelle più o meno progressive fino a quelle più esplicitamente e più duramente conservatrici e reazionarie, si è trasformato nel main stream, in quello che è stato efficacemente definito il pensiero unico dominante.

Fino a che, in tempi recenti, qualcosa ha iniziato a muoversi. Lentamente Marx ha cominciato a riapparire nelle librerie, sono apparsi nuovi studi, nuovi libri: di Marx si è tornato a ragionare. Il 2018 era il bicentenario della nascita: non è passato in silenzio. Marx e il suo pensiero sono tornati ad essere una presenza con cui fare i conti. Di Marx si torna a ragionare, come facciamo noi stasera.

 

2 – Marx ritorna trascinato dall’onda lunga della crisi. Non solo crisi economica: quella crisi che un po’ tutti avvertiamo, crisi dell’Occidente per l’emersione di nuovi popoli, per l’impatto con le altre culture, per la crisi demografica, crisi del rapporto uomo – natura come dimostrato dal riscaldamento climatico e dai sempre più frequenti fenomeni metereologici estremi, crisi di un modello di sviluppo costruito in Occidente ed esportato nel mondo intero. È nel mezzo di questa crisi che si sente il bisogno di tornare a ragionare a ragionare sui classici. Ecco allora il pensiero di Marx: quel pensiero che più di ogni altro ha scavato sulle contraddizioni di questo modello di sviluppo.

Si tratta di una lettura e di un recupero non semplice. Che deve passare attraverso la ripulitura di tante cose caduche. Pensiamo alla sua filosofia della storia, a quell’idea idea, che ebbe tanto peso nel passato, che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe provocato la crisi irreversibile del capitalismo, che era prevedibile il passaggio dal capitalismo al socialismo e che al proletariato era assegnato il ruolo di affossatore del capitalismo: tutte cose che oggi appaiono lontanissime, cose di un’altra epoca storica … Come tutta la discussione sulla scientificità del marxismo: tutto passato …

Ma c’è qualcosa del suo pensiero che torna potentemente a mordere. Qualche volta ne trovate traccia anche nei commenti giornalistici: molti hanno ricordato la celebre previsione del Manifesto: “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, oppure ancora: la previsione che il capitale avrebbe afferrato tutto il globo … Previsioni potenti: nessuno come Marx seppe vedere il movimento del capitale e seppe prefigurare quella che oggi chiamiamo globalizzazione …

Ma c’è dell’altro. Vorrei cercare di metterlo a fuoco focalizzando tre nodi, quelli che hanno spinto me personalmente alla rilettura e al ripensamento di Marx.

Prima questione: da tempo ho avvertito l’esigenza di mettere al centro della mia riflessione il nodo di un nuovo umanesimo. Le ragioni di questa ricerca penso siano abbastanza intuitivi: siamo immersi in processi gravi di disumanizzazione e avvertiamo, in tanti, l’esigenza di mettere su basi serie la riflessione su un nuovo umanesimo. Nella storia, questa è la prima cosa che ho messo a fuoco, vi sono state tante forme diverse di umanesimo, ovvero tanti modi diversi di porre il problema della libera espressione della creatività e della libertà umana. Il problema è pensare un umanesimo per questa nostra epoca segnata dalla globalizzazione neoliberale e dallo sviluppo impetuoso della scienza e della tecnica.

È nel vivo di questa ricerca che ho riscoperto la radicale spinta umanistica che animò il giovane Marx e che mi appare oggi di straordinaria potenza e attualità. La sua ricerca muove da una scoperta decisiva: che al fondo di tutta l’attività economica, alla base di ogni cosa, di ogni prodotto, di ogni merce che viene nelle nostre mani, vi è l’attività umana, il lavoro degli esseri umani. Questo lavoro nel rapporto sociale capitalistico viene sottratto agli esseri umani: diventa lavoro estraniato, oggettivato. Il frutto del lavoro umano e l’uomo che l’ha erogato vengono separati, fino al punto che il frutto del lavoro, le merci, cominciano a contrapporsi all’uomo stesso. Questo svelamento, questo disoccultamento, è il nucleo essenziale del pensiero di Marx: tutta la sua produzione culturale è finalizzata a realizzare le condizioni di una riappropriazione da parte degli esseri umani del frutto della loro attività. Marx precisa che questa riappropriazione non può avvenire da parte di singoli individui, ma da parte dell’uomo sociale, ovvero degli uomini che collaborano tra di loro.

Il giovane filosofo, in alcuni passaggi di grande forza, annota che il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura e che l’umanismo si identifica con il naturalismo. L’umanesimo possibile è la ricostruzione del rapporto con la natura. Potremmo dire che è l’apertura di una radura dove l’uomo – insisto: l’uomo – realizza, vive, colloca nell’esteriorità del vivere la ricchezza della sua intelligenza, della sua riflessività, della sua sensibilità. Il problema è come ridare all’essere umano la possibilità di esprimere liberamente le sue relazioni con il mondo umano, sociale, naturale.

Si tratta di un progetto umanistico radicale: esso attraversa tutta l’opera di Marx. Aiuta anche a noi a capire come è potuto accadere che il frutto del nostro lavoro e della nostra intelligenza incominci a ergersi minaccioso contro di noi, come è stato possibile che il nostro modello di sviluppo abbia generato – con il riscaldamento climatico – minacce alla nostra stessa sopravvivenza come specie umana, come sia possibile che gli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica ci possano apparire fuori controllo.

Penso che per costruire il progetto di un nuovo umanesimo avremo bisogno di attingere a larghe mani a queste straordinarie intuizioni. Ovviamente si tratta di un lavoro che deve essere fatto con sapienza e duttilità critica. Oggi ci appaiono chiari alcuni limiti del suo sguardo penetrante: la sua previsione dello sviluppo era troppo lineare, non riuscì a intuire la straordinaria complessità che avrebbe raggiunto lo sviluppo capitalistico. Dovremo fare interagire con il suo pensiero altre sorgenti culturali: ma di certo nel pensiero di Marx c’è una spinta potente al riconoscimento della nostra comune umanità.

Seconda questione: mi sto interrogando, come tanti, sulla crisi della nostra democrazia. Di questi tempi accadono cose davvero sorprendenti: un grande paese come il Brasile elegge come Presidente un autentico imbecille come Bolsonaro, un nostalgico dei gorilla militari e nel contempo asservito al peggiore capitalismo di rapina. Una specie di nuovo Nerone che sta divertendosi a bruciare le sue foreste. Come è possibile che i cittadini lo abbiamo scelto? Perché in tanti paesi del mondo, dagli USA alla Russia di Putin, dall’India di Modi al Pakistan di Khan, a tanti paesi europei i cittadini rovesciano i loro consensi su “uomini forti”, che si presentano come uomini soli al comando, sprezzanti delle regole democratiche? Perché la democrazia tende a trasformarsi in democratura, in democrazia è illiberale? Insomma, perché dilagano i populismi?

Tutta la mia ricerca da tempo ruota attorno a questa domanda. Le risposte non sono semplici. Ed è in questa ricerca che, nuovamente, ho riscoperto riflessioni decisive di Marx, anzi: del giovane, giovanissimo Marx. Penso a un libretto straordinario scritto da Marx all’età di venticinque anni: La questione ebraica. In quelle pagine Marx scruta e denuncia i limiti strutturali della democrazia, ovvero l’uguaglianza formale dei diritti cui non corrisponde l’uguaglianza nella vita reale. Uguali nel cielo dei diritti; diversi nella vita economica e sociale. Marx coglie qui il nodo di un limite strutturale della democrazia: l’emancipazione, continua, non può essere solo politica, deve essere anche emancipazione umana.

Mi chiedo se qui non stia la chiave più illuminante per ragionare sulla rivolta populista contro le élites. Per altro, aggiungo, in alcuni lavori di Marx, questo autore spesso accusato di gretto e banale determinismo economico, si trovano alcune degli spunti più efficaci per descrivere l’ascesa dei proto – populismi. Si legga “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”: là dove parla del futuro imperatore che seduce le masse – le pescivendole di Parigi – e le scaglia contro le istituzioni elettive. Una descrizione viva, mordente, geniale: suggerisco vivamente ai nostri supponenti politologi di rileggere queste pagine!

Oggi, questa la mia convinzione, per ragionare sulla crisi della democrazia dobbiamo recuperare nella nostra cassetta degli attrezzi anche gli straordinari spunti critici di Marx.

Terza questione: i successi del populismo fanno riemergere la questione della libertà. I cittadini si consegnano ai leader, avrebbe detto Freud. L’interesse si restringe solo alle piccole libertà, ma dinanzi alle grandi libertà, ovvero alle decisioni sulle scelte di fondo attinenti il modello di sviluppo economico e sociale, prevale la passivizzazione, la delega all’uomo forte. I cittadini, ognuno isolato nel suo mondo, deprivati di corpi intermedi, condannati alla solitudine involontaria, si rivelano esposti come mai alle pulsioni autoritarie.

Andiamo più a fondo: c’è qui un punto di contatto tra i populismi e il pensiero dominante neoliberale. La libertà essenziale dei neoliberali è la libertà del consumatore: ognuno libero di scegliere la merce che più gli aggrada. Spetta poi, aggiungono i neoliberali, al mercato comporre gli interessi dei singoli. La politica, ovvero lo stato, deve ridursi al minimo: interferire il meno possibile con la libertà degli operatori economici.

In questo mondo dominato da populisti e neoliberali riemerge la questione della libertà. Della libertà degli esseri umani di prendere in mano il loro destino, di scegliere dove e come andare. La questione della grande libertà rispetto alle piccole libertà. Ancora una volta Marx, il giovane Marx, ci aiuta a porre la questione. Nel momento in cui fa i conti con i suoi compagni di studi, gli allievi di Hegel, scrive le famose undici tesi su Feuerbach. Famosissima la XI: “i filosofi fino ad ora si sono limitati a interpretare il mondo; ora devono cambiarlo”. Si tratta della sua prima straordinaria affermazione dell’indissolubilità di teoria e di praxis. Da questa affermazione non tornerà più indietro. Tutto il suo pensiero si forma nella praxis ed è un invito continuo, incessante e mettersi alla prova nella praxis. Penso che questa sua dottrina della praxis sia una dottrina essenziale di libertà. Gli uomini, ci dice Marx, sono liberi solo quando, gli uni assieme agli altri, prendono in mano il loro destino: quando affinano pensiero critico, quando costruiscono idee e le mettono alla prova nell’effettiva vita politica, civile e sociale.

Con Marx, quindi, sto tornando a fare i conti. Trovo il suo pensiero vivo e penetrante anche sulla realtà di oggi. Il suo metodo, lo svelamento critico della realtà, quel suo sguardo in profondità sempre animato da una profonda radicale passione per la libertà umana, penso che abbia molto da dire anche a noi.

Sguardo critico, svelamento della realtà umana nascosta nelle cose, passione intransigente per la libertà umana, inseparabilità di umanismo e di naturalismo: ecco il Marx di cui oggi torniamo ad avere bisogno ed è bene che, assieme, ricerchiamo le modalità per rimetterlo in circolazione.

PER UN NUOVO UMANESIMO Ambiente, diritti, etica “Con uno sguardo umano”

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5° laboratorio di “Con uno sguardo umano” Relazione introduttiva

1 – Si parla spesso, in questi tempi, di nuovo umanesimo. Ne parlano anche voci molto autorevoli.

Il tema è stato evocato da papa Francesco. “Serve un patto educativo globale che educhi a un nuovo umanesimo”, ha detto il pontefice. Espressione forte, ma, nel caso del pontefice, del tutto coerente con il suo insegnamento: il tema del nuovo umanesimo era già implicito in tanti atti del papa e attraversava tutta la sua Enciclica, Laudato si’.

Più sorprendente – spero comprendiate la mia franchezza – è stato sentire evocare il nuovo umanesimo dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Anche perché ne ha parlato la prima volta nella sua veste di Presidente uscente, dimissionario: si trattava del discorso in Senato con cui replicava a Matteo Salvini che gli aveva appena tolto la fiducia. In quel momento Conte era il Presidente di una maggioranza giallo – verde che per quattordici mesi si era distinta per tutto meno che per atti e parole evocative di un “nuovo umanesimo”. In quel contesto, nell’ambito di quel discorso, il richiamo a un nuovo umanesimo era, quanto meno, del tutto inaspettato.

Nei giorni successivi il Presidente del Consiglio ha precisato ulteriormente che “il nuovo umanesimo” deve essere l'”orizzonte culturale del paese”. Ne prendiamo atto. E sottolineiamo l’aspetto positivo: un tema a noi caro, il più impegnativo fra quanti da noi sollevati, sta entrando nel vivo del dibattito pubblico.

Sono passati quasi dieci anni da quando, in questa sede, abbiamo cominciato a interrogarci sull’urgenza e l’importanza di un nuovo umanesimo: finalmente se ne discute in tante sedi. Se ne parla in incontri pubblici, il tema sta affiorando anche sui media. Buona cosa quindi.

L’incontro di oggi, il quinto incontro pubblico organizzato nell’ambito del percorso comune della Casa della Cultura e della Casa della Carità per recuperare uno “sguardo umano”, si inserisce in questa situazione di attenzione, di curiosità, di interesse diffuso per la proposta di un “nuovo umanesimo”.

Vediamo allora di chiarire bene, grazie anche all’autorevolezza dei nostri interlocutori, il senso di questa proposta. Da parte mia cerco di introdurre la discussione accennando alcuni grandi nodi che spingono a mettere a fuoco questa prospettiva.

 

2 – Cominciamo a ricordare le ragioni per cui, all’incirca un anno fa, abbiamo deciso con la Casa della Carità di avviare questo percorso: al Planetario – ricordate -, poi i seminari sulle disuguaglianze, sulla paura, sulle nuove pratiche solidali. Oggi siamo al quinto appuntamento.

La nostra iniziativa nasceva dal bisogno di lanciare un allarme rispetto alla pericolosa deriva del clima pubblico nel paese. Uomini di governo che si scagliavano contro i più deboli, che agitavano impunemente le corde della xenofobia, che gonfiavano le vele del razzismo. La rabbia sociale, alimentata dallo stesso potere pubblico, tendeva a traboccare in aggressività diffuse e in manifestazioni d’odio. I social (non a caso il 22 prossimo, in Casa della Carità, discuteremo proprio di social e di relazioni virtuali), in questo contesto, erano diventati con inquietante frequenza strumenti di espressione di istinti intolleranti, di trasmissione di vere e proprie incitazioni all’odio e all’aggressione.

Era urgente, questo il senso della nostra iniziativa, fare sentire voci diverse, richiamare al senso del limite, impedire che i messaggi di intolleranza e di odio diventassero la normalità incontrastata. Era urgente, insomma, riproporre il problema – come abbiamo detto – dello sguardo umano, della dignità e del rispetto di tutte le persone. Soprattutto delle più deboli.

 

3 – Quando, come in quest’incontro, poniamo il problema di un “nuovo umanesimo” andiamo oltre questa emergenza, allarghiamo l’orizzonte del ragionamento. Stiamo invitando a riflettere su un problema più di fondo che attraversa tutto l’Occidente e non solo, ci proponiamo di mettere a fuoco problemi strutturali che stanno modificando la condizione umana, che stanno alterando le relazioni fra gli esseri umani e degli esseri umani con la natura e l’ambiente circostante.

Si tratta di una riflessione che vorremmo impostare con serietà ed impegno anche perché avvertiamo il rischio che la proposta di un nuovo umanesimo, così pervasiva ma anche un po’ vaga, possa, se non impostata e declinata con attenzione, di dissolversi in una retorica un po’ banale e poco concludente, del tipo: vogliamoci tutti un po’ più di bene.

Cerchiamo perciò di collocare il problema nella sua giusta dimensione. Secondo noi – proviamo ad impostare bene il problema – siamo immersi in una trasformazione epocale, una vera e propria “grande trasformazione” (l’espressione venne usata da un grande studioso, Karl Polanyi, per spiegare il passaggio dal mondo agricolo tradizionale a quello industriale), una nuova grande trasformazione quindi, che sta cambiando profondamente il modo di lavorare, di comunicare e di vivere degli esseri umani. Essa nasce dall’azione congiunta di due potentissimi fattori di cambiamento, la globalizzazione e gli sviluppi impetuosi della scienza e della tecnica: la loro azione congiunta, sovrapposta, sta letteralmente riplasmando la vita umana.

Con alcuni effetti che dobbiamo cogliere lucidamente: da un lato la rottura di legami sociali essenziali, con l’allentamento delle strutture tradizionali di solidarietà sociale, fino all’emersione di vere e proprie forme di solitudine involontaria di massa; dall’altro lato l’alterazione del rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale fino al punto di generare fenomeni radicalmente nuovi e potenzialmente devastanti come il cambiamento climatico.

È dentro questo scenario di mutazione radicale che dilagano quell’incertezza e quello spaesamento oggi così diffusi nell’opinione pubblica. Le persone, gli esseri umani, avvertono un mutamento profondo delle strutture sociali e delle condizioni ambientali: tutto cambia, rapidissimamente, ma in tanti non riescono ad afferrare quale sarà la direzione, lo sbocco del cambiamento. L’innovazione è radicale quanto mai nel passato, ma ad essa nessuno riesce ad affiancare l’idea di progresso, di un cammino chiaro, progressivo, in avanti. Innovazione radicale senza progresso: c’è n’è abbastanza per esporre le persone a inquietudini diffuse e a mille interrogativi anche laceranti.

In un simile passaggio epocale emergono inesorabilmente gli interrogativi sulla collocazione degli esseri umani nella società e nella natura. È successo altre volte nel passato: ai grandi passaggi epocali è corrisposto un ripensamento della collocazione dell’uomo nel mondo.

La straordinaria stagione dell’umanesimo italiano ed europeo – per riprendere un esempio classico – è maturata nel passaggio dal mondo medievale al mondo moderno. In quel frangente storico, un passaggio drammatico come ci stanno ricordando tanti studi e pubblicazioni recenti (ricordo per la diffusione che hanno avuto gli studi di Michele Ciliberto e Massimo Cacciari), è maturata una nuova visione dell’uomo, del suo modo di concepire la sua collocazione sulla terra e nell’universo, di pensare e praticare il lavoro, le relazioni umane, di immergersi nella storia.

Anche noi oggi siamo dentro un passaggio epocale, di portata non dissimile a quello che, alcuni secoli fa, segnò la transizione all’età moderna. Stanno emergendo interrogativi di fondo che ci incalzano, a cui non possiamo illuderci di sfuggire. Ecco perché emerge la questione di un nuovo umanesimo.

 

4 – Non si tratta, quindi, solo di contrastare eccessi e intemperanze, neppure solo di frenare i deliri dei populismi sovranisti. Il problema è più profondo e ha carattere generale: bisogna affrontare e dare risposte positive a una trasformazione generale e globale i cui sviluppi ed esiti appaiono assai incerti.

Quando ci si addentra seriamente in queste riflessioni, tornano in mente le riflessioni di un giovanissimo filosofo tedesco, là dove nei suoi famosi manoscritti del 1844, annotava che “il prodotto del lavoro umano comincia ad ergersi minaccioso contro l’uomo stesso”. Da cui traeva la prospettiva di un umanesimo radicale nel quale umanesimo e naturalismo non potevano neppure essere pensabili separatamente. Scriveva il giovane Marx poco più che ventenne che “il rapporto con l’uomo è immediatamente il rapporto dell’uomo con la natura” e che “la società è l’unità essenziale dell’uomo con la natura”.

Il nuovo umanesimo su cui vogliamo ragionare deve rispondere alla crisi dei legami sociali ed anche alla minaccia ambientale incombente. Fenomeni come il riscaldamento globale, lo scioglimento dei ghiacciai, la ricorrenza di fenomeni metereologici estremi segnalano quanto è minacciato l’equilibrio uomo – natura: una nube oscura si addensa sulla stessa riproduzione della specie umana. Umanesimo e naturalismo, per l’appunto, non sono più pensabili separatamente.

Il tema, in tempi recenti, è stato posto con particolare vigore da papa Francesco quando nella sua Enciclica ci ha ricordato che “tutto nel mondo è intimamente connesso”, ovvero che vi è una connessione inestricabile tra dimensione sociale, economica, demografica e ambientale.

In discussione – ecco il punto essenziale – sotto la spinta della gigantesca trasformazione in corso, è l’idea stessa di organizzazione del lavoro, della società, del rapporto con la natura. Ovvero in discussione è il modello stesso di sviluppo. La riflessione sul nuovo umanesimo si intreccia profondamente con quella per un nuovo modello di sviluppo. Il modello di sviluppo dei paesi industrializzati, abbiamo scritto nell’invito, non è più sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale. Per la libertà e la dignità degli esseri umani, per la salvaguardia del nostro ambiente, per la riproduzione stessa della specie umana urge pensare e imboccare un nuovo modello di sviluppo.

 

5 – C’è un lavoro immenso di ricerca, di progettazione, di costruzione che ci attende. Ci attendono nuovi conflitti sociali e nuove battaglie culturali. In questo orizzonte l’idea di un nuovo umanesimo può rappresentare la cornice ideale, il motivo ispiratore unificante.

Ma sorge a questo punto una domanda cui non possiamo sfuggire: queste idee sono destinate a restare pure riflessioni teoriche o riusciamo anche ad intravedere con quali gambe possano camminare? Domanda lecita. Anzi, decisiva.

Vi sarebbero tante ragioni per manifestare dubbi e scetticismo: lo scenario attorno a noi spesso è sconsolante. Eppure vi sono almeno due osservazioni che ci permettono di mantenere un atteggiamento di ragionata speranza.

La prima ci è proposta dalla cronaca politica. Che è tanto spesso avara di messaggi positivi. Ma vi è un punto che non dobbiamo sottovalutare: ogni qual volta sembra che le cose prendano la piega peggiore e stiano precipitando, c’è sempre qualcosa che frena e ostacola la deriva irreparabile. È successo anche stavolta: dopo uno strappo confuso, grazie anche a comportamenti ambigui, ma, alla stretta, l’ipotesi peggiore, il trionfo dei populismi sovranisti e xenofobi, non si è realizzata. Un pezzo grande d’Italia (forse sarebbe meglio dire: un pezzo grande d’Europa) non vuole imboccare questa strada, non vuole correre questo rischio: non è molto, ma non è neppure poco. Non sottovaluterei questa linea di resistenza: cercherei, con realismo, di farne tesoro.

Ma c’è dell’altro. Nella passata primavera, proprio mentre il clima politico e sociale tendeva al peggio, vi sono state alcune reazioni di grande interesse. Proprio qui a Milano.

Ricordo il 2 marzo: quella straordinaria manifestazione “People”, promossa da un amplissimo cartello di associazioni. Quel giorno una folla imponente ha invaso le strade di Milano nel nome del solidarismo, del mutualismo, della cooperazione, della responsabilità ambientale. Non era mai accaduto. Si è trattato del venire alla luce, o meglio del condensarsi assieme per la prima volta, di mille energie che sono già all’opera, che nei fatti si muovono in un orizzonte diverso rispetto all’ossessiva centralità dell’homo oeconomicus imposta dal pensiero neoliberale, e che ora, a quanto hanno lasciato intravedere, vorrebbero tentare di mettersi assieme per fare sentire la propria voce, per imprimere un segno diverso allo spirito del nostro tempo.

Pochi giorni dopo, verso la metà di marzo, una marea di giovani e di giovanissimi ha risposto all’appello di Greta Thunberg, di Fridays for future. Poteva accadere, poteva non accadere: qualcuno ha detto che era una partecipazione leggera, trascinata mediaticamente, basata su una motivazione emotiva e superficiale. Resta il fatto che la piazza milanese si è riempita di ragazzi come mai in precedenza. E quella mobilitazione non si è spenta: basti pensare al week end appena passato, alle scadenze programmate per i prossimi giorni. C’è tutto un lavoro, una discussione, una mobilitazione capillare che sta continuando. Per di più si tratta di una mobilitazione globale, che investe tanti paesi del mondo. Quei ragazzi – del mondo! – ci parlano di umanesimo e naturalismo globale, di un nuovo umanesimo cosmopolitico. Tante volte abbiamo lamentato la passività dei ragazzi: ora che c’è davvero qualcosa che si muove prendiamone atto e assumiamoci le nostre responsabilità.

Ho fatto riferimento a due fatti diversi, ma entrambi segnalano che nella società qualcosa si sta muovendo. Sono queste, mi sembra, le prime energie sulle quali contare per fare vivere il progetto di “un nuovo umanesimo”.