L’inscindibile legame tra architettura e città

Non un racconto autobiografico ma un libro in cui la tesi abbracciata dall’Autore – in estrema sintesi: quella che vorrebbe un’architettura che tornasse a “fare” città – prende corpo dall’intreccio di una riflessione teorica con la narrazione di situazioni vissute, persone conosciute o di cui semplicemente si è ammirata e si ammira l’opera, intuizioni storiografiche, libri letti spiegati e consigliati, ricordi di viaggio. È questo uno dei tratti distintivi di Città e Memoria come strumenti del progetto di Alberto Ferlenga, edito per i tipi di Christian Marinotti nel 2015. Un libro che non si limita ad argomentare una certa posizione critica rispetto a determinati temi ma cerca di far emergere le ragioni tanto personali quanto di contesto politico sociale e culturale in cui questa è maturata.

La tesi è quella anticipata nell’inciso sopra e muove dalla constatazione della “progressiva difficoltà che il nostro tempo incontra nel generare parti urbane in cui spazi aperti e edifici concorrano alla creazione di una qualità riconoscibile”. In altri termini, secondo l’Autore “se ci guardiamo intorno vediamo architetture che non riescono a diventare città e città che non considerano più l’architettura come parte integrante di sé” (p. 17). Ferlenga richiama dunque quest’ultima ad alcuni suoi precisi doveri che, storicamente, soprattutto nella città europea sono stati anche quello di misurarsi o, meglio, di rapportarsi civilmente con il contesto e, al tempo stesso, quello di contribuire a produrre spazi pubblici belli e ospitali. Il recinto di solitudine in cui, al contrario, appaiono rinchiuse molte delle costruzioni della città moderna e contemporanea – la gran parte realizzate dalla seconda metà del Novecento a oggi – e soprattutto il deserto di senso che frequentemente si riverbera nel loro intorno lascia attoniti quanti vanno alla ricerca del carattere urbano degli insediamenti, segna uno scarto con una secolare tradizione di conformazione dello spazio pubblico e, secondo l’Autore, non può che essere contrastato con progetti che – come sottolinea il titolo del libro – facciano della città e della memoria due imprescindibili capisaldi. Città intesa soprattutto come scena urbana, quella delle strade, dei viali e delle piazze che l’architettura non dovrebbe rinunciare a definire. E memoria considerata non tanto come stanca riproposizione di forme del passato, come assunzione acritica di contesti cristallizzati nel tempo, quanto come prova tangibile di assimilazione e capacità di rielaborazione di una lezione che viene dalla storia. Lezione, di cui per secoli si sono nutrite la cultura architettonica e quella urbanistica, ancor oggi patrimonio condiviso della società europea, scritta indelebilmente nelle pietre delle città del Vecchio continente. Un “universo urbano” (p. 120) che, in verità, se solo lo si sapesse e volesse leggere, trasparirebbe – secondo Ferlenga – anche da città e metropoli del mondo antico e contemporaneo di ogni angolo del globo. Perfino da quelle tragiche situazioni insediative che chiamiamo informali (ma che dovremmo definire incivili) caratterizzate da povertà e degrado e che, in diverse città del Sud America o dell’Africa, riguardano milioni di persone. Anche qui, malgrado tutto, gli spazi tra le improvvisate dimore risentono spesso della “disperata vitalità dei loro abitanti [acquisendo] una varietà altrove scomparsa” (p. 33). È cioè proprio dove “si sono infranti molti sogni riformatori della tarda modernità, che – secondo l’Autore – si riproducono valori spaziali, formali e anche sociali che le enclave più ricche delle città del mondo non riescono più ad esprimere” (p. 35).

Il contesto in cui la tesi di Ferlenga matura trae nutrimento da mille rivoli. Quelli che risalgono alla sua formazione come architetto verso la metà degli anni Settanta al Politecnico di Milano quando in una Facoltà commissariata – scrive – “più che le lezioni vere e proprie, erano le riunioni sul territorio, i primi viaggi e la lettura di alcune riviste a fornirci un primo accenno di educazione all’architettura e di conoscenza della città” (p. 9) e quando si viveva una “condizione irripetibile in cui studenti e docenti si misuravano, da pari a pari, fuori dagli stretti recinti dell’Università” (p. 10). Quelli che attraversano un “momento felice” dell’architettura italiana quando tutta una generazione di architetti – Rossi, Gregotti, Natalini, Anselmi, Grassi, Aulenti, per citarne alcuni – “che non avevano ancora perso la loro capacità di riflettere sul proprio mestiere” (p. 12) ha modo di esprimersi attraverso progetti, realizzazioni, libri, riviste e cattedre universitarie. Quelli che evocano figure epiche – almeno per l’Autore – del dibattito sul futuro della città, come quella dell’architetto e pianificatore greco Costantinos Doxiadis o quella dell’egiziano Hassan Fathy. Quelli che rinviano alla passione per alcune vicende urbane – effettivamente avvincenti – come quella di Mogador (oggi Essaouira) in Marocco o quella di San Pietroburgo e della sua “singolare relazione” con l’antica Palmira. Quelli che rimandano a libri – alcuni attesi, altri assai meno in rapporto alla tesi sostenuta – considerati fondativi della cultura architettonica maturata tra gli anni Settanta e Novanta: L’architettura della città di Aldo Rossi, Learning from Las Vegas di Robert Venturi et al., Collage City di Colin Rowe e Fred Koetter, Delirious New York di Rem Koolhaas.

Per concludere, ciò che Ferlenga auspica è “un’azione di ricostruzione culturale” (p. 30) che colmi le lacune della “cultura in possesso degli architetti […] per gran parte logora” (p. 23) e inadatta a interpretare e trasformare la realtà che ci circonda. Questa – sostiene – non può che “considerare tutte le espressioni urbane, da quelle passate a quelle presenti, come un grande, unico, patrimonio formale il cui studio – afferma – è indispensabile per conquistare, anche attraverso l’architettura, la possibilità di inserire frammenti positivi nel processo impetuoso della loro evoluzione” (p. 121). In anni in cui le politiche urbane che interessano le città in cui viviamo tendono a prescindere dalla forma dei luoghi, Ferlenga insiste invece sulla necessità che città e architettura siano “considerate come componenti di una stessa attitudine costruttiva dell’uomo mossa da ragioni universali ed esigenze particolari talmente intrecciatesi nel tempo da risultare inseparabili” (p. 85).

 

Milano, 20 luglio 2017                                          Renzo Riboldazzi

Per una città dell’accoglienza

È dedicato “a tutti i senza nome che giacciono sul fondo del Mediterraneo: bambini, donne, uomini”. Ed è scritto da quattro urbanisti che evidentemente sentono forte la necessità di un impegno diretto volto a imprimere un cambiamento di rotta a quella cultura del respingimento e della chiusura che sembra oramai connotare la società europea. Stiamo parlando di La città e l’accoglienza di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia ed Enzo Scandurra (manifestolibri, 2017, 111 pagine, 16 Euro). Un libro che pare un appello non solo a quanti si occupano di progetto della città e del territorio, ma ai politici e agli amministratori che le governano e, più in generale, a quella significativa parte della cosiddetta società civile che nei flussi migratori, ma diciamolo meglio, in quella massa di disperati che invadono le città e i territori europei vedono solo e soprattutto pericoli: per loro stessi, per i loro figli e le loro famiglie, per le comunità a cui appartengono.

Quello degli autori è prima di tutto un gesto di civiltà e di umanità verso quei “milioni di persone in fuga con il solo fardello della memoria da cancellare al più presto e la speranza di una vita migliore” (E.S., p. 14). Una fuga disumana che, a dispetto delle aspettative, si è troppo spesso tradotta – e continua purtroppo a tradursi – in una rincorsa verso l’abbraccio con la morte, tanto da far affermare a papa Francesco che quella a cui stiamo assistendo è la “catastrofe umanitaria più grave dalla Seconda guerra mondiale” (E.S., p. 13). Un gesto di civiltà e umanità condotto con le armi spuntate della cultura, eppure un atto necessario, indispensabile non tanto per alleggerire le coscienze dei singoli quanto per provare a riportare una situazione tragica – che ha perfino dell’incredibile se rapportata all’ordinarietà della vita nel Vecchio continente – almeno nell’alveo della ragionevolezza. Già perché la cultura su cui si fonda la civiltà europea parla d’altro e l’Europa – è la tesi di Scandurra – potrebbe vincere l’immane sfida che ha di fronte “se solo ascoltasse la propria memoria, se ricordasse la voce dei suoi Padri: Shakespeare, Goethe, Leopardi, Rousseau, Hugo, Baudelaire, Picasso” (p. 16).

Ma parla d’altro soprattutto la storia delle città europee, quella di lungo periodo che ancora oggi troviamo riflessa nelle loro forme fisiche, quella delle loro comunità. È qui che sta l’altro punto di forza del libro. Nel ricordarci che quella della città europea non è solo una storia di chiusure, mura o confini ma, piuttosto, di “continua relazione e di scambio con l’alterità, in nome di qualcosa di più grande che ci accomuna e ci tiene insieme” (L.D., p. 38). Nel richiamare alla memoria il fatto che “la stessa identità, che caratterizza molte delle nostre città, sia proprio il frutto di un groviglio complesso di relazioni fra componenti etniche diverse” (L.D., p. 48) così profonde da riverberarsi nelle architetture o negli spazi pubblici che abbiamo ereditato dal passato e che tuttora sentiamo nostri e ammiriamo. Che quella dell’accoglienza, dell’ospitalità, della cura dei più deboli, dei più poveri o dei malati è una storia che viene da lontano nei secoli, le cui matrici religiose si intrecciano a quelle civili al punto da configurarsi – in certi momenti e seppur con i significativi slittamenti di senso – in un vanto per quelle comunità che le praticavano. Lo testimoniano ancor oggi le mirabili fabbriche nate nei secoli per questi scopi incastonate nei tessuti storici delle nostre città, ma anche le lingue europee in cui – come nel caso del termine ospite in italiano – “resta memoria del costume che nel mondo antico rendeva ‘uguali’ chi offriva rifugio e chi invece ne richiedeva” (I.A., p. 69). Nell’obbligarci, infine, a tornare a riflettere sul “significato più profondo dell’essere città” (G.A., p. 107).

È qui che anche l’urbanistica – disciplina di cui la nostra società sembra voler fare volentieri a meno – può forse tornare a giocare un ruolo di primo piano. Riappropriandosi, così com’è stato spesso nel Novecento, della propria natura etica e politica. Tornando a farsi portatrice di valori culturali e civili universali, non di interessi particolari. Ma al tempo stesso radicando il proprio operato nel terreno del reale e rinunciando a quelle illusorie ambizioni demiurgiche e totalizzanti che ne hanno frequentemente contraddistinto l’azione, finendo col delegittimarla, col disinnescarne la carica ideale.

Milano, 6 luglio 2017                                                          Renzo Riboldazzi