LA VIRILITÀ NELL’ISLAM (E DA NOI)

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Il libro* è una raccolta di saggi di autori di competenze diverse (scrittori, psicanalisti, sociologi etc.) pubblicato nel 1996, cioè prima dell’ondata di terrore e di paranoia prodotta dagli attentati sanguinosi delle Torri gemelle di NY nel 2001 e dalle stragi di cittadini inermi avvenuti in questi ultimi anni: da quella di Charlie Hebdo a Parigi al boulevard des Anglais a Nizza. La Francia, la nazione più colpita, è anche il luogo di provenienza culturale degli autori, il paese in cui la questione islamica è molto sentita e studiata, in cui c’è un ampio ventaglio di intellettuali che se ne occupa, in cui l’immigrazione, soprattutto dai paesi del Maghreb, è presente ormai da almeno tre generazioni ; dove perciò la frizione culturale e sociale è più forte.

Malgrado preceda i drammi provocati dagli attacchi dell’ISIS, il libro non è affatto invecchiato: le questioni che pone sono attualissime e non solo irrisolte ma inasprite per le ragioni appena dette, per il risveglio di sentimenti di paranoia, razzisti, segregativi che quegli avvenimenti hanno prodotto. Ma circoscriviamo il problema per porcelo così come fanno gli autori: che cos’è essere un uomo nei paesi islamici? Per la verità la domanda sarebbe pertinente anche da noi. Non a caso l’ultimo numero della rivista”La clinique lacaniene”, appena uscita, ha come titolo “Qu’est-ce qu’un homme? “. Dunque la questione della virilità e del “che cos’è un uomo” (questioni diverse ma confinanti) sono estremamente attuali.

La questione della virilità in Islam, ma anche quella importata nei nostri paesi d’accoglienza come un valore identitario da difendere a ogni costo, è una questione centrale che non riguarda solo la reazione tra i sessi ma anche l’organizzazione politica e sociale intera. Giustamente nella sua Introduzione Benslama e Tanzi fanno notare che le analisi che si sono sviluppate da quindici anni a questa parte (oggi 35 anni) sono tutte focalizzate sulla condizione di vittima della donna islamica ma non si occupano delle determinanti sociali e psichiche della virilità nei paesi arabi così come del suo legame con le componenti teologiche e antropologiche.

Potremmo dire altrettanto per le analisi che vengono fatte da noi in Occidente per comprendere gli episodi di violenza sulle donne: analizzano il ruolo delle vittime e insorgono contro i casi di maltrattamento ma non si occupano, o si occupano poco, di come si ponga la questione della virilità oggi. Ci sono molte ricerche e studi sulla femminilità ma pochi sulla virilità e le sue difficoltà.

Quest’affermazione, la scarsità di studi e ricerche sulla questione, non sminuisce la portata del problema delle donne-vittime di violenza che, per fortuna solo in casi di eccezione, riguardano anche l’Occidente, ma vuole solo sottolineare la scarsità dei contributi dati all’esame della questione dell’identificazione virile. Questione centrale perché l’attuale precarietà dell’identificazione virile è appunto alla base di moltissime forme di violenza.

Il libro contiene alcuni saggi che a noi, ormai privi di riti e usanze, appaiono”colorati”, ad esempio quello di apertura di Adel Faouzi sulla prima notte di nozze; una descrizione che però non è solo folklore, come ci potrebbe apparire:

A noi sembrano usanze barbare – e in effetti lo sono, probabilmente anche per gli uomini che devono agirle- ma non poi molto lontane da quelle di talune comunità del Sud dell’Italia degli anni cinquanta. Sottolineo che la somiglianza riguarda i “comportamenti “, perché le referenze culturali sono diverse nell’un caso e nell’altro, in Occidente e in Islam ; sono però in entrambi i casi comportamenti che rinviano a una concezione arcaica della funzione maschile in cui l’interesse per le donne si dimostra attraverso la provocazione, l’insulto, il complimento greve, il corteggiamento pressante (quello che oggi chiameremmo stolking) e che rende le donne intimidite, paurose ma al tempo stesso le designa come oggetto di desiderio (anche se un oggetto degradato e ridotto alla pura fisicità).

A questa modalità le donne finivano -nel nostro Sud almeno, fino agli anni Cinquanta- per aderire, vi si conformavano in quanto modalità sociale di approccio da parte dell’altro sesso. Questi saggi, più descrittivi che teorici, vanno letti e meditati perché non concernono l’arcaico -come i vecchi film in bianco e nero girati tra culture contadine- ma riguardano la realtà, ancora viva, di una grossa fetta del nostro mondo, di una certa cultura legata all’Islam.

Ma il “machismo” ha davvero a che fare con l’Islam?

In questo consiste grossa parte dell’interesse, secondo me, di questi saggi: i comportamenti “machisti” presentano uno scollamento rispetto alle stesse radici culturali che vorrebbero testimoniare. Sembra infatti che la religione islamica, nei sui testi fondatori, non abbia niente a che fare con questa esibizione di virilità violenta, di disprezzo del sesso femminile, di guerra radicale portata contro il cosiddetto “nemico”, nella fattispecie l’Occidente e i suoi valori corrotti.

Nella sua introduzione giustamente Angelo Villa fa notare che dietro queste manifestazioni c’è una evidente confusione, diciamolo ex abrupto-, tra fallo e pene. Tra funzione simbolica del fallo, funzione regolatrice del politico, del sociale e dello psichico e funzione immaginaria del pene. Che il fallo viene confuso con l’avere l’organo e che l’avere l’organo e dimostrare che funziona diventa il segno per eccellenza della virilità.

In questo senso, potremmo forse azzardare che questa confusione di reale e simbolico, di registri del reale e del simbolico, del pene col fallo, è qualcosa che oggi accomuna la cultura occidentale e la cultura araba: entrambe, in realtà, sono marcate da questa indistinzione, dall’evanescenza di una funzione regolatrice, quella che noi lacaniani chiamiamo funzione Nome del padre.

In entrambi i casi abbiamo infatti a che fare con l’evanescenza di un registro (il simbolico) e con la ricerca in un organo che fa segno, l’organo reale, il pene, dunque con una regolazione impossibile. Nessun immaginario può costituire un ordine, una regola, un referente centrale. Neanche, evidentemente, un organo che, in quanto tale, può fare da supporto alla funzione simbolica ma non essere al posto della funzione regolatrice e simbolica.

Benslama, psicanalista e islamista notissimo in Francia, scrive un saggio che si chiama: “Il velo dell’Islam “in reazione alle polemiche sorte a proposito del velo che alcune giovani di origini maghrebine intendevano portare, soprattutto a scuola. Benslama difende un punto di vista che si distacca dal modo tradizionale della discussione: o integralismo o integrazione, o/o, o l’uno o l’altro.

Non si tratta di contrapporre le due cose: sostenere la necessità che immigrati di altre culture accettino di entrare nelle norme, costumi, insomma nel discorso del padrone (per usare ancora il gergo lacaniano) del paese di accoglienza per mimetizzarsi nel mondo che li ha accolti oppure difendere in modo integralista – e con le derive che conosciamo- la cultura d’origine. Si tratta invece di spostare i termini del problema.

Le tesi di Benslama convergono sulla questione del velo delle donne. Oggi probabilmente la questione è sopravanzata dagli orrendi crimini di sangue avvenuti in nome dell’Islam e spogliata del suo valore simbolico anche perché talvolta il velo è stato usato proprio per camuffare degli attentatori o per sfuggire alla sorveglianza delle polizie (è il caso delle donne kamikaze o degli uomini travestiti da donne). Benslama riprende la discussione velo si/ velo no e dice che, dal punto di vista della teologia islamica, il velo non fa segno ma copre qualcosa che fa troppo segno, cioè il corpo della donna. Il corpo della donna va velato perché non si segnali troppo. Il corpo della donna fa “macchia” e la macchia va quindi dissimulata. Tuttavia, sempre secondo la teologia islamica, questa funzione di macchia si accosta alla funzione della verità e costituisce, per l’uomo, una rivelazione. Tutto questo si è ormai, dice Benslama, rovesciato nella diffidenza verso la donna e per questo bisogna velarla perché, direi, proprio come la verità, non faccia macchia. Quest’accostamento tra la donna, la funzione della macchia e la funzione della verità nella teologia islamica mi è sembrato molto importante perché dà alla donna un posto e una dignità che non hanno niente a che vedere col delirio jaidista.

Jacques Hassoun, psicanalista, si interroga invece sul genere del termine: come mai si dice “la “virilità? La questione è poco affrontata dai dizionari dove si fa valere l’etimo, il latino “vir” che è anche il prefisso di “virtus” la forza necessaria ad affrontare le difficoltà per raggiungere uno scopo. Al centro delle preoccupazioni degli uomini sono la virilità e la capacità di generare ma non il diventare padri -questione simbolica molto più complessa appiattita oggi sulla capacità generativa reale anche a causa dell’applicazione delle nuove tecnologie mediche alla procreazione (PMA); vale a dire cioè che l’attenzione è portata più su una questione biologico-naturale, dunque reale, che su una funzione simbolica.

L’idealizzazione della virilità, intesa come forza imbattibile e assoluta, va invece in direzione opposta al desiderio perché esso nasce dalla mancanza e dunque dalla castrazione. L’idealizzazione della virilità è contro il desiderio di un uomo per una donna. In questo senso, cioè contro il desiderio per la donna, sembra andare tutta la corrente deteriore dell’Islamismo oggi.

È dunque la virilità ferita, privata del suo valore simbolico, del suo posto e funzione, che produce crimini, vendetta e violenza? È una virilità ridotta al suo reale, a un organo, a qualcosa non che significa (e che rinvia dunque a una pluralità di significazioni) ma fa solo segno: c’è un organo, c’è un pene dunque ci sarebbe un uomo.

Quest’equivalenza produce un “effetto banda” vale a dire un’adesione alle prediche degli apprendisti dittatori che incitano al combattimento e alle virtù dell’eroismo e della virilità.

Non è forse un effetto simile a quello che si produce da noi negli stadi? O nelle bande giovanili? O nei quasi-bambini che aggrediscono i loro coetanei nei quartieri degradati di Napoli? Con la differenza che nei paesi islamici il tentativo è di fare di queste bande ciò che regola una comunità, una regola che sarebbe garantita dalla religione e dalla tradizione. Tutto questo mi sembra una proliferazione d’immaginario, disordinata e caotica, che prende tanto più piede quanto più l’apparato simbolico non risponde. Questo tratto, fragilità del simbolico e proliferazione dell’immaginario a partire dal reale, accomuna, con le dovute differenze, l’Occidente e l’Islam così come sono oggi. È una somiglianza che potremmo definire effetto della globalizzazione e che mi sembra, se non più grave, quantomeno altrettanto urgente del conflitto e della contrapposizione tra mondi e culture diversi per cui dobbiamo trovare soluzioni sostenibili e non banalmente razziste da un lato e integraliste dall’altro. Soluzioni vecchie in cui ci rifugiamo per molti umani motivi, ma inutili, inefficaci e per giunta dolorose.

LA VIRILITA’ NEll’ISLAM*
di Fethi Benslama e Nadia Tanzi
Poiesis edizioni 2018

L’Intrusa

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Quando, per una ragione o per l’altra – film, mostra, teatro, un amico appena arrivato- un pezzo di Napoli sbarca a Milano, osservo curiosa e intenerita il suo impatto sulla gente. Anche se ormai Totò, Eduardo, la nuova cinematografia, la tv hanno reso familiare la cantilena dolce e a tratti aspra e aggressiva del napoletano, quel dialetto fa buco perchè racconta un mondo che resta diverso, malgrado sia immerso nel mondo universale delle merci. Napoli ci sorprende come un paese straniero, se è ben raccontata.

Così è successo per il film di Leonardo Di Costanzo, L’intrusa, presentato di recente dallo stesso regista e dal critico Paolo Mereghetti al cinema Anteo. Un regista schivo e avaro di parole per lasciare, come ha detto, agli spettatori la sorpresa contenuta in quello scampolo di periferia di Napoli che fa da scenario al film.

L’intrusa è la giovane moglie di un camorrista assassino che si rifugia – e il marito con lei ma resta ambiguo se ci sia o meno un patto fra di loro – in una ex masseria diventata un luogo di accoglienza, di gioco e creatività per i bambini del quartiere e gestito con l’obiettivo di creare legami civili, gentili, rispettosi, umani insomma, fra i bambini, tutti i bambini della zona, senza esclusioni. Questo nobile progetto, -che procede come in una corsa a ostacoli, precario come Mister Jones, il surreale montaggio in ferraglia che si muove su ruote di vecchie biciclette, costruito dalla combriccola di operatori e bambini per la festa finale- si interrompe con l’arrivo dell’intrusa e dei suoi due bambini, un neonato e una bimba di circa nove anni dotata del piglio, della sfrontatezza e dei saperi adulti che tanti bambini dei « quartieri » o delle periferie hanno a Napoli ; al tempo stesso però intrisa di ingenuità e di voglia di gioco, come qualsiasi bambina.

La comunità respinge questo piccolo nucleo familiare, arrogante e fragile, che pure in un primo momento era stato accolto, dopo che la polizia fa irruzione per arrestare l’assassino che essa nascondeva, all’insaputa di tutti. Le mamme portano via i loro bambini, la scuola non invia più i propri alunni, la struttura si svuota.

Il finale sarà agro-dolce ma lo taccio per non guastare la visione a chi mi legge.

Tutti i dialoghi sono sottotitolati perché gli attori parlano in napoletano: non il napoletano scandito della tv o quello un po’ italianizzato alla Troisi, per intenderci, ma il dialetto (la lingua?) che usano correntemente nella realtà: affrettato, precipitoso, urgente, ricco di sonorità. E incomprensibile per i più. I sottotitoli in italiano, come nei film in lingua straniera, creano un effetto di distanza e di simpatia al tempo stesso per quel piccolo universo, per i protagonisti, straordinari attori presi dalla strada e plasmati egregiamente dal regista.

La responsabile della struttura, la sola che parli sempre in italiano, è un personaggio integro, mosso da un’istanza civilizzatrice e morale, in contrasto con le contraddizioni, la varietà, l’imprevedibilità di tutti gli altri, sopratutto della giovane intrusa e della sua bambina. Loro sono la Napoli dei quartieri, un’altalena di rabbia e voglia di integrazione, arroganza e dignità, prepotenza e auto-esclusione, sincerità e inganno.

Durante la presentazione è stato detto che il film, neorelista, ricordava la poetica dei fratelli Dardenne. Infatti è stato premiato al festival di Cannes: a giudicare dal numero dei turisti che affollano la città in ogni stagione, i francesi amano Napoli e la sua fantasiosa creatività.

Il film contiene momenti di pura poesia come la scena, girata di notte, in cui la bambina accompagna la madre, cingendole la vita con aria protettiva, a scaldare di nascosto il latte per il suo piccolo piangente e affamato. Un rapporto capovolto tra madre e figlia condito a tratti da una specie di pietas precoce e consapevole.

E’ il racconto di un frammento di Napoli oggi, una poesia senza fronzoli che racconta come stanno le cose: la malavita mescolata alla vita comune, la fame che non rispetta la proprietà privata, la dignità di chi non ha niente da perdere, la menzogna di chi crede di non avere scelta. E la generosità, la cordialità, il gusto del vivere. C’è anche il mondo perbene e razzista, la ( piccola) borghesia che non vuole farsi contaminare dalla parentela mafiosa, foss’anche di un bambino.

Paradossalmente questa presa di distanza dalla delinquenza (della scuola, delle famiglie degli alunni, di qualche operatore) mostra un altro volto di Napoli: non più straniera, nè generosa, nè aperta ma ottusa e paranoica come ogni metropoli. Questo è il punto di torsione che il registra ci mostra: Napoli non può reggere a lungo il cartellone dell’ umanità se il mondo intorno è cosi mutato. Resta però l’estraneità della lingua, viva e vitale, parlata dalla gente, a differenza di altri dialetti. Basterà a preservere l’esistenza di questo angolo di umanità? Nel film, intanto, la sua musicalità fa da sfondo e da colonna sonora.

 

PROCREAZIONE 2017

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Dopo aver letto il bell’articolo di Silvia Vegetti “I figli del futuro” pubblicato su questo sito e pronunciato in occasione del 71° compleanno della Casa della cultura, ho ritenuto che il suo discorso andasse rilanciato e commentato. Sul tema: sessualità/ procreazione/tecnologie della riproduzione dovrebbe infatti riaccendersi il dibattito, come era successo a cavallo del Duemila, quando all’interno del movimento delle donne la questione era viva anche se non quanto, secondo me, sarebbe stato necessario. Il tempo trascorso tra la conquista del diritto all’aborto e l’uso e abuso delle tecniche mediche di procreazione (non dimentichiamo che in Italia, seppure paese cattolico, tutto era consentito, dalla semplice inseminazione omologa all’impianto di embrioni in donne sessantenni) era stato relativamente breve; la conquista del diritto all’aborto era troppo recente e non poteva essere messa in pericolo da distinguo che sembravano troppo sottili (ad esempio dicendo “no” alle tecniche di PMA – Procreazione medicalmente assistita- e si, invece, all’interruzione di gravidanza). Non attaccare la PMA era una cautela politica. D’altra parte le donne erano travolte dalle promesse di una medicina che sembrava avere il potere di esaudire ogni desiderio di maternità. La maternità negata a una donna, quando la desidera o la domanda (per brevità non faccio qui distinguo tra la domanda e desiderio, pure necessari e per i quali rimando al mio libro A ognuno il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione, Pratiche Saggiatore Milano 2000) può risultare una cosa insopportabile e scatenare la ricerca “a ogni costo” del bambino o dello stato di gravidanza. Per queste ragioni la mia posizione, che era problematica nei confronti delle tecno-scienze applicate alla procreazione, all’epoca non aveva trovato molte alleanze e convergenze “politiche” per la ragione detta prima, cioè per il timore che fosse messo in discussione il diritto ad abortire. In compenso il mio libro aveva avuto molti lettori, e soprattutto lettrici, segno che toccava una corda sensibile, sebbene inesplorata.

Si stava producendo una mutazione epocale, silenziosamente e con la complicità delle donne più politicizzate che, comprensibilmente, non potevano rischiare di rimettere in questione il diritto inalienabile delle donne di decidere del proprio corpo. Ero consapevole della posta in gioco ma questo non poteva impedirmi di riflettere sulla disgiunzione tra sessualità e procreazione, e le sue conseguenze, messa in atto dalle PMA. I bambini ormai non avevano più bisogno della camera da letto per essere concepiti. Si stava verificando un cambiamento inedito nella storia dell’umanità grazie alla convergenza tra la cauzione scientifica, la domanda di bambino da parte delle donne e il declino del principio paterno.

Quale uomo, anche solo cinquant’anni prima, avrebbe accettato di masturbarsi nella stanza asettica di una clinica per produrre sperma iniettabile nella vagina di una partner resistente alla fecondazione vecchia maniera? Forse nessuno. I tempi non erano culturalmente maturi. L’inseminazione “artificiale” era però già praticata con successo sugli animali fin dall’inizio del Novecento ma a nessuno era venuto in mente di proporla per gli esseri umani.

Negli anni Novanta, invece, le pratiche di PMA erano esplose, in Italia in particolare,senza incontrare alcun limite.

Il clima era confuso ed eccitato e si erano formati degli schieramenti divisi, grossolanamente, tra progressisti e conservatori, tra contrari alla separazione tra sessualità e procreazione (conservatori o cattolici) e favorevoli al “progresso”, in questo caso il progresso scientifico. I due campi facevano riferimento rispettivamente alla Chiesa e a posizioni politiche di destra oppure al pensiero laico di sinistra.

Si trattava di una semplificazione, comprensibile per la ragioni che dicevo prima (e per altre che non ho lo spazio di proporre) e che l’articolo di Silvia Vegetti ha il merito di rimettere in questione.

In realtà le cose erano e sono molto più complesse come sempre più costatiamo oggi che le possibilità aperte dal progresso della scienza sono ancora aumentate e ci siamo quasi abituati a vivere sulla linea di confine tra ciò che abbiamo sempre considerato umano e ciò che ormai definiamo il “post-umano”: si donano gli organi, c’è chi vive grazie all’espianto di una parte del corpo di un morto, quasi tutti siamo portatori di piccole o grandi protesi e questo è solo l’inizio, come annuncia la tecno-medicina.

La scissione tra sessualità e procreazione, che ci aveva sorpreso negli anni Novanta, è ormai, silenziosamente, culturalmente acquisita. Anche se in Italia, paese cattolico, è stata approvata una legge che permette solo la fecondazione omologa basta attraversare la frontiera per accedere, nei paesi confinanti, ad altre forme di fecondazione. I figli del caso, o del destino, sono sempre meno, i bambini sono sempre più programmati, “fabbricati” su richiesta . Non sono più il risultato di un desiderio che si è acceso, non sono figli di un incontro voluto “dal buon Dio” (come si diceva una volta), non sono mandati dalla Provvidenza. In altri termini: si fanno senza un terzo simbolico. Senza fate, senza spiriti, senza streghe, senza angeli né pozioni miracolose. Senza l’immaginario che ha sempre accompagnato la gravidanza e il suo mistero, la nascita e la sua magia.

Oggi, dopo circa vent’anni, la questione della nascita – uno dei tre grandi enigmi che tormentano gli umani- ritorna alla ribalta. Questa volta non più per farci interrogare sulla tecno-medicina applicata alla procreazione, ma per mettere in questione la pratica della maternità surrogata o meglio dell’utero in affitto, come viene, più crudamente, definita.

In realtà, che una donna fertile porti in grembo un bambino al posto di una donna infertile, è una pratica antica come il mondo. La gestazione per altre è sempre esistita: un’amica, una sorella, un’ancella o una serva si prestavano in passato a farsi fecondare dal compagno della donna sterile per poi cedere o cogestire il nascituro. Era però necessario comunque un atto sessuale. Oggi basta inseminare artificialmente una donna che accetti per denaro, raramente per generosità e per amore, di portare avanti una gravidanza al posto di un’altra. L’atto sessuale è escluso e la funzione dell’uomo è ridotta a quella di produttore di sperma. Il suo desiderio sessuale non è necessario né tanto meno gli viene chiesto di assumere una paternità. A meno che non sia lui a domandarlo, come capita nelle coppie omosessuali Il bambino “fabbricato”, insomma, non appartiene alla donna che lo partorisce; la gravidanza, come si dice pudicamente, è “per altri “.

Le polemiche suscitate da questa pratica riguardano la commercializzazione del corpo delle donne povere ridotte a incubatrici- battaglia sacrosanta e indiscutibile- ma non la “fabbricazione” del bambino fuori-sesso e fuori desiderio. Certo, non tocca solo alle donne difendere il legame sessualità-procreazione, la questione ci riguarda tutti, uomini e donne.

La mutazione epocale che scinde sessualità e procreazione è passata, silenziosamente, nel discorso dominante oggi, cioè nel discorso scientifico. I sintomi di sterilità o infertilità nell’uomo e nella donna parlano però della difficile assimilazione di questa mutazione. La riduzione dell’uomo alla sua funzione spermatica nella”maternità surrogata” apparentemente sembra non allarmare nessuno, né gli uomini né le donne; solo gli psicoanalisti, come Silvia Vegetti testimonia, sono allertati per questa ennesima manifestazione di “evaporazione” del padre, dell’indebolimento della sua funzione simbolica una volta ridotto a puro reale.

“L’affitto” dell’utero, la commercializzazione della vita suscita proteste, certo, ma non per il fatto che un bambino non nasca più dal desiderio e dal godimento di un uomo e di una donna, dal loro amore. Le proteste riguardano la “profanazione” del corpo della donna, la sua riduzione a “incubatrice”. Sacrosanto, ma non è l’unica critica da fare. C’è da segnalare, tra l’altro,la scarsa attenzione che la pratica della maternità surrogata dimostra per il legame madre – bambino durante la gestazione.

Come in ogni impresa commerciale conta il prodotto, il bambino fatto e finito. Non importa se i nove mesi della gravidanza siano i più importanti della vita di un essere umano anche se siamo ancora ignoranti su quel lontano periodo dell’esistenza e non siamo ancora in grado di valutarne il peso. Conosciamo la reattività del feto ai suoni, ai rumori, alle parole che vengono dall’esterno, alla loro prosodia, agli umori della madre, ai suoi malesseri e alle sue gioie. Di più non sappiamo ancora. Sappiamo però abbastanza da essere eticamente obbligati a tenerne conto, a trattare i nostri bambini come soggetti e non come merci acquistabili al mercato. Da qui la domanda: i bambini sono o no soggetti di diritto ancor prima di nascere? Nota giustamente Silvia Vegetti che il “Diritto, frammentato in singole, particolari sentenze, insegue le situazioni di fatto, avalla l’esistente, cerca di riparare precedenti errori, è incapace di governare movimenti mentali e sociali che procedono in modo inarrestabile”.

Che cos’è un feto? È irrappresentabile prima che assomigli a un neonato. In più, non è da molto che possiamo vederne le “fotografie”, che peraltro sono tutte simili fra loro.

Winnicott assicura che l’immaginario sul feto lo rappresenta più come un ammasso di materiale organico che come un essere umano.

Il nostro immaginario non gioca perciò a favore del riconoscimento del feto come un soggetto di diritto, anche se lo sappiamo ricettivo all’ambiente esterno e alla donna che lo accoglie nel suo ventre. Anche la battaglia contro la maternità surrogata non fa valere il diritto del futuro bambino. Perché?

Perché le donne, che in genere amano i bambini, non fanno valere l’unicità dell’esperienza di quei fondamentali, primi nove mesi di vita? Forse proprio perché il feto è irrappresentabile se non come ammasso organico all’interno del corpo della madre. Le donne considerano il bambino che è nel grembo materno come una parte inalienabile del proprio corpo, una parte di sé. Questo può servire a spiegare l'”impennata” delle donne, il risentimento e la protesta per la pratica della “gestazione per altri” come viene pudicamente definita – che peraltro in Italia non è consentita tanto che Nicky Vendola ha dovuto farsi fare il bambino in America- mentre molte altre pratiche, più ardite e pericolose (e che convergono versa una meta comune, l’eugenismo secondo la tesi strenuamente sostenuta dal biologo Jacques Testart), avanzano e si perfezionano nel silenzio sociale. La maternità surrogata è lesiva di un diritto delle donne, certamente, ma è lesiva anche del diritto del bambino.

Quale diritto è leso? Giustamente le donne attribuiscono una funzione identitaria al proprio apparato riproduttivo, riassumibile nel significante “utero”.

L’utero è stato un significante importante nella storia del movimento delle donne (ricordate:”l’utero è mio e lo gestisco io”?), è qualcosa che “si ha”, è il potere interno e nascosto di produrre bambini. È ciò che iscrive simbolicamente le donne nel discorso sociale. Ogni donna è, potenzialmente, portatrice di un fallo-bambino e questo le assegna da subito un posto nel simbolico, insieme al diritto di godere del bambino che verrà. Di occuparsene, di educarlo e di goderne in tutta legittimità. La maternità surrogata erode questo diritto” naturale”, strappa alle donne il “frutto” del loro ventre, le priva di un tratto d’identificazione costitutivo della loro identità. Ecco perché la sorte delle povere donne indiane costrette dalla fame a partorire bambini per le ricche coppie americane, ci riguarda tutte e tutti. A ogni donna, se lo vuole, è promesso un bambino. Ognuna ha diritto a questa promessa, che si realizzi o no. La maternità surrogata la smentisce con violenza privando le donne, tutte le donne, di un tratto fondante della loro identità. Per questo le donne sono tutte unanimi (o quasi) contro l’utero in affitto.

La maternità però non esaurisce la donna né il suo desiderio. Il bambino è un dono che, auspicabilmente, viene da un partner amato e che ci desidera. Il concepimento è, innanzitutto, un affare di desiderio tra un uomo e una donna. Questo ci distingue dalle bestie e ci caratterizza come umani: non possiamo permettere che siano applicate al nascere delle pratiche veterinarie. E questo principio fondamentale credo possa applicarsi sia alla PMA che alla maternità surrogata.

 

Oltre le storie: intervista a Marisa Fiumanò

PAROLE FERTILI

Oggi per la rubrica #oltrelestorie incontriamo Marisa Fiumanò, psicanalista e autrice del libro “A ognuna il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione” edito da Nuove Pratiche Editrice, che tratta di procreazione assistita osservata da un punto di vista psicanalitico.

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Ciao Marisa, le tue ricerche e i tuoi studi si sono concentrati sulla sessualità femminile e sul rapporto fra psicoanalisi e nuove tecnologie. Come è nata questa tua particolare area di interesse?

È stata una conseguenza naturale della domanda che ha guidato la mia prima analisi, una domanda sul “che vuole una donna?”. All’epoca, ero molto giovane, mi chiedevo se la femminilità fosse compatibile con la maternità, col desiderio di bambino, etc. Domande di tutte le donne, esplicitate o meno, indagate o no, tradotte o meno in scelte di vita. Nel mio caso si sono tradotte anche in una professione, una scelta in un certo senso obbligata, un destino forse. Ci sono altri modi per cercare risposte alle questioni fondamentali: poesia, letteratura, pittura, le arti insomma. Io ho lavorato sulle parole, sulla loro materialità, sul loro suono, sul discorso che tessevano, una volta pronunciate dal divano. Prima le mie parole, poi quelle delle mie pazienti e poi di nuovo le mie (nella mia seconda, fortunatissima, analisi) e poi ancora le loro. Ci sono poi le parole dei miei supervisori, con cui ho condiviso i punti di impasse delle cure, quelle dei miei colleghi, coinvolti, come me, nella stessa ricerca.  Le “nuove tecnologie” o meglio la tecno-medicina applicata alla sessualità, mi colpiva perché sollecitava un desiderio intimo, profondo di tante donne, anche se, va detto, non di tutte: il desiderio di un bambino. La tecno-medicina non promette, fornisce il bambino, tendenzialmente escludendo la funzione del padre. Intendo la sua funzione simbolica perché lo riduce tendenzialmente a una funzione spermatica. Questo ai bambini non fa affatto bene; e alle donne neppure. Agli uomini non ne parliamo. La tecno-medicina esce potenziata dalle sue performances procreative, gli uomini e le donne ne escono mortificati.  Non sto dicendo che dobbiamo essere contro il ricorso alla tecno-scienza ma dobbiamo sapere che questo ha un prezzo. Nel mio libro ne parlo a lungo e per questo qualcuno mi ha accusato di oscurantismo. Avere dubbi, sollevare domande, avvertire, non è consentito. La fiducia nella tecno-medicina deve essere assoluta perché, effettivamente, fa miracoli. Noi psicoanalisti non facciamo miracoli anche se, effettivamente, a volte guariamo sintomi enormi. In realtà i casi d’infertilità che ho seguito erano quelli risultati resistenti anche alla medicina. La psicoanalisi era l’ultima spiaggia, l’ultimo tentativo dopo altri, considerati più efficaci.

Negli anni ti sei occupata di procreazione assistita e della sua regolamentazione giuridica, in collaborazione con ginecologhe, giuriste, psicologhe e assistenti sociali. Ritieni che siano stati fatti passi in avanti per quanto riguarda la PMA?

Il lavoro fatto con le altre professioniste è stata una bella esperienza. Non partivamo da posizioni pregiudiziali ma il tema appassionava tutte. La ricerca era a tutto campo. Va detto che in quegli anni, (intorno al Duemila), in Italia almeno, non c’era nessuna regolamentazione sulla PMA e tutti gli esperimenti erano possibili. Ho detto bene: esperimenti perché anche la più semplice delle pratiche fecondative comporta come minimo dei bombardamenti ormonali delle donne. All’epoca però gli esperimenti erano anche altri e spesso oggetto di pubblicità mediatica. Penso alle nonne-mamme, agli embrioni tenuti in vita per settimane in uteri sezionati da cadaveri e così via. Non c’erano criteri condivisi per approvare o condannare tutto questo. La cultura non era attrezzata per integrarli o rigettarli. Ora, dopo più di dieci anni, all’incirca, di silenzio, la questione si ripropone con il dibattito sulla “maternità surrogata”, con la polemica  se le donne possano o meno funzionare da incubatrici naturali di figli altrui (soprattutto di coppie gay) ; se siano libere  o meno di disporre del proprio corpo, se questa non sia una nuova forma di schiavitù dissimulata. Pochi s’interrogano sul bambino: cosa succede a un bambino nei nove mesi della gravidanza ? Quali. imprescindibili, legami stabilisce con la madre? Come peserà sulla sua vita la programmazione della sua nascita? In Italia, come sappiamo, la legislazione è oggi molto restrittiva ma si tratta dell’eccezione di un paese cattolico. Le frontiere sono facili da attraversare.

Nel tuo libro “A ognuna il suo bambino. Infertilità, psicanalisi e medicina della procreazione” affronti i problemi sorti intorno alle tecniche della procreazione assistita dal punto di vista della psicoanalisi. Perché è importante indagare sull’ infertilità da un punto di vista psicanalitico?

Dopo che la nostra volenterosa e composita equipe di lavoro si è dissolta, pensavo che mi sarei occupata ancora di PMA  lavorando con i bambini nati da queste tecniche. Mi sbagliavo: innanzitutto perché i genitori sono comprensibilmente restii a far sapere  come sono nati i loro bambini, poi perché  non ci sono patologie specifiche dei figli della PMA. Almeno a mia conoscenza. Capita di averli sul divano e la modalità della loro nascita pesa sul loro discorso ma questo non ne fa dei soggetti con caratteristiche particolari. Quanto alle cause psichiche dell’infertilità: l’80% delle infertilità, dicono le statistiche, ha radici psicologiche. È inutile bombardare di ormoni una signora che non “può” avere bambini perché non ha “diritto” ad averne come sua madre. Oppure perché non vuole (inconsciamente) averne dal suo partner. Sono esempi di “impossibilità” di cui le donne non sanno niente ma che agiscono bloccando la fecondazione. Ci sono infertilità di coppia che si sbloccano, per uno o entrambi i partner, quando si formano delle nuove coppie, ad esempio.

 

Come vivono gli uomini e i futuri padri il difficile percorso aMarisa Fiumanò librolla ricerca di un figlio?

In genere gli uomini assecondano il desiderio della donna per amore, per quieto vivere, per comodità. Per loro “avere il bambino” non fornisce un’identità. Spesso cominciano col voler far contente le donne, sottraendosi magari ad un’accusa di impotenza, e finiscono con l’essere dei produttori di sperma che assistono silenziosi, dietro il lettino del ginecologo, il vero inseminatore, alla fecondazione della propria donna. A me è capitato di incontrarli quasi sfiniti, magari alla fine di una serie di tentativi, accompagnati da donne sempre più ostinate e ancora pronte ad affrontare  qualsiasi difficoltà pur di ottenere una gravidanza. Per loro venire da me era quasi un tentativo di sbarazzarsi di una domanda insistente e ingombrante, che non sapevano più come trattare. Succede anche che alcuni uomini si mettano in una posizione femminile, che si identifichino con una donna. Non é una possibilità da escludere. Certamente è così nelle coppie gay alla ricerca di un bambino via maternità surrogata. In quel caso almeno uno dei due partner deve essere in posizione femminile. Se si domanda un bambino non si può che essere in una posizione femminile, anche se si è, biologicamente, uomini. In generale, comunque, gli uomini “adottano” il bambino una volta che è nato. La paternità è sempre, innanzitutto, simbolica. Per una donna il bambino passa dal corpo; per un tempo, il tempo della gravidanza, è un pezzo di corpo che rende sicure, potenti, soddisfatte, senza buchi. Con le dovute eccezioni, s’intende.

Pubblicato il 18 aprile su ParoleFertili

 

IL MASOCHISMO SECONDO TOTÒ

Tratto dal mio ultimo libro Masochismi ordinari, Mimesis Edizioni

Una definizione di masochismo alla portata di tutti è farsi male da soli. Se qualcuno si auto-danneggia, fisicamente o psichicamente, gli diciamo scherzosamente: Allora sei masochista! Un’affermazione che suona come una battuta perché la figura del masochista può essere assai comica. Masochista è chi prende le torte in faccia, chi inciampa nei propri piedi, chi non prevede una porta girevole, chi si lascia insultare senza reagire, come nelle vecchie comiche.

Ecco come interpreta il masochismo il genio di un grande comico, Antonio De Curtis, in arte Totò. Mettendo in scena una sorta di sdoppiamento, che è una molla della sua comicità, Totò racconta ridendo a un amico che un tizio l’aveva schiaffeggiato e, nel prendersela con lui, lo aveva chiamato ripetutamente: Pasquale. Alla reazione dell’amico: Ma come!? Ti sei fatto schiaffeggiare così, senza reagire? Totò aveva replicato ridendo: Ma scusa, mica sono io Pasquale! (1)

Lui non era Pasquale, dunque rideva dell’errore di persona da parte del suo aggressore. Era inessenziale che provasse dolore nell’essere schiaffeggiato. Anzi, quel dolore non lo provava per nulla perché lui non era Pasquale; con l’eventuale masochismo di Pasquale, col suo essere vittima inerme di un’aggressione, lui non c’entrava proprio niente. Tanto che poteva riderne.

Totò opera una scissione tra il nome e il corpo. Lui non si chiama Pasquale, la sua identità non corrisponde a quel nome, dunque non può né offendersi né farsi male.

A un primo livello di lettura troviamo la comicità provocata dal fatto che lui si lascia schiaffeggiare senza reagire. Un secondo livello di lettura, più raffinato, dice che il corpo umano si abbina a un soggetto parlante che ha un nome e che con quel nome s’identifica: non è solo un corpo animale. Dobbiamo poterci attribuire un dolore per soffrirne e possiamo attribuircelo se sappiamo chi siamo.

Il secondo livello non implica solo la comicità ma anche l’ironia e l’arguzia, chiama in causa la lingua e il suo potere sul corpo. La barzelletta di Totò suggerisce anche che un modo di sfuggire al masochismo c’è e passa attraverso il linguaggio. Se la mia identità si associa a un nome, che non è Pasquale, anche il mio corpo la segue ed io non potrò soffrire al posto di un altro, né per un altro.

La comicità produce il riso perché mette in scena qualche cosa che ci riguarda. Ridere significa ammettere qualche cosa d’inammissibile e d’inconscio che, come nella gag di Totò, è attribuita ad altri. Ridendo del masochismo di un altro ammettiamo anche il nostro, ci identifichiamo con il prossimo.

Il masochismo che ci fa ridere è in genere un masochismo da incompetenza, di chi ci sembra incapace, poco adatto alla vita, un masochismo comune, generalizzabile. Questo tipo di masochismo produce un effetto di simpatia dovuta a un’identificazione inconscia: come il comico o il clown anche noi ci riconosciamo incompetenti. Incompetenti e inadeguati.

Chi potrebbe ritenersi del tutto adeguato a vivere? Prima dell’esaltazione del giovanilismo – come avviene oggi – questa competenza era attribuita agli anziani, a chi aveva vissuto abbastanza per accumulare un sapere sul come si vive. Nella nostra epoca quest’attribuzione di sapere e autorità è più difficile e a ognuno resta il proprio gomitolo di vita da sbrogliare senza nessun sapere che faccia da bussola alla propria ignoranza. L’incompetenza a vivere disegna una zona d’ombra della condizione umana che ci rende tutti un po’ masochisti. Masochista non è solo chi si fa del male ma chi si trova a vivere gettato nel mondo. Senza la risorsa della saggezza degli anziani, immersi in legami umani slabbrati e senza regole, l’antico, infantile sentimento d’impotenza risorge e siamo di nuovo bambini, impotenti e senza soccorso.

1)   “Pasquale” gag di TOTÒ  a “Studio uno” RAI del 1966

PARANOIA

Alla luce dell’esito delle elezioni americane il libro di cui parlerò, “Paranoie” di Fabrizio Gambini, risulta estremamente attuale. La vittoria di Trump non è forse dovuta anche alla paranoia sociale infiltrante, contagiosa, diffusa e che lui ha sollecitato? A cui ha promesso soddisfazione e rimedi adeguati in una specie di elogio della razza, americana e bianca. Chi mi legge giudicherà dal seguito se ho torto o ragione.

Ho trovato questo saggio appassionante per più motivi. Intanto perché esplora luoghi – i servizi di salute mentale – e riflette su soggetti – gli psichiatri e i loro pazienti – che ho frequentato quando ero molto giovane, tirocinante nei Servizi Psichiatrici delle Università di Roma prima e di Milano poi. Li’ mi allenavo ad apprendere il mestiere di psicoanalista, come era consueto fare per chi si voleva lacaniano: un tirocinio in psichiatria metteva l’aspirante analista a confronto con le psicosi paranoiche e la paranoia è, secondo Lacan, l’humus che alimenta il nostro “io”, l’identità che ci distingue e ci contrappone all’altro.

Ho fatto quindi un salto all’indietro nel tempo ripensando a quei primi anni di formazione e, al tempo stesso, mi sono interrogata sulla mia pratica attuale, perché le paranoie non si incontrano solo in istituzione ma sempre più spesso negli studi privati e, ancora di più, nei luoghi di consultazione, più accessibili degli studi privati, che alcuni psicoanalisti mettono in funzione. Come succede, ad esempio, nel consultorio dell’ALI a Milano, Edipo in città, dove chi si trova in difficoltà può trovare un orientamento anche se non ha formulato una vera e propria domanda d’analisi.

Ho letto il libro di Gambini tutto d’un fiato, durante un week-end, e, grazie a questo tipo di lettura, ho potuto apprezzarne il ritmo, la progressione delle argomentazioni, la costruzione, a tratti quasi pedagogica – lo dico con ammirazione perché non amo il linguaggio irrigidito del “lacanese” – delle tesi finali.

Gli interlocutori convocati sono molteplici: psicoanalisti, psichiatri, operatori, pazienti. Aggiungerei i comuni cittadini, potenziali elettori. Ho sempre pensato che un obiettivo peculiare della sinistra sia (o dovrebbe essere) quello di evitare la paranoia sociale e favorire piuttosto la tolleranza, il legame, l’accoglienza dello straniero ( e della straniera per antonomasia, cioè della donna). Se la paranoia vince la sinistra perde. Come negli States.

Il saggio dedica ai pazienti una quota notevole di simpatia intesa come la disposizione dello psicoanalista a essere preso, con il suo paziente, nel transfert e che in gergo psicoanalitico si chiama controtransfert. Che cosa significa?

Gambini dimostra con il suo stile, con il suo modo di presentare o alludere a un caso, che non si tratta solo di farsi coinvolgere nella domanda o di alleviare l’angoscia di chi ci sceglie come interlocutori, ma di una disponibilità preliminare, di una scelta: quella di chi assume una posizione di ascolto “benevolo”, privo di pregiudizi e sopratutto, cosa rara in una psichiatria dominata dai DSM (il manuale la cui prima edizione italiana è del 1980 e che è arrivato oggi alla V edizione), privo di ansia diagnostica.

Tanto per cominciare al rovescio, vado all’ultima parte del libro: il capitolo finale è dedicato alla psichiatria istituzionale ma parte da una domanda molto più generale che riguarda il nostro sociale e che dà per assodato che viviamo ormai in una società senza padri, senza che la funzione del padre venga occupata, in una società del tutto orizzontale come é stato spesso affermato in questi ultimi tempi. Gambini aggiunge qualcos’altro quando si chiede:

é possibile una società senza padri che non esiti nell’appello ad un leader e che non sia diffusamente ed omogeneamente paranoica? (p.153).

Vale a dire: paranoia e totalitarismo vanno a braccetto, anche se il totalitarismo oggi può presentarsi sotto forme nuove. Qui l’attualità del libro risalta: la vittoria di Trump e gli argomenti della sua campagna elettorale sono una conferma di questa tesi. Gambini dà per scontati sia una tendenza psicotizzante nel nostro sociale (senza padri), sia una paranoia sociale diffusa e il rischio del totalitarismo.

In questo quadro, che definirei senz’altro politico e non solo clinico, l’Autore inserisce il proprio lavoro con la follia. E fa una denuncia e avanza una tesi: che ci sia il rischio che la follia venga “fabbricata” in ambito istituzionale. Tutto il libro è percorso da una critica costante, non aspra ma puntuale e senza sconti, alle modalità di presa in carico del paziente detto psichiatrico.

Gambini fa intendere al lettore che nel suo passato di psichiatra c’è stata la partecipazione al movimento di Psichiatria Democratica che, lo afferma con forza, non negava affatto l’esistenza della malattia mentale ma puntava il dito contro il funzionamento dell’istituzione manicomiale:

 … ho finito, e ovviamente lo dico con un po’ di tristezza, per guardare ai Dipartimenti di salute mentale ( DSM) nello stesso modo in cui ho guardato al manicomio e non ho alcuna esitazione a dire che i DSM sono la nuova fabbrica della follia. (pp.154-55)

Da qui una serie di proposte a psichiatri ed operatori sulla conduzione della cura: la somministrazione di farmaci che tenga presente gli effetti diversificati per ciascun soggetto, la diagnosi fondata sull’ascolto e non sul fenomeno-malattia, un’attenzione al corpo del paziente che non sia di ordine medico per cui avere la psicosi sia l’equivalente dell’avere la varicella ma che tenga conto del soggetto che abita un corpo e che é un soggetto parlante.

È un invito ad abbandonare una posizione di difesa, di supponenza o di onnipotenza da parte di chi cura, per assumere la posizione, comune a tutti noi che parliamo, a noi umani, di esseri assoggettati all’Altro e al linguaggio, insomma assoggettati alla castrazione.

Conoscendo Fabrizio Gambini posso testimoniare che questa non è solo teoria o resoconto di una esperienza clinica, che pure sono preziose, ma corrisponde ad uno stile, ad un modo di essere e lavorare che lo caratterizzano come uomo, come psicoanalista e come psichiatra. Di questo stile fanno parte una certa, benevola ironia e la tolleranza verso se stesso e verso gli altri.

Detto questo si potrebbe credere che questo sia solo un libro di psichiatria innestata nel sociale. Non è così. E torno all’inizio: l’Autore costruisce un percorso che spazia dalla religione, al mito, alla letteratura, alla filosofia e infine alla teoria psicoanalitica per spiegare la differenza tra credere e sapere e per porre la Paranoia dal lato del sapere e della certezza e non dal lato della credenza, come avviene invece nel caso della religione. Il sapere e la certezza sono dal lato della paranoia (e della filosofia), la credenza dal lato della religione e della nevrosi ossessiva, come d’altronde sosteneva Freud.

Una delle tesi avanzate è che in un mondo in cui la forza della religione, della credenza religiosa in un Dio unico, si allenta – e questo non è senza rapporto con la “società senza padri” di cui dicevo prima – la paranoia cresce e assume forme nuove. L’affievolirsi della credenza religiosa sarebbe quindi in stretto rapporto con il diffondersi di nuove forme di sospettosità e con la convinzione che il nostro prossimo costituisca una minaccia.

In effetti, anche se non siamo pazienti psichiatrici, non diciamo forse che nelle nostre città siamo abituati a ignorare – dunque potenzialmente a temere – lo straniero – che quasi sempre è – il nostro vicino di casa? In genere non abbiamo la certezza della sua malvagità (non siamo paranoici in senso stretto), ma siamo abitati dal sospetto che la sua disposizione nei nostri confronti non sia esattamente amichevole. Così come la nostra nei suoi. In un rapporto duale e speculare, senza terzo e perciò aggressivo.

Quando il sospetto diventa certezza abbiamo un piede nella Paranoia. Questo tipo di delirio che riguarda il confinante non è raro da incontrare anche fuori dalle istituzioni psichiatriche e non solo, come nel caso dei vicini, a livello individuale, ma sociale. I muri che vengono innalzati da alcuni paesi per difendere i confini delle nazioni dall’arrivo dei migranti, sono il segno di una progressiva paranoizzazione sociale. “Sono imparanoiato” non è forse un’espressione entrata a far parte del gergo giovanile? La lingua registra l’emergenza sociale e individuale.

Dobbiamo quindi pensare che se nel discorso che esprime il nostro sociale Dio è morto, più niente è possibile?

Gambini ritiene, e in questo dissente da Lacan, che il trionfo della religione non segni lo scacco della psicoanalisi ma che il discorso psicoanalitico sia destinato a convivere con altri discorsi. Anzi che la psicoanalisi abbia un compito particolare: parassitare gli altri discorsi…minarne la durezza, temperarli…

In effetti l’operazione di questo libro e la pratica che gli sta dietro vanno in questa direzione. Il discorso della psicoanalisi parassita il discorso psichiatrico, ne mina la durezza, lo tempera, bilancia l’assenza di credenza che ci fa correre il rischio di diventare paranoici.

Se capisco bene il senso complessivo dell’operazione di questo saggio, la psicoanalisi e il suo discorso avrebbero una funzione di mediazione e anche di difesa dalla follia. In questo senso bisognerebbe infiltrare,  direi, la presenza degli analisti negli ambiti sociali e di ricerca e ovunque un altro discorso, che sia religioso, o peggio, scientifico, tenda ad imporsi.

In conclusione, il libro testimonia dell’uso della psicoanalisi in psichiatria, delle novità che introduce e delle risorse che può mettere in campo nelle attuali “fabbriche della follia” se viene utilizzata con saggezza, competenza e passione. Ma suggerisce molto di più sul nostro mondo di normali paranoici in cui un personaggio come Donald Trump può essere eletto alla guida del più potente paese del mondo, che in maggioranza si identifica con lui e che perciò egli può, del tutto legittimamente, rappresentare.

Fabrizio Gambini, Paranoie. Tra psichiatria e psicoanalisi, Saperci fare con la psicosi, Franco Angeli 2015

LA FAMIGLIA CLAUSTROFILICA

La psicoanalisi può confondersi con la sociologia? Gli strumenti di lettura che Lacan ci ha lasciato per leggere il sociale sono spesso a rischio di contaminazione. Anche l’aforisma “L’inconscio, è il sociale” con cui ho chiamato questo blog, si presta all’accostamento tra sociologia e psicoanalisi. Tuttavia la psicoanalisi non è una sociologia perché è una scienza del singolo, del soggetto che costruisce il suo particolare discorso estraendo i significanti dalla lingua in cui è allevato e con cui dà corpo al suo mondo.

La lingua fa parte dell’indagine sociologica – nessun sociologo potrebbe occuparsi di una determinata cultura senza conoscerne la lingua- ma la sociologia non indaga sull’uso, inventivo e originale, che ciascun soggetto fa del linguaggio in cui è cresciuto. Un uso che egli non decide ma che s’inscrive in lui fin dalla nascita e, prima ancora, quando è nel ventre di sua madre.

Come psicoanalisti ci occupiamo del sociale ma non per questo facciamo sociologia, a meno di dimenticare che il nostro sapere viene dalla clinica e che solo in essa trova la sua giustificazione; nella clinica, cioè nel particolare. Ci capita di confrontare i particolari che cogliamo nella clinica con i fenomeni sociali che ci appaiono rilevanti e in parte generalizzabili e ne traiamo delle conseguenze, sempre provvisorie.

Così quando diciamo che il meccanismo che regola l’economia psichica oggi non è più la castrazione, diciamo la verità, perché lo verifichiamo nella nostra pratica, ma, quando dobbiamo poi dire che cos’è che regola l’economia psichica oggi, non sempre ci troviamo d’accordo. C’è chi parla di forclusione, come per le psicosi, chi di diniego, come per le perversioni. Un mondo di perversioni secondo alcuni, psicotizzato secondo altri. Siamo d’accordo tutti sulla prima parte dell’affermazione, cioè che la castrazione non basta più a spiegare il funzionamento dell’economia psichica oggi, ma non sulla seconda, che propone delle risposte diverse.

E’ certo comunque che la psicoanalisi è preziosa per costruire bussole di orientamento nel panorama umano che cambia con tanta rapidità.

Un libro, uscito di recente, si avventura in questo cammino, senza dubbio scivoloso, della lettura del sociale via psicoanalisi. L’autrice è Laura Pigozzi e il libro si chiama: “Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori modello.

La premessa delle tesi di Laura Pigozzi è che la famiglia non può mai essere considerata come frutto di un legame solo biologico ma sempre e soprattutto come struttura culturale. La filiazione è sempre e soprattutto psichica, non biologica e naturale, sostiene.

Questa premessa vuole contestare il mito della “vera” madre, della madre naturale, biologica.

Pigozzi vuole condannare il potere, oggi senza limiti, della madre : quella che dorme col figlio -nella sua tesi è una realtà frequente- sostituendolo a un partner adulto, in realtà soddisfa una pulsione mortifera, la propria e quella del figlio.

La pratica di dormire col figlio, che in inglese ha già un nome, una definizione, il co-sleeping, è un’esaltazione della tendenza ” naturale ” degli uomini a dormire insieme. La cultura, però, si contrappone alla natura o meglio la assume e la traduce, non può slegarsi dai codici culturali. L’esaltazione della Natura, così come della Madre biologica, produce dell’animalità, non dell’umanità.

Dalla premessa iniziale, la patogenicità della famiglia concepita come esclusivamente naturale, l’autrice sviluppa le sue tesi. Oggi tutto viene cercato “dentro” la famiglia, inclusiva e “claustrofilica”, un luogo di imbarbarimento. Essa genera dipendenza, impedisce la ricerca dell’alterità, plaude per l’eguaglianza di tutti i membri, per la confidenza e la trasparenza reciproca, favorisce un godimento di tipo incestuoso. Il figlio è considerato più importante del partner, la coppia e il suo funzionamento non sono più al centro della vita dei soggetti ma i figli sono prevalenti nell’investimento affettivo quanto nel progetto di vita. Essi diventano una specie di garanzia affettiva che non verrà a mancare, a differenza di un partner che invece può venire meno.

L’autrice fa derivare da qui la richiesta delle coppie gay di aver in adozione dei bambini che garantiscano un’affettività “sicura” e condanna la pratica della maternità surrogata che ne deriva: affittare un utero non somiglia affatto al donare un rene, l’utero non è un organo come un altro, utero e rene non sono la stessa cosa sul piano psichico. Inoltre – e qui Laura Pigozzi dà un contributo particolarmente competente visto che si occupa della voce, canta e insegna canto- come non valutare l’importanza che ha per il feto la prosodia della voce materna e di quella paterna, il fatto che quelle voci egli impari a riconoscerle molto precocemente e quindi si inscriva fin d’allora in un gruppo linguistico e culturale predefinito? C’è poca attenzione al fatto che un bambino sia un soggetto di diritto e non un oggetto narcisistico generato per soddisfare i genitori.

I bambini vengono allevati nel claustrum di genitori a tempo pieno che, quando i figli sono in età scolare, spesso non riconoscono l’autorità degli insegnanti e giudicano il loro operato.

Un interessante capitolo di questo libro è dedicato al destino dei bambini figli di separati, vale a dire la maggioranza, ormai, dei nostri bambini. L’autrice trova che il cosiddetto “affido congiunto”, se permette davvero al bambino di vivere tranquillamente in due case, non è affatto negativo, anzi può essere un arricchimento di esperienze e di mondi. Se questo avviene la famiglia cui fa riferimento il bambino non è monigenitoriale ma diventa plurigenitoriale. I genitori devono essere almeno due, cioè possibilmente più di due. Oltre a patrigni e matrigne può esserci la funzione dei nonni, degli zii, tutte figure adulte che funzionano come riferimenti plurimi.

A cosa serve questa claustrofilia accentuata, questa patologia diffusa che tende a stabilire col figlio ciò che non si trova più nel rapporto con una donna o con un uomo? Serve a evitare il rapporto con un adulto dell’altro sesso, l’assunzione di una posizione sessuata, il problema della femminilità per una donna e della mascolinità per un uomo.

Plusmaterno è un neologismo che Pigozzi crea in eco al plusgodimento di cui parla Lacan quando rilegge in chiave psichica il plusvalore marxiano;

Definiamo plusmaterno la forma in cui la funzione simbolica materna è sostitiuita da quella simbiotica, in cui un limite è sostituito dalla legge arbitraria della carne.” (109).

Un’immagine del plusmaterno è l’intimità erotizzata che si ha con i figli e che va invece riservata a un partner, non a un bambino, che annulla la sua curiosità sessuale e con essa tutte le domande, il desiderio di sapere e investigare..

L’autrice indica come un rischio di plusmaterno, di godimento incestuoso, tutte le pratiche che esaltano la maternità; fra queste anche il ritorno al parto fatto in casa gestito dalle associazioni di sacerdotesse -ostetriche.

Anche i padri possono essere nella posizione del plusmaterno. Coloro che definiamo ironicamente “mammi”, forse?

“E’ nitida la connessione tra il godimento della madre e l’attuale disagio della civiltà: anche il sociale – come il plusmaterno- predilige godimenti ipnotici e tossici…”(128)

Infine la questione della violenza sulle donne: Pigozzi sostiene che la posizione dell’uomo violento è la stessa del genitore invasivo, simbiotico e possessivo.

“Le famiglie inclusive sono violente anche quando non scorre sangue, nell’ordinaria violenza della claustrofilia domestica” (p.143)

La famiglia è il regno del materno, conclude Laura Pigozzi, qualunque sia la sua composizione di genere (dunque anche nel caso delle famiglie gay).

Come si colloca in questo contesto l’evaporazione del padre di cui parla Lacan? Quale spazio può prendere il padre in questo quadro di plusmaterno simbiotico?

Il padre “non evaporato” è, sostiene l’autrice, un padre genitale.

Che cosa intende Pigozzi per padre genitale?:

“Colui che non è né simbiotico, né esageratamente fallico, quello che accetta la temperata frustrazione che nasce dall’incontro con la realtà, che riesce a trasmettere una misura” (p.149)

Si potrebbe aggiungere, e il punto è fondamentale, che un padre è chi è capace di desiderio per una donna e che per questo non teme di mostrare la sua mancanza, un “debole” che è anche la sua forza. Questo va di pari passo con la sua funzione sociale e il lavoro che svolge.

Il libro si chiude con una stoccata a un malinteso presente nel femminismo: l’autrice gli rimprovera di aver confuso il patriarcato con la funzione paterna.

In conclusione: un libro coraggioso che sfida luoghi comuni e pregiudizi, che prende posizione senza temere di andare controcorrente e che legge con intelligenza la nostro attualità.

MATERNITÀ SURROGATA

Un elemento di continuità nella storia del femminismo è stato il rivendicare il diritto di decidere del proprio corpo.

Anche la PMA (Procreazione medicalmente assistita) e le battaglie per la sua liberalizzazione hanno sempre avuto questo diritto sullo sfondo. La tecno-medicina, dal canto suo, ha permesso, per quanto poteva, di realizzarlo: dall’aborto al diritto al bambino in caso di sterilità. Sembrerebbe perciò che le donne e la tecno-medicina siano alleate.

La questione è complessa e piena di ambiguità. Qui mi limito ad esaminare il caso dell’utero in affitto ( o GPA, gestazione per altri), che non è però il più esemplare perché l’intervento medico è ridotto al minimo, l’inseminazione, ma che è stato reso attuale dal rimbalzo mediatico. La polemica sul diritto delle donne a gestire il proprio corpo riproduttivo, a un po’ di tempo in latenza, è scoppiata di nuovo.

In un precedente articolo (Un bambino viene venduto) ho sostenuto che un bambino non può essere fabbricato per essere venduto, o ceduto; che un neonato non può entrare nel mercato come una merce qualsiasi, che non è disponibile per questo.

Questa posizione non nasce da un’emozione, non è un parere o un punto di vista personale o di donna; o almeno non è solo questo.

Sono psicoanalista e faccio riferimento a un’etica che è sottesa al mio mestiere. Quest’etica fa riferimento a delle leggi che non sono solo le leggi scritte, della polis, dello stato. L’etica della psicoanalisi è quella di Antigone piuttosto che quella di Creonte. Antigone rimprovera al tiranno di non rispettare le “leggi non scritte” degli dei impedendole di dare sepoltura a suo fratello dentro le mura della città. Creonte è un politico, sa che, se tiene al potere, il cadavere di Polinice, suo avversario, va tenuto fuori dalle mura. Antigone si appella invece a un’etica che si trasmette con la parola e si sedimenta nel discorso, che vale per gli umani ma è dettata dagli dei.

La stessa etica si applica al piccolo d’uomo che viene messo al mondo, che è fuori scambio e fuori mercato perché è umano. Non è proprietà della madre né oggetto del suo arbitrio anche se la legge glielo consente.

Mi ha sempre colpito il “mater semper certa” che regola la filiazione lato madre nel diritto romano. Afferma che tra la madre e il bambino c’è un legame di sangue certo, che il loro rapporto non si nutre solo d’immaginario e fantasticherie reciproche e anche che non è solo simbolico, come nel caso della paternità. La paternità è sempre adottiva, simbolica: è il gesto di Ettore che solleva al cielo Astianatte e lo riconosce come figlio, ma nessuna evidenza lo designa padre.

Tra madre e figlio invece il rapporto é enigmatico, impastato di reale, segnato da un’esperienza per molti versi oscura ( la gravidanza) che ha qualcosa di estraneo, anche per le donne stesse.

Il latino mater semper certa sottolinea la certezza ma vela lo statuto del rapporto madre-bambino: ambiguo, di due esseri e di due corpi che hanno tra loro confini incerti e che si definiscono progressivamente mano a mano che il bambino cresce e si “umanizza”. All’inizio, quando il bambino è ancora nel ventre della madre o quando ne è appena uscito, quando è infans, il confine è indistinto e uno dei due è del tutto inerme. La gravidanza significa fare l’esperienza di un corpo abitato da una presenza familiare e al tempo stesso inquietante, da qualcosa che cresce dentro, un corpo nel corpo.

Una donna diventa madre una volta che vede il suo bambino, che lo cura e gli insegna a parlare. Prima le è familiare e estraneo al tempo stesso e anche per lei la gravidanza è enigmatica. Essere donne non rende più sapienti sul mistero di una nuova vita.

Tanto è vero che molte patologie possono accompagnarsi alla nascita: la depressione post parto o le tante difficoltà che s’incontrano nello stabilire una relazione con il bambino. Accanto a quelle delle madri ci sono le patologie del bambino: lattanti anoressici, ad esempio, che rifiutano qualsiasi nutrimento. Quanti ex bambini riceviamo che non sono stati ben accolti dalle madri, non riconosciuti e che vengono in analisi per questo? Essere riconosciuti da parte delle madri è essenziale alla vita.

La maternità non è un processo naturale. Proprio perché è implicato il corpo, perché per il bambino il corpo della madre è in una certa misura anche il proprio e viceversa. Il lattante considera le mammelle roba sua e fa fatica a cederle tale è il godimento che gli procurano. Lo sanno bene i pediatri che sostengono l’allattamento “su richiesta” o che conoscono le difficoltà dello svezzamento. I bambini, fatta eccezione per i casi di rifiuto patologico, non intendono separarsi dal seno materno.

Come legiferare allora su questi corpi legati da un vincolo che va progressivamente sciolto ma che all’inizio è così complesso e vitale?

Lo statuto del feto è uno statuto ” a metà”, il feto è solo a metà umano, dice un grande psicoanalista infantile come Winnicott; esso si colloca tra il “reale” della sua appartenenza al corpo materno e il simbolico della sua appartenenza al sociale, alla comunità. E’ a causa di questo suo essere “a metà”, solo a metà umano, che è possibile discutere una legge – peraltro già applicata in molti paesi, fra i quali gli Stati Uniti- che delibera la “disponibilità” di una vita in formazione.

La madre ha il diritto di “cedere” il bambino come suo prodotto?

Che diritti ha una donna su di lui? Può cederlo (o venderlo) come si cede un rene, come se fosse del materiale biologico? Anche se fosse equiparabile a un pezzo del suo corpo, sarebbe indisponibile per il mercato così come non è vendibile un rene.

In che senso possiamo interrogarci allora sul diritto delle donne a cedere il bambino? A cederlo per denaro, sia chiaro, perché solo una madre, una sorella o un loro equivalente potrebbero affrontare i rischi di una gravidanza e di un parto per pura generosità. I casi si conterebbero sulla punta delle dita e non sarebbe necessaria una legge per disciplinarli.

Perché allora alcune donne (una minoranza) esitano ad affermare che un neonato è indisponibile come merce e che la sua nascita non può essere oggetto di un contratto?

Credo che questa reticenza sia dovuta al timore che vietare alle donne di decidere del bambino che hanno partorito possa rischiare di mettere in causa diritti prima conquistati, in primis l’aborto.

E’ proprio questo il punto da rilevare: un bambino che nasce non può essere paragonato a un embrione abortito. L’equivalenza è solo immaginaria. Sostenere l’indisponibilità del corpo del bambino, un corpo già umano e abitato dal linguaggio- è provato che il feto reagisca al linguaggio anche nel corpo della madre, che ne percepisca gli umori, che distingua i suoni gravi della voce maschile e quelli acuti femminili- non ha niente a che vedere col vietare l’aborto di un embrione.

Un neonato non è di proprietà, non è un pezzo di corpo, anche è stato fabbricato dentro un corpo di donna. Una madre deve cedere il suo bambino, certo, ma non per venderlo; deve cederlo, progressivamente, alla comunità, al sociale cui è destinato perché diventi uomo o donna.

Nel diritto e nella tradizione i bambini sono sempre stati affidati alle madri, non perché ne facessero quello che volevano ma perché li iniziassero a entrare nel mondo: a leggere i significanti del discorso e della lingua in cui erano nati e a trovarvi posto. Affidati alle madri perché loro sono custodi di un ordine cui i bambini vanno introdotti. In tutte le culture, l’educazione dei bambini è affidata alle donne: madri, educatrici, maestre.

E’ una fatica, un piacere e un’enorme responsabilità.

Le donne sono responsabili e portatrici di ciò che consideriamo umano e questo non sempre coincide con le leggi dello Stato. Direi che la maggior parte delle donne sostiene la legge di Antigone, non quella di Creonte.

Le donne, insegnando ai bambini come vivere socialmente, come parlare, come leggere il mondo, hanno un grande compito: sostenere un simbolico che oggi è traballante, un sociale corroso, ma in cui vale ancora il fatto che gli esseri umani, anche se piccoli e inermi, non può essere oggetto di scambio e di mercato. Nelle Leggi non scritte, nelle umane leggi di Antigone, è giusto dare sepoltura a un fratello morto, tanto quanto è illegittimo cedere, o vendere, un neonato.

UN BAMBINO VIENE VENDUTO

La manipolazione del materiale genetico umano non sconcerta più come qualche decennio fa. I vantaggi che ne ricaviamo in termini di cura delle malattie e di promessa di longevità mettono a tacere dubbi e domande. Quando si tratta di procreazione, però, in alcuni paesi, come nel nostro, la giurisprudenza è prudente: in Italia la legge 40 permette solo l’inseminazione omologa. Basta fare un salto Oltralpe, comunque, per risolvere situazioni più complesse. Se poi non si tratta solo d’infertilità, maschile o femminile, si va negli States, oppure in India, dove tutto è permesso. La questione del come si nasce resta però delicata perché alimenta le nostre fantasie: l’enigma della nascita, con quello della sessualità e della morte, è uno dei tre misteri che ci tormentano. Per questo ciò che è espulso dalla porta rientra dalla finestra, ed ecco le polemiche a proposito della step child adoption e il vespaio scatenato dall’atto di Nichi Vendola che ha ritirato un bambino come una torta di compleanno ordinata su misura. Molte donne sono insorte, altre, una minoranza, si sono dichiarate solidali con lui. Donne la cui parola ha un peso: filosofe, giornaliste, femministe storiche. Quelle per il no all’utero, in affitto o in prestito che dir si voglia, benché più numerose, avanzano argomentazioni che definirei sentimentali, più fragili di quelle del fronte del sì.

Si comprende perché. Assentire significa concordare con lo spirito del tempo che considera il poter diventare genitori un diritto come gli altri. Perché no ? Il ragionamento è ispirato a una scienza (in questo caso medica) che va a braccetto con la difesa dei diritti individuali.

Chi lamenta che non ci siano limiti, come ha replicato giorni fa la giurista Marilisa D’amico all’obiezione di una psicoanalista che in Casa della Cultura discuteva i diritti dei transessuali(1), lo faccia presente al legislatore, crei un gruppo di pressione.
Giusto. Gli psicoanalisti però, come le donne, non costituiscono un insieme e non formeranno mai un gruppo di pressione che difende l’etica del limite in un mondo senza limiti, come lo chiama il mio amico Jean-Pierre Lebrun(2). Una verifica empirica? La chiacchierata fatta subito dopo, a caldo, con un collega, da me apprezzatissimo, che trova ineccepibile il ricorso alla maternità ” per altri “. Non è il caso di vietare né di fare battaglie di retroguardia, sosteneva.

Io, invece, sono contraria alla mercificazione dei bambini e a quella dell’utero delle donne e mi sento partecipe della contrarietà oscura che serpeggia a proposito della maternità locata. Lo dico in soldoni, il lettore mi perdonerà se non lo argomento, ma dirò fra un attimo perché.

Una donna può avere sentimenti ambivalenti nei confronti del proprio bambino perché lo considera una parte di sé. Può anche desiderare di ucciderlo, di maltrattarlo, di rimangiarselo come fosse un pezzo del proprio corpo, ma non di concepirlo per smerciarlo. Succede, certo, ma non fa parte delle fantasie femminili.
Anche per l’antropologia (Levy-Strauss) il bambino è un oggetto di scambio simbolico fra i sessi, non un oggetto di mercato. I bambini sono stati sempre venduti è stato obiettato (in genere da madri povere a donne ricche). Si trattava però di bambini già nati, non fabbricati come polli da mercato. Fabbricare un bambino per venderlo rientra nella sfera dell’impensabile, oserei dire della barbarie.

Luisa Muraro ha felicemente definito l’oggetto-bambino che la madre porta in grembo e il rapporto che ha con lui, qualcosa che appartiene alla sfera dell’indisponibile(3): acquisire la centralità di questo punto, sostiene, è una questione di civiltà. Aggiungerei: di umanità, che è un equivalente di civiltà. Che non si possano fabbricare esseri umani per poi venderli dovrebbe essere un assioma che, come tale, non ha bisogno di dimostrazioni. Non si dovrebbe doverlo spiegare. Il ” no ” all’utero in affitto fa parte di quest’assioma.

1)Frontiere della psicoanalisi. Le nuove antropologie 1 marzo 2016
2)Jean Pierre Lebrun: Un monde sans limit Points hors ligne érès 1997
3)Luisa Muraro articolo del 3 marzo pubblicato sul sito della Libreria delle Donne

QUESTO SAREBBE L’INFERNO

Sono andata ai funerali di Umberto Eco per onorare un debito di penna: anni fa aveva messo a fuoco una questione spinosa su cui era stato scritto molto ma niente che mi sembrasse convincente. Mi riferisco al caso di Eluana Englaro, la giovane donna rimasta in coma vegetativo diciassette anni e tenuta in vita con l’alimentazione artificiale. Il padre, che si era a lungo battuto per il suo ” diritto ” alla morte, alla fine aveva ottenuto che la si lasciasse morire. Accadeva nel 2009 : il caso aveva riempito le pagine dei giornali, commosso il pubblico, imbarazzato i politici e i giuristi, messo al lavoro la commissione di bioetica e quasi provocato una crisi di governo.

Uno strano fenomeno sociale perché, in realtà, la questione era indecidibile. Cosa ne sappiamo, avevo scritto nel libro che preparavo allora, del possibile ” sentire ” di un corpo che ha una vita solo vegetativa? Come si poteva tagliare corto sui dubbi di chi si faceva scrupolo di interrompere l’alimentazione artificiale per lasciarlo morire di fame e di sete? E se quel corpo, sia pure vegetale, avesse sofferto di una morte così atroce? Domande da vivi, che non si arrendono alla propria ignoranza su che cosa provi un corpo fisiologicamente vivo ma inerte come una pianta e privo di possibilità di comunicare.

Eco, in un articolo intitolato: Perché ho il diritto di scegliere la mia morte*, dopo aver dichiarato la sua ignoranza sulle risorse di un corpo il cui cervello non dia segni di vita, formulava tre ipotesi su ciò che potrebbe succedere a chi si trovasse nelle condizioni di Eluana Englaro: sopravvivere come una rapa, senza coscienza, senza poter dire ” io ” ; essere catapultati in una specie di stato paradisiaco in cui si realizzano tutti i desideri di quando si era in vita; infine, ipotesi più angosciante, trovarsi in uno stato di vita sospesa in cui si comprende lucidamente tutto. ” Questo sarebbe l’inferno ” concludeva lo scrittore passando con uno scarto brusco dal registro dell’ironia al registro del tragico. Essere lucidi e vivi nel sarcofago di un corpo che appare morto è il più terribile degli incubi, il più temuto se solo proviamo a immaginarci morti. Con crudezza arguta Eco non solo lo evocava ma vi inseriva se stesso per dichiarare, con una specie di testamento biologico pubblico, di voler rinunciare alle cure se il destino l’avesse ridotto a uno stato di vita vegetativa. Del confine tra la vita e la morte non ne sappiamo niente ma dalla morte non si torna indietro: era la sua lezione lucida, da vivo che pensa come può l’impensabile.

*la Repubblica  del 9 febbraio 2009