La storia del welfare nella cultura d’impresa

15 luglio 2016, Hotel Helios, viale Helvetia 4, Monza

Convegno promosso dalla FILCTEM Lombardia

 LA STORIA DEL WELFARE NELLA CULTURA D’IMPRESA

Confesso che questa volta ero reticente ad accettare l’invito di Rosalba: non sono e non mi ritengo un esperto di welfare, tanto meno di welfare aziendale. Ho sciolto la riserva quando mi è stato sottoposto il titolo: “La storia del welfare …”. A quel punto non ho più potuto declinare l’invito. Penso che l’approccio storico alla questione, oggi del tutto desueto, sia il più utile e fecondo, quello che apre più porte e prospettive.  Potremo scoprire così che prima di oggi vi sono stati – per stare alla nostra questione – tanti tipi di welfare e tante diverse culture di impresa. Ci risulterà più chiaro allora perché anche oggi vi sono possibili approcci diversi alla questione e vi sono in campo non una ma molte e diverse culture di impresa. Potremo capire come e perché sono cambiate e soprattutto ci emergerà tra le mani il ruolo attivo, decisivo, che in tutta questa storia ha svolto il movimento dei lavoratori.

1 – Cominciamo da una prima questione: siamo soliti chiamare welfare state, stato sociale ( o stato del benessere )  ogni forma di protezione e promozione sociale: per noi è un’associazione scontata, automatica. Eppure non è sempre stato così: alle spalle vi è una vicenda molto più complessa, che solo a un certo punto, verso la metà del secolo scorso, ha cominciato ad essere definita “stato sociale”.

Andiamo indietro nel tempo, molto indietro: sappiamo che per tanto, tanto tempo gli esseri umani hanno vissuto senza nessuna forma di protezione sociale pubblica. L’unica forza cui potevano fare riferimento era la famiglia: ad essa, e solo ad essa, ci si appoggiava in caso di malattie e di vecchiaia. Tutt’al più, al fianco della famiglia, erano andate formandosi alcune istituzioni caritatevoli – compassionevoli, generalmente gestite da religiosi, il cui compito generalmente consisteva nel garantire a tutti un funerale dignitoso ( le Misericordie! ) e che, quando possibile, nei casi più gravi, provvedevano a rinchiudere in appositi istituti le persone il cui disagio era tale da creare disturbo nella società. Altro non c’era: ma così hanno vissuto le società tradizionali, società agricole, attraversate da un profondo spirito religioso.

Tutto questo ha cominciato ad essere messo in discussione quando sul proscenio della storia ha cominciato ad affacciarsi la moderna borghesia. Bisognava spezzare le gabbie del vecchio mondo statico e conservatore: occorrevano idee nuove. Fu così che incominciò a diffondersi una idea nuova e potente. Ogni singolo uomo – ecco l’idea di fondo – ha tutti gli strumenti per costruirsi da solo il suo futuro: ha dalla sua l’intelligenza ed ora anche la tecnica. E se queste proprio non fossero state sufficienti – si narra nell’insuperabile capolavoro della nascente epopea borghese ( Robinson Crusoe ) – ecco il servitore di colore, lo schiavetto nero. Ognuno da solo: rimboccarsi le maniche, aguzzare l’ingegno. E, ovviamente, basta con i piagnistei dei preti e con le istituzioni caritatevoli: le prime leggi per i poveri, quelle passate alla storia come “poor laws”, avevano l’obiettivo di chiudere le istituzioni caritatevoli e assistenziali perché impedivano ai più poveri e ai più disgraziati di vendersi sul nuovo mercato del lavoro.

2 – Questo duro e spietato utilitarismo individualista non ha retto alla prova dell’industrialismo. La nascita della grande industria, siamo agli inizi dell’Ottocento, ha cambiato il panorama sociale: masse sempre più grandi di persone venivano sradicate dalle campagne e dalle loro famiglie. Per loro, oltre il salario giornaliero – settimanale, non vi erano garanzie di sussistenza e protezioni di nessun genere: un infortunio, una malattia poteva significare la miseria più nera. Quella realtà nuova, la condizione di vita degli operai della nascente industria, cominciavano a diventare un problema gigantesco ( ed anche , ovviamente, una minaccia per la società, perché quegli uomini e quelle donne cominciavano a dare segni di ribellione e di rivolta ).

Il mondo scopre un problema nuovo: la questione sociale. Urgono idee e fatti nuovi per impedire che questo immenso disagio sbocchi in qualche rottura rivoluzionaria. Ed è da quel momento, dalla metà dell’Ottocento in avanti, che si cominciano a inventare e costruire sistemi di protezione sociale. Nel mezzo di una lotta politica, sociale, ideale di straordinaria intensità.

Con qualche approssimazione possiamo distinguere tre tipi di risposte tra loro molto diverse La prima: una risposta autoritaria. Il caso di scuola, esemplare, si ha in Germania. Il Cancelliere di ferro, Otto Von Bismark, vede nella nascente organizzazione operaia una minaccia per l’unità e per la sicurezza dello stato. Decide di mettere fuori legge i socialisti, ma per compensare la dura repressione politica “concede” prime garanzie sociali pubbliche, statali, ai lavoratori. Sono le prime pensioni di vecchiaia garantite dallo stato. Gli storici concordano: il grande statista autoritario e conservatore pone così le prime basi del futuro stato sociale.

Seconda strada: gli imprenditori più lungimiranti pensano che sia opportuno ( o doveroso ) pensare ad alcune forme di protezione e di garanzia per i lavoratori. Nascono, ad esempio, villaggi operai attorno ad alcune fabbriche, asili e scuole di mestiere gestite dalle aziende. Ne restano tracce ancora oggi, anche in Italia. Famosi gli interventi di alcuni industriali tessili, come i Crespi qui nel milanese o i Marzotto nel vicentino. Umanitarismo, paternalismo e controllo sociale si mescolavano tra di loro: per essere accolti in quelle case bisognava garantire, come si sa, obbedienza al padrone e al parroco. Con vere e proprie forme di oppressione claustrofobica che sfoceranno in un episodio famoso, quando nel 1968, rotte i legami di dipendenza, gli operai abbatteranno a Schio, nel corso di una tumultuosa e liberatoria protesta, la statua del loro “benefattore”, il conte Marzotto. Con qualche forzatura in questo filone “paternalista” potremmo collocare anche l’ambiziosa e, per certi versi, affascinante operazione olivettiana. In questo caso non difettano visione innovativa e apertura sociale, ma è pur sempre durante quella vicenda che per la prima volta un imprenditore forma un suo partito e si presenta alle elezioni ( anche se con poca fortuna ). E’ il primo episodio di una storia che comincia in Italia e che, come ben sappiamo, avrà sviluppi enormi quando un altro imprenditore italiano fonderà un suo partito ed aprirà la strada a tanti imitatori in tanti altri paesi del mondo, perfino negli Stati Uniti.

Vi è stata, però, anche una terza strada, che riletta oggi assume tratti di particolare interesse. Senza forzature, essa presenta tratti affascinanti: è la strada in cui sono i lavoratori stessi a prendere nelle loro mani l’invenzione e la costruzione di nuove forme di protezione sociale, ovvero la strada del “mutualismo”. Per l’esattezza ai suoi esordi questo percorso non è del tutto separabile dal precedente: nelle primissime società di mutuo soccorso partecipano come promotori anche alcuni imprenditori. Ma poi le strade si separano: il mutualismo è la strada con cui i lavoratori si mettono assieme, scoprono la potenza della solidarietà. Essi decidono di mettere assieme quote del loro salario e con queste costruire casse comuni con cui fronteggiare la malattia e la vecchiaia, inventare cooperative di consumo, cooperative edilizie e costruire con le loro mani alcuni luoghi ( le Case del popolo ) per la diffusione della cultura e per passare assieme il tempo libero.

Ragioniamo a fondo: il mutualismo è l’esatto contrario del paradigma di Robinson Crusoè. Non più l’individuo solo, animato da utilitarismo egoista, ma l’individuo che si associa, che scopre la solidarietà con l’altro. Alle spalle vi sono gli echi delle idee che hanno iniziato a circolare in Francia, il paese della “grande rivoluzione”, dove si conia quel sostantivo, socialismo, che è pensato per essere esattamente l’opposto di individualismo. Sono stati i primi socialisti ( “utopisti” ), Saint Simon, Fourier, Owen, lo stesso Proudhon, a progettare le prime forme di moderna vita cooperativa e solidale, prima che il potente pensiero di Marx spingesse in altra direzione il movimento socialista, perché il pensatore tedesco individuò nel nascente proletariato la forza sociale “destinata” a cambiare e rivoluzionare il mondo.

Le società di mutuo soccorso, il frutto più interessante di quella stagione, sono il punto di partenza del sistema di protezione del lavoro in Italia e nello stesso tempo sono l’inizio dell’organizzazione dei lavoratori in Italia: da esse, dopo accanite discussioni, nasceranno le società di resistenza, il nucleo iniziale del sindacalismo italiano. Di queste società vi sono ancora tracce, a Milano ( la Società di mutuo soccorso dei ferrovieri! ) e soprattutto in tante valli prealpine, quelle della prima industrializzazione italiana.

3 – Con il Novecento il sistema della protezione si evolve. Il mondo del lavoro è ormai diventato una potenza sociale, da tanti vissuta come una tremenda minaccia: nel 1917, nel mezzo della prima guerra mondiale, conquista perfino il potere in un grande paese come la Russia. Non si può più traccheggiare: bisogna agire con decisione. E la svolta – il vero cambio di paradigma del Novecento – sarà l’intervento generalizzato dello stato. La svolta, come sempre avviene, avviene un pezzo alla volta, ma alla fine darà tutta una nuova configurazione al sistema di protezione sociale. Lo stato è chiamato in causa per una ragione molto semplice: la protezione deve riguardare tutti i lavoratori, non solo quelli che possono usufruire del paternalismo dei padroni o dell’attività della Casse di mutuo soccorso. La discussione ruota attorno all’assicurazione obbligatoria: in caso di infortuni e di malattia e in vista della vecchiaia serve un ombrello protettivo per tutti i lavoratori. Da qui le prime mutue e nel volgere di qualche decennio ( per beffarda ironia della sorte, fu realizzato in Italia durante la dittatura fascista ) il sistema della previdenza nazionale.

La svolta ulteriore, questa volta una svolta davvero radicale nel pensiero, maturerà durante la seconda Guerra Mondiale, nella Gran Bretagna impegnata in un tremendo sforzo bellico contro il nazismo. L’impegno bellico coinvolge tutta la popolazione senza eccezioni di sorta: è in quel frangente che nella società inglese maturano e si consolidano in profondità, come mai in precedenza, i valori di solidarietà e di ugualitarismo. Questo profondo spostamento di valori porta alla stesura del progetto di protezione universale dei cittadini pensato e scritto da Lord Beveridge. Il progetto sarà fatto proprio dal primo governo laburista del dopoguerra e solo da quel momento avrà un senso parlare di “stato sociale”. La protezione – ecco la novità dirompente – dovrà riguardare non solo i lavoratori, ma tutti i cittadini, senza eccezione di sorta. Per tutti deve valere il diritto alla salute e alla previdenza. Il modello inglese diventerà il paradigma cui faranno riferimento tutti i paesi più avanzati nei primi trent’anni del dopoguerra, i trenta d’oro, i “trenta gloriosi”. Con percorsi e con protagonisti diversi, ma con tempi sostanzialmente convergenti, si formerà in tutta Europa Occidentale quello stato sociale che garantisce assistenza medica, previdenza e diritto all’istruzione per tutti.

Sono anni di grande crescita economica ( nei primi venti anni del dopoguerra il Pil in Italia cresce in media del 5% annuo, con la punta massima di un trimestre in cui cresce dell’8,5%! ). Sono anche gli anni in cui il movimento dei lavoratori raggiunge – in Italia e in Europa – la forza maggiore, contrattuale e salariale: quel movimento è talmente forte da poter assumere e sostenere un punto di vista universale! Esso, infatti, preme vigorosamente per l’espansione a tutti i cittadini dei diritti sociali. L’impresa, dal canto suo, asseconda ( con maggiore o minore convinzione ) questa svolta statalista. Le cronache non segnalano welfare aziendali particolarmente significativi. Per altro, con qualche fondata ragione: lo stato nazionale ha in quegli anni la forza per imporre alle aziende un severo prelievo fiscale che non lascia molti margini aggiuntivi ( sembra oggi perfino incredibile, ma nel primo dopoguerra l’aliquota marginale sui profitti raggiungeva negli Stati Uniti il 92!!! ). Insomma, lo sforzo convergente fino ai primi anni Ottanta sarà in tutta Europa Occidentale la costruzione di un sistema pubblico universale di protezione. E’ quello il momento in cui è appropriato parlare di welfare state. Possiamo aggiungere, con sguardo retrospettivo: un’autentica conquista di civiltà, il punto più alto di coesione sociale e civile del nostro mondo.

Nessuna costruzione, come ben sappiamo, è perfetta. Ed infatti vi è una sterminata letteratura sui limiti e i difetti di quello stato sociale: burocratico, incapace di personalizzare il servizio, inadeguato a modulare gli interventi di fronte alle “differenze”. Tutte osservazioni e critiche, ovviamente, pertinenti, ma che lette oggi fanno anche un po’ sorridere. Con tutti i suoi limiti e con tutte le sue esagerazioni quello stato sociale, quello dei trent’anni d’oro, è stato la più grandiosa istituzione di protezione sociale che sia mai stata inventata – una protezione garantita attraverso lo stato a tutti, universalistica – ed anche il più potente strumento di redistribuzione ugualitaria delle risorse.

Il problema è che da un certo punto in avanti, dai primi anni Ottanta del secolo scorso, le cose hanno iniziato a cambiare. La musica è cambiata e il paradigma è in fase di profondo cambiamento.

4 – Siamo ancora nel bel mezzo di questa vicenda: non possiamo guardarla con sguardo storico, retrospettivo. Ma dobbiamo cercare di capirla bene per poterci orientare e decidere cosa fare.

La cronaca dei fatti è notissima: dai primi anni Ottanta è cominciato un progressivo ridimensionamento di quel “welfare state”, in tutti i paesi europei, con maggiore o minore asprezza. In Italia gli interventi sono stati molto aspri, causa l’alto livello del debito pubblico e la lunga recessione di questi ultimi anni. L’argomento è sempre quello: non ci sono più i soldi per permetterci i fasti del passato. La sanità è rimasta un servizio universale, ma la gratuità è un lontano ricordo. Per quanto riguarda il sistema previdenziale siamo passati da qualche “eccesso di generosità” a una copertura quanto meno problematica per le nuove generazioni: potevamo vantarci di avere sradicato la terribile minaccia della miseria della terza età, ma ora quest’incubo si sta riaffacciando per chi comincia oggi il suo percorso lavorativo. Di scuola e Università si parla meno, ma i tagli sono stati dolorosissimi, accompagnati da un’autentica impennata delle rette universitarie. Ormai non fa più nemmeno notizia il fatto che un anno di iscrizione alla Bocconi abbia raggiunto i 14.000 euro. Un’eccezione, certo, ma dentro una linea di tendenza. Con il risultato di un calo drammatico delle matricole universitarie e dell’ultimo, sconcertante, posto in Europa per numero di laureati ( dopo la Bulgaria! ) e per spesa per la ricerca ( dopo il Portogallo! ).

Cosa è accaduto per provocare un simile profondo rivolgimento? La domanda non è eludibile se si vuole ragionare seriamente sul che fare. In estrema sintesi possiamo dire che due forze potenti stanno riplasmando il nostro mondo in profondità: la globalizzazione e l’innovazione tecno – scientifica. Il loro procedere intrecciato ( una agisce sull’altra con effetti moltiplicatori ) sta scuotendo dalle fondamenta i nostri equilibri economici e sociali.

Entrambe sono frutto di scelte fatte consapevolmente: l’apertura globale dei mercati è stata ricercata ostinatamente per aprire sempre nuove frontiere alla produzione ed estrazione di valore. La stessa cosa vale, ovviamente, per lo sviluppo tumultuoso dell’innovazione scientifica e tecnologica: ogni innovazione è voluta, cercata da schiere di ricercatori. Ma le conseguenze non sempre sono previste, calcolate: spesso scappano di mano e si trasformano in processi largamente fuori controllo.

Pensiamo alle scelte che hanno spianato la strada alla globalizzazione: Thatcher e Reagan prima, poi Blair e Clinton ( come non ricordare l’abolizione della Glass Steagall nel 1999 ? ): insomma, la globalizzazione dei mercati è stata voluta e cercata, in coerenza con la dominante ideologia liberista.  Salvo che, da un certo punto in avanti, hanno cominciato a manifestarsi effetti imprevisti: le disuguaglianze hanno cominciato a crescere vertiginosamente dappertutto, gli stati nazionali hanno sempre meno strumenti per imporre controlli e tassazioni sui capitali e si stanno avvitando in una pericolosa “crisi fiscale” ecc. Il tutto mentre nessuno più sa come fermare e riportare sotto controllo questo bolide ( la globalizzazione ) lanciato a folle velocità.

Pensiamo anche alle nuove frontiere tecnologiche. La rivoluzione informatica ha spianato orizzonti nuovi: la comunicazione rivoluzionata, l’automazione dilagante alleggerisce il lavoro, le conquiste della medicina allungano la vita oltre ogni precedente immaginazione. Ma anche qui non mancano le conseguenze indesiderate: flessibilità che troppo facilmente sfocia in precarietà, rovesciamento della piramide demografica che innesca giganteschi processi migratori globali ecc. Ma anche qui inquietudini e preoccupazioni diffuse non possono minimamente scalfire la crescita ulteriore, sempre più vertiginosa, dell’innovazione scientifica e tecnologica. E’ stato calcolato che il ritmo dell’innovazione è tale da provocare ogni dieci anni il raddoppio delle conoscenza a nostra disposizione.

Facciamo attenzione: non sto andando fuori tema. Sono proprio gli effetti combinati della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica che mettono in sofferenza la grande conquista del welfare, del sistema della sicurezza universale. Sono questi che erodono la base fiscale degli stati nazionali ( delocalizzazioni, precarizzazione del lavoro ecc ) proprio mentre aggravano quei problemi sociali ( precarietà, nuove povertà, invecchiamento della popolazione ecc ) su cui sarebbe ancora più urgente intervenire e stendere l’ombrello protettivo. E’ la morsa dentro cui ci troviamo: problemi più acuti e meno risorse a disposizione. E tutto questo – aggiungo – ha molto, moltissimo a che fare con l’ondata nazionalista – populista che sta scuotendo l’Europa.

Ecco perché la questione dello stato sociale, o meglio del sistema di protezione sociale, di quali forme esso deve assumere, sta tornando in gioco. Tutti avvertiamo il bisogno di cercare, studiare, costruire nuove forme di protezione: per questo si sta tornando a ragionare anche di welfare aziendale.

5 – La strada è imboccata: giustamente. L’importante è fare tesoro anche dell’esperienza del passato. A nessuno qui, penso, interessi favorire il ritorno del paternalismo aziendale. Certo, sarebbe un po’ diverso dal passato: nessuno oggi chiederebbe l’omaggio al padrone e l’obbedienza al parroco. Esso si configurerebbe come concessione di un po’ di welfare, ben valorizzato da adeguate campagne di comunicazione, in cambio di disponibilità e flessibilità totale da parte dei lavoratori. Con al fondo l’idea che l’unica cosa che davvero conta per l’azienda è il la crescita del valore per gli azionisti.

IL ruolo dei lavoratori, la contrattazione sindacale possono spingere però in altra direzione, favorire il prevalere di un’altra idea d’azienda: un’azienda che fa proprio il concetto di responsabilità sociale, che interpreta la responsabilità sociale d’impresa come convergenza di interessi e collaborazione tra tutti gli stakeholders  ( portatori di interesse ) aziendali. Vi è qui un discrimine preciso, un conflitto tra diverse concezioni dell’azienda e quindi anche, ovviamente, tra diverse visioni del welfare aziendale.  Questo discrimine non può trovare soluzione nel confronto tra le varie anime dell’imprenditoria: inesorabilmente decisiva è  l’iniziativa dei lavoratori e del movimento sindacale. Si tratta di pensare al welfare aziendale come una nuova frontiera di conquista sindacale, come qualcosa che azienda e lavoratori contrattano a viso aperto e si impegnano a gestire assieme.

Aggiungo: probabilmente si potrebbe andare anche oltre. Il pensiero torna sull’esperienza straordinaria del mutualismo: in quel caso lo welfare – embrionale fin che si vuole – era però costruito e gestito direttamente dai lavoratori. Esso era basato sulla loro capacità associativa e sulla loro spinta solidaristica: quelle conquiste contenevano in sé una potente spinta emancipatrice, significavano conquiste di identità e di dignità, era motivo di orgoglio. Si può oggi ipotizzare qualcosa che vada nuovamente in questa direzione? Questa domanda è meno bizzarra ed estemporanea di quanto possa apparire a prima vista: la società è più ricca di quanto possa sembrare a prima vista di nuove forme associative e mutualistica. Pensate alla diffusione straordinaria del volontariato e dell’associazionismo oppure ancora alla radicata esperienza dei GAS ( Gruppi di acquisto solidale ). E’ come se i cittadini cercassero di inventare e costruire ad ogni piè sospinto degli antidoti all’individualismo esasperato, al rischio della solitudine ( nulla è peggio della solitudine involontaria, scriveva un grande filosofo che rifletteva su dove sarebbe andata una società fondata sui Robinson Crusoè ), alle nuove forma di precarietà sociale.

La domanda allora – domanda formulata recentemente anche in un bel libro scritto da ex sindacalisti – è se queste energie solidali e cooperative pulsano ancora anche nel mondo del lavoro. In una città come Milano stanno dilagando forme di cooworking: si lavora fianco a fianco per razionalizzare le spese, per usufruire di servizi comuni, per captare i benefici dello scambio di idee e di relazioni. Forse lì c’è il segno di un bisogno obiettivo, di una spinta anche nel mondo del lavoro di porre qualche limite all’individualismo dilagante, di ricostruire forme di solidarietà attiva e cooperativa anche nel mondo del lavoro. Forse questa lettura è troppo ottimistica, ma come ben sappiamo un po’ di ottimismo ( Gramsci parlava di ottimismo della volontà ) qualche volta può essere utile e sicuramente fa molto bene.

Ferruccio Capelli