La Casa della Cultura imprenditore culturale per necessità e per scelta

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1 – In tanti, ancora oggi, pensano che la Casa della Cultura di Milano sia un ente finanziato dal Comune o da qualche altra istituzione pubblica. Chi scrive se lo sente spesso ripetere, come si trattasse di cosa scontata: grande è la sorpresa quando viene risposto che il centro culturale milanese è un’associazione che vive di autofinanziamento. Anche gli interlocutori provenienti da altri paesi danno per scontato un qualche ombrello protettivo pubblico sulla Casa della Cultura: indimenticabile l’imbarazzo di un noto studioso dell’Europa del Nord che, per rispondere a un nostro invito, aveva acquistato un costosissimo biglietto d’aereo per Milano – di quelli che si prendono in aeroporto all’ultimo momento! – con la tranquilla e ostentata sicurezza di chi pensava che il rimborso sarebbe stato pagato da un ente pubblico.

Questa diffusa convinzione è alimentata da molti e diversi “pre – giudizi”. Nei paesi del Nord Europa, ad esempio, vi è una robustissima pratica di sostegno pubblico all’attività culturale. A Berlino, a pochi passi dal Parlamento, per portare un esempio che ha qualche attinenza con il nostro discorso, ci si imbatte nell’imponente “Casa delle culture”, una realtà grandiosa che può vivere solo con un generoso sostegno pubblico: le sue stesse dimensioni evidenziano in modo lampante da dove origina il fraintendimento di tanti nostri gentili ospiti europei. Anche in Italia, ovviamente, vi è stata e vi è una pratica diffusa di sostegno e di sovvenzionamento dell’attività culturale. A ben riflettere anche la celebre affermazione sfuggita dalla bocca di un ministro dell’economia, “Con la cultura non si mangia”, svela quanto sia radicata la convinzione che senza generose sovvenzioni pubbliche sia impossibile fare una buona attività culturale. Il ritorno economico delle iniziative culturali, si pensa, è inadeguato per sorreggerle. Se questo vale per l’intrattenimento culturale di qualità, a maggior ragione – se ne deduce – deve valere per un centro culturale che ha come sua finalità la promozione del dibattito pubblico!

Ad alimentare ulteriormente questa confusione sta anche il fatto che la Casa della Cultura è percepita come un’istituzione. La durata nel tempo e la qualità della sua programmazione hanno radicato questo centro culturale nella realtà milanese: da oltre settant’anni l’associazione operante in via Borgogna è un’articolazione viva e pulsante della città. Essa è diventata un patrimonio di Milano, qualcosa che contribuisce a definirne l’immagine di città aperta e culturalmente ricca e stimolante.

2 – Eppure, nonostante tutte queste convinzioni diffuse, la Casa della Cultura di Milano è un’associazione che si autofinanzia. Ad essa si può guardare oggi anche come a un caso di imprenditoria culturale collettiva. Non è sempre stato così: lo è diventata dopo un lungo percorso, un po’ per necessità ma un po’ anche per scelta.

Il primo progetto di questo centro culturale risale alla stagione della Resistenza quando, in alcuni incontri nella clandestinità, Antonio Banfi, Elio Vittorini ed Eugenio Curiel cominciarono a ragionare di un’associazione che si proponesse dopo la guerra come punto di incontro dell’alta cultura progressista milanese ed italiana.

Gli inizi, nell’immediato dopoguerra, nel marzo del ’46, furono sfolgoranti: tutta la Milano colta accorreva ai dibattiti che si succedevano a ritmo incalzante nelle tre sale collocate subito dietro la Scala. Gli incontri si svolgevano in via dei Filodrammatici, in una sede prestigiosa, nell’ex club dei Nobili requisito dai partigiani durante i giorni della Resistenza. Quella stagione durò poco: cambiato il clima politico generale, quando al “vento del Nord” subentrò la grande gelata della guerra fredda, l’azienda proprietaria dello stabile, la Breda, rivendicò la sua proprietà e lo stesso ministro degli Interni, Mario Scelba, intervenne per sciogliere rapidamente la questione.

Anche il clima culturale era profondamente cambiato: passioni e entusiasmi in un breve volgere di tempo lasciarono il posto a una stagione di aspre contrapposizioni ideali e culturali. La Casa della Cultura visse una crisi che ne mise in dubbio la stessa esistenza. Riprese la sua attività nel 1951, in uno scantinato presso piazza San Babila. Ebbe anche la forza di ripensarsi e di reinventarsi, un po’ come laboratorio di idee e un po’ come fiore all’occhiello di una sinistra che, tramite di essa, voleva esibire apertura e spregiudicatezza culturale. Dalle ripide scale di via Borgogna cominciarono a scendere i più autorevoli intellettuali italiani ed europei, da Sartre a Brecht, da Moravia e Pasolini a tanti illustri filosofi, storici, psicanalisti, artisti: è in quella stagione che si forma e si fissa l’immagine della Casa della Cultura.

Il tutto, sempre, all’insegna della più rigorosa sobrietà. “Pochi soldi e grandi idee” scrisse Rossana Rossanda, la giovane e brillante segretaria che per tredici anni animò e diresse il centro di via Borgogna. La sede della ripartenza, in via Borgogna 3, era proprio uno scantinato: esso era stato donato dalla famiglia di Eugenio Curiel, in memoria del giovane intellettuale e leader politico assassinato poco prima della Liberazione. Rossanda, quando narra dei primi tempi in via Borgogna, ricorda i tubi degli scarichi che attraversavano la sala e i topi che non mancavano di affacciarsi durante le riunioni. Quella cantina, povera e spoglia, divenne ben presto lo “scantinato più famoso di Milano”: austero ed essenziale, anche se ingentilito dalla generosità con cui famosi architetti ne avevano progettato gli interni e gli arredamenti.

Quell’imprinting sobrio ed anche po’ austero restò anche nei decenni successivi. Con quello standard, fatto di grande qualità e di poche risorse, la Casa della Cultura riuscì a stabilizzarsi nei decenni successivi. Quella sua sobria esistenza era allora garantita dal fatto di avere alla spalle un grande partito di riferimento, il PCI, che era il garante ultimo del funzionamento del centro culturale di via Borgogna. I comunisti non interferivano con la programmazione culturale, ma garantivano di fatto la continuità del centro e la copertura dei suoi bisogni essenziali di funzionamento. Il responsabile della conduzione della sede – Rossana Rossanda, ma anche chi ne prese il posto nei vent’anni successivi – era un funzionario di partito. Ed era sempre il partito a garantire la rete politica essenziale per reperire i finanziamenti: pochi, ma certi.

3 – La crisi dei partiti cambiò e travolse questo equilibrio. Si è trattato, come è noto, di una crisi con un lungo svolgimento: maturata nei tardi anni Ottanta, esplosa nella primavera del ’92, ai tempi di “Mani pulite”, essa si è trascinata per molti anni fino ad arrivare alla attuale letterale evanescenza dei partiti. Ed è del tutto evidente che partiti leggeri, senza radicamento di massa, finalizzati praticamente solo al confronto elettorale nel quale concentrano tutte le risorse, non siano più in grado di esprimere una politica culturale e neppure di mantenere un rapporto dialettico, ma vivo con centri culturali.

In poco tempo, dopo la crisi del ’92, vi fu un’autentica moria di centri culturali che animavano e davano un tocco particolare alla vita pubblica milanese. L’implosione del PSI, ad esempio, portò in tempi brevissimi al crollo e alla liquidazione di un centro culturale come il Turati che negli anni Ottanta aveva raggiunto riconoscimento e prestigio in città. Altri sono scomparsi oppure si sono progressivamente spenti, trasformandosi in un pallido ricordo di quello che furono in passate stagioni.

La Casa della Cultura, unico fra i centri del dibattito pubblico esistenti nella Milano degli anni Ottanta, seppe resistere, ma per questo dovette, ancora una volta, trasformarsi e ripensarsi profondamente. L’innovazione ha riguardato le modalità organizzative e l’impianto stesso della programmazione culturale: di fatto vi è stato bisogno di rimettere a fuoco le motivazioni stesse, in gergo aziendale la mission, del centro culturale.

Come è ovvio, questo passaggio ha scosso e rimesso in discussione tutto il funzionamento della Casa della Cultura. L’ombrello protettivo del partito di riferimento si è dissolto: si sono dovute reinventare le condizioni per la sopravvivenza quotidiana dell’associazione. Pezzo dopo pezzo il vecchio impianto si è squagliato: la rete protettiva che garantiva le risorse progressivamente si è diradata e indebolita, il segretario/direttore non poteva più essere un funzionario di partito, il mantenimento stesso della sede non poggiava più sulla garanzia del partito. Tutto questo è precipitato nella primavera del 2013, quando un evento traumatico, il crollo del soffitto nella sala delle conferenze, rimise in discussione la possibilità stessa di continuare l’attività della Casa della Cultura. In quel frangente il partito – in quel momento il Partito Democratico, ultimo nella lunga catena delle trasformazioni successive del PCI – si defilò da ogni responsabilità: l’unica opzione che mise in campo, in perfetta coerenza con il disinteresse per la cultura politica che sembra ormai caratterizzare tutto il sistema dei partiti italiani, fu la monetizzazione del valore dello stabile, ovvero la sua vendita. Il che avrebbe voluto dire l’interruzione della storia della Casa della Cultura e la sua chiusura.

È in quel frangente decisivo che la Casa della Cultura è stata costretta a contare solo sulle proprie forze, ad imboccare la strada della sua completa autonomia. La sede è stata rimessa a nuovo con un appello diretto alla città, con un’operazione di crowdfunding. La domanda di sostegno è stata rivolta a tutti coloro che erano interessati a dare continuità all’attività della Casa della Cultura: la risposta è stata straordinaria. In quel frangente fu chiaro che la Casa della Cultura aveva in se stessa le energie e le risorse per continuare la sua storia. Esattamente da quel momento si può parlare del centro culturale di via Borgogna come di qualcosa che è assimilabile a un imprenditore culturale. Dissoltisi i vecchi legami, la Casa della Cultura si è ridefinita nei fatti come un soggetto di imprenditoria culturale collettiva: imprenditoria no profit, ma che pur sempre per svolgere la sua attività deve contare solo sulle proprie forze.

4 – La scelta dell’autonomia è stata preparata da un ripensamento profondo dell’attività e della programmazione della Casa della Cultura. Da un certo momento essa ha dovuto prendere atto di non essere più il “naturale” referente degli intellettuali e del pubblico colto di una ben precisa area politico – culturale. Per i primi tre decenni e più del dopoguerra era stato chiaro a tutti che in via Borgogna si confrontavano vivacemente e liberamente le varie anime della sinistra laica e progressista e che il nucleo portante di quella complessa interazione era rappresentato dal mondo culturale, a quel tempo assai esteso e vivace, gravitante attorno al Partito Comunista. Poi, dalla seconda metà degli anni Ottanta, quell’area politico – culturale era andata sfrangiandosi sempre di più, fino a dissolversi. Accadde così che tra gli anni Novanta e i primi anni del nuovo secolo si evidenziò per la Casa della Cultura il problema di conquistare – potremmo dire: di inventare – un pubblico nuovo. Esso sarebbe stato, da allora in avanti, inesorabilmente molto più disomogeneo: la curva gaussiana relativa alla distribuzione originaria del pubblico, seppure già dotata di una sua dinamica, veniva aprendosi e sparpagliandosi sempre di più.

Si trattava di incontrare il pubblico colto che gravita naturalmente in un’istituzione collocata al centro della città, ma anche i pubblici delle periferie. Vi era, poi, il pubblico dei giovani, dove si toccava con mano una soluzione di continuità con la domanda culturale delle generazioni precedenti. Vi erano i tanti che concentrano le proprie energie nella ricerca di senso, ma anche coloro che sono catturati nel vortice dell’innovazione tecnologica. Insomma, questa realtà complessa, articolata, che si configurava sempre più come società degli individui, senza baricentro sociale e culturale, costringeva ad ampliare la proposta e l’offerta culturale per raggiungere persone dagli interessi così diversi.

Per intercettare e fidelizzare questi nuovi pubblici serviva uno sforzo enorme per ridefinire la proposta culturale, per reinventare il ruolo e lo spazio del centro di via Borgogna nella vita pubblica, per riconfermarli giorno per giorno, per di più in un ambiente come quello milanese saturo di proposte culturali. I cittadini milanesi, come è noto, affollano le mille offerte di intrattenimento culturale proposte dalle più svariate agenzie. La Casa della Cultura, in questo panorama complesso e affollato, doveva riuscire a definire con chiarezza l’area cui rivolgersi, lo spazio da occupare.

Servivano le idee, ma anche il coraggio e la fantasia per costruire questo nuovo progetto culturale. Bisognava anche capire da dove partire e quali fossero le risorse da valorizzare maggiormente. Ben presto fu chiaro che quel nome, Casa della Cultura, che per i milanesi colti è dal dopoguerra sinonimo di serietà, di rigore, di ricerca aperta e coraggiosa, costituiva di fatto una sorta di brand – continuiamo ad usare i linguaggio aziendale – di particolare prestigio. Si trattava di estrarre da quel brand tutto il valore possibile, ma per questo bisognava afferrare con chiarezza, mettere a fuoco cosa avesse impresso nell’esperienza della Casa della Cultura un quid in più.

L’originalità della storia della Casa della Cultura non stava nell’affiancamento al Partito Comunista: tanti altri centri culturali hanno avuto in Italia questa caratteristica, ma erano naufragati senza lasciare alcuna traccia. La particolarità della Casa della Cultura, il fascino e il prestigio che hanno accompagnato la sua storia, stavano in qualcos’altro, ovvero nell’accento messo sistematicamente sul pensiero critico. Il suo più autorevole ispiratore, il filosofo Antonio Banfi, è stato in Italia l’interprete più rigoroso del razionalismo critico. Ad esso si sono ispirati i suoi grandi allievi (Paci, Preti, Cantoni, Anceschi, Formaggio ecc), i protagonisti di quella che è stata chiamata “la scuola di Milano” e che per anni ha fornito la linfa al centro culturale milanese. La Casa della Cultura assunse così un profilo diverso da quello di tanti altri centri culturali vicini al Partito Comunista. Vittorini, ad esempio, si scontrò frontalmente con Togliatti, ma continuò ad animare la vita della Casa della Cultura milanese. Oppure ancora, nel ’56, al momento delle drammatiche vicende di Budapest, via Borgogna divenne il riferimento della critica contro lo stalinismo e della protesta della cultura di sinistra. Lo stile della Casa della Cultura, la sua eterodossia, la sua ricerca sempre aperta, sempre un po’ borderline, affondano le radici in quella ispirazione e tensione critica. Da qui bisognava ripartire per ridefinire e rilanciare la proposta culturale della Casa della Cultura.

La soluzione si è così delineata rapidamente, in modo logico e naturale: il pubblico cui rivolgersi era rappresentato da coloro che cercano gli strumenti per orientarsi criticamente nel mondo, per potersi posizionare sulle grandi questioni politiche, etiche e sociali che scuotono la società. Al fondo, si trattava di reinventare l’antica suggestione di un rapporto vivo e fecondo tra la politica e la cultura cha tanta parte aveva avuto nella storia di via Borgogna. Ma, ovviamente, il tutto doveva ora verificarsi in una situazione completamente diversa dal passato. La politica ma anche le modalità stesse di organizzazione della cultura erano andate trasformandosi in profondità: restava, però, la necessità di ricostruire canali di scorrimento tra l’elaborazione culturale e la vita pubblica.

Si trattava di operare un consapevole “ritorno al futuro”, di fare vivere quell’ispirazione critica nel mondo nuovo segnato dalla globalizzazione liberista e dalla travolgente innovazione tecno – scientifica. In altre parole si trattava di pensare la Casa della Cultura come strumento per costruire un’enciclopedia critica della contemporaneità. Questo progetto, assai arduo e impegnativo, permette però di occupare uno spazio incredibilmente e drammaticamente vuoto: il pensiero critico è dolorosamente latitante in questi tempi che portano il segno opprimente del “pensiero unico”. Esso rende possibile, inoltre, dare un senso preciso all’attività del centro culturale milanese, in continuità con le motivazioni più profonde che ne hanno sorretto l’attività in più di settant’anni.

5 – Le risorse economiche per fare vivere questo progetto dovevano essere cercate lì, fra quanti interessati alla realizzazione e alla costruzione di questa enciclopedia critica della contemporaneità. A tutti loro viene chiesto un contributo per reperire le risorse necessarie. Ecco perché è lecito usare l’espressione: “imprenditore culturale collettivo”. L’accento si sposta inesorabilmente sul contributo dei soci. Il loro apporto è decisivo per consolidare l’attività del centro culturale: le loro quote di adesione e il loro contributo al crowdfundingsono i primi pilastri su cui poggia ora la Casa della Cultura. Tante e diverse sono le modalità con cui può esprimersi questo sostegno, come nel caso della generosa donazione di opere da parte di artisti, pittori e scultori, per affrontare il rifacimento della sede.

Nella programmazione crescono i corsi per cui si chiede un contributo ai frequentatori. La scelta non è fatta a cuor leggero: la Casa della Cultura si è sempre pensata come un servizio ai cittadini milanesi, come un luogo in cui tutti gli amanti della cultura e della riflessione potessero entrare liberamente. Ora comincia la ricerca di un nuovo equilibrio fra l’offerta di incontri gratuiti – ancora oggi di gran lunga maggioritari – e corsi a pagamento. La “Scuola di cultura politica”, la “Scuola di autobiografia”, il seminario annuale di filosofia, il seminario di filosofia del cinema prevedono un contributo per i frequentatori, la qual cosa, per altro, non ha danneggiato la frequentazione. Anzi, per alcuni aspetti la quota di iscrizione ai corsi rappresenta un vincolo positivo che incentiva alla partecipazione continuativa, soprattutto nel caso di cicli articolati in molti incontri.

I volontari, altra risorsa fondamentale nella Casa della Cultura, gestiscono settori interi di attività. Senza dimenticare, per altro, che tutti i relatori ai convegni potrebbero essere considerati a pieno titolo come “volontari”: partecipano tutti e sempre alle iniziative senza la richiesta di onorari, solo con il rimborso delle spese vive.

Anche finanziamenti da cittadini privati e da enti privati concorrono al funzionamento della Casa della Cultura, come supporto della sua attività generale oppure, talvolta, mirati anche al sostegno di uno specifico progetto congiunto. Ne è esempio il progetto triennale, finanziato dalla Fondazione Cariplo, di diffusione di incontri culturali nei quartieri periferici della città. Cariplo sollecita, giustamente, la diffusione dell’attività culturale di qualità nelle aree periferiche, ma per questo ha bisogno di soggetti con adeguate competenze. La Casa della Cultura ha tutte queste competenze, ma deve essere messa nelle condizioni di poterle usare anche al di fuori del suo ambiente consueto. Da qui un progetto triennale che si configura così come un vero e proprio patto siglato tra l’ente erogatore e il centro culturale.

Tutti questi tasselli, nel loro insieme, concorrono a garantire l’autosufficienza finanziaria della Casa della Cultura. Ad essa si è arrivati, come dovrebbe risultare con chiarezza da quanto scritto sopra, per necessità: l’autofinanziamento era la strada obbligata per continuare a svolgere la propria funzione in un mondo in cui il vecchio e tradizionale ombrello protettivo della politica si era ormai dissolto e aveva perso ogni significato.

A ben vedere, però, ognuno dei passaggi che hanno permesso di imboccare questa strada è stato sorretto anche da una libera e consapevole scelta, ovvero dalla convinzione che per dare solidità e respiro alla proposta culturale era gioco forza sganciarsi dall’orizzonte del giorno per giorno, dai personalismi esasperati e da quella modesta strumentalità cui sembra precipitata la dinamica politica. Un progetto culturale ha bisogno di respiro, di sguardo lungo, di obiettivi ambiziosi: i partiti oggi sembrano incapace di proporli e perfino di accettarli. Ecco perché l’autonomia e l’autofinanziamento sono oggi una scelta razionale e obbligata per garantire la ricerca e l’attività culturale, per generare e mettere in circolazione anche la stessa cultura politica.

6 – La sfida è complicata e difficile, non solo perché il reperimento delle risorse non è mai garantito a priori. Al fondo vi è qualcosa di ancora più impegnativo. Come abbiamo già accennato, si è dissolto e frantumato il pubblico tradizionale di riferimento di un centro come la Casa della Cultura: la Milano colta e progressiva, orientata tendenzialmente a sinistra, oggi si è scomposta e dispersa in mille rivoli, con gusti attenzioni e interessi anche profondamente diversi. Oggi, invece di un pubblico da conquistare, vi sono tanti diversi pubblici da raggiungere e da motivare.

Un progetto che oggi voglia animare un dibattito pubblico consapevole deve perciò spaziare dalle questioni inerenti il confronto – scontro delle culture fino a quelle dell’innovazione tecnologica e delle nuove frontiere della scienza. Insomma, deve aprirsi a tutto campo: ecco perché ci si è proposti l’obiettivo, assai impegnativo, di costruire un'”enciclopedia critica della contemporaneità”.

Eppure è opportuno, a conclusione di questo ragionamento, mettere l’accento anche su alcune straordinarie potenzialità che si stanno aprendo e che sarebbe imperdonabile non cercare di esplorare fino in fondo. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione aprono scenari del tutto nuovi anche per chi ha come propria missione la promozione del dibattito pubblico. Vi sono mille fondati motivi per guardare con preoccupazione al dibattito che si sviluppa sui social, per sottolinearne la superficialità, l’irruenza, l’autoreferenzialità e la mancanza di riflessività. Eppure a queste considerazioni se ne possono sovrapporre anche altre: tante persone più di prima possono essere raggiunte e vi sono molte più possibilità di offrire materiali per la consultazione. Forse aveva proprio ragione Umberto Eco, nei suoi studi pionieristici sulla televisione: la tecnologia, argomentava in “Apocalittici e integrati”, può generare una cosa e il suo contrario, ciò che conta è come viene usata.

Di certo per la Casa della Cultura la tecnologia è una sfida in più, con cui sarebbe colpevole non misurarsi. Essa permette di spezzare barriere di spazio e di tempo che obiettivamente limitavano l’efficacia di un centro culturale. Le iniziative potevano, fino a poco fa, essere fruite solo dai frequentatori fisici dei dibattiti. Chi non poteva partecipare per problemi di orario o per lontananza fisica era irrimediabilmente condannato a perdere gli stimoli della discussione.

Oggi siamo nelle condizioni di fare vivere le discussioni che organizziamo in via Borgogna anche in altri tempi e in altri luoghi. Le dirette streaming e la consultazione delle registrazioni conservate nell’archivio video aprono scenari del tutto inediti: nel corso dell’ultimo anno vi sono stati oltre 100.000 contatti al canale Youtube della Casa della Cultura, in progressione accelerata rispetto ai 35.000 dell’anno precedente. I nostri messaggi promozionali scorrono anche su una piattaforma come Facebook dove i 25.000 likers ci segnalano occhi attenti, soprattutto di giovani donne! Il digitale permette anche di fare circolare testi scritti a costi infinitamente più ridotti che nel passato: il sito è ormai una vera e proprio rivista che, a sua volta, contiene un bimestrale, “viaBorgogna3”, nel quale vengono riordinate e proposte alcune delle operazioni culturali più impegnative.

Rossana Rossanda, nelle sue memorie, ha scritto: “Una volta andavamo in via Borgogna … “. Oggi dovremmo correggere e aggiungere: la sera si va in via Borgogna, oppure ci si collega in streaming, si consulta il sito, si legge la rivista bimestrale “viaBorgogna3” ecc. In via Borgogna potevano partecipare solo i cittadini di Milano e dintorni: all’offerta in rete possono accedere tutti i cittadini italofoni. Insomma, tutto è cambiato, ma forse sono ancora più di prima le ragioni per tenere saldo il nostro filo rosso: un pensiero critico capace di pensare il presente e progettare il futuro, mantenendo salde le radici nella propria storia.

Ferruccio Capelli
Direttore della Casa della Cultura

Paper consegnato per il Convegno ASSI (primo convegno italiano di storici di impresa): “Imprenditori e manager nella storia economica”, Milano, Università Bocconi, 6 – 7 ottobre 2017