Lorenzo Mainini  
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AGAMBEN 'INOPEROSO' OVVERO L'EQUIVOCO DELL'ENERGEIA


Tra la conclusione del pensiero filosofico di Agamben e la stabilizzazione dei suoi concetti: uno spazio di analisi critica



Lorenzo Mainini


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Con L’uso dei corpi (2014) Giorgio Agamben riconosce una “conclusione” del suo percorso filosofico e apre alla stabilizzazione di quei concetti che hanno segnato da sempre il suo pensiero. Fra tutti l’inoperosità – quella permanenza in se stessi, quell’inattualità, che Agamben pensa come forma della “resistenza” a un potere che invece attualizza, mette in opera e attiva. Alcuni critici, nel discutere l’ultimo lavoro agambeniano, hanno avuto gioco facile nel confermare i rischi già rilevabili in corso d’opera. Negri, ad esempio, osservava che, alla lettura d’Agamben, s’avverte l’impressione di trovarsi al cospetto di “qualcuno che ha colto il problema e non vuole, meglio, non può più risolverlo”[1].

Che cosa dunque Agamben avrebbe colto, pur essendo incapace di risolvere? Verrebbe da rispondere: l’ontologia attraverso la quale il potere costruisce la sua sovranità. Se dunque il potere è dotato d’un’ontologia, emerge di conseguenza l’inutilità di giocare, contro il suo ordine, i concetti a esso opposti, giacché esso già include in se stesso, risolve e in certa misura abolisce quelle opposizioni che potrebbero costituire un’apparente vita di fuga. Ecco allora dispiegarsi quella teoria di figure tipiche del pensiero agambeniano in cui si sostanzia l’equivocità dell’essere – quelle figure, in definitiva, che conducono direttamente all’inoperosità.

Ecco l’homo sacer, forma della naturalità umana ma allo stesso tempo figura del recluso, di colui che è stato strappato alla vita sociale, del vivente in cui è già iscritta la morte (violenta); ecco la nuda vita, restituzione dell’uomo a se stesso, ma al contempo figura della violenza ultima del potere, quella perpetrata sull’esistenza biologica dell’uomo stesso; ecco il servo, nome della potenzialità pura, colui il quale è virtualmente disponibile a ogni opera pur non possedendone nessuna come propria, ma, allo stesso tempo, figura d’una soggezione integrale al comando, espressione massima dell’appartenenza all’opera altrui; ecco il nazismo heideggeriano, ovvero l’assegnazione della propria “eredità come compito”[2], forma della permanenza in se stessi, destino della metafisica occidentale, e allo stesso tempo traduzione politica generalizzata della più atroce violenza privata. L’elenco potrebbe, del resto, proseguire, giacché il riconoscimento dell’equivocità ontologica è la prestazione tipica del pensiero agambeniano, costituisce la sua personale risalita “storica” delle coppie antinomiche fino ad additarne la loro comune giacenza ontologica; è in definitiva il presupposto senza il quale l’inoperosità non potrebbe mai essere pensata nelle forme d’una resistenza.

Agamben – è noto – forgia i suoi concetti nella lettura costante delle sue fonti, delle loro parole, fin dentro i loro etimi. Quest’aspetto del pensiero agambeniano va preso molto sul serio, tanto più quando il percorso filosofico d’Agamben si chiude su un concetto – l’inoperosità – ch’egli vuole derivare direttamente dalla lettura d’Aristotele. Per coglierne l’origine è utile riaprire i saggi pubblicati in La potenza del pensiero. Ve n’è uno intitolato L’opera dell’uomo. Agamben in quella sede tratteggia la sua teoria dell’inoperosità come destino dell’uomo – dove per inoperosità non dovrà intendersi una generica nullafacenza dell’animale umano, quanto invece l’inassegnabilità all’uomo, in quanto specie, d’un’opera propria. Ora l’idea d’un simile progetto antropologico vorrebbe reggersi sulla lettura d’un brano aristotelico tolto dall’Etica Nicomachea (I, 7, 1097b 22 e sgg.). Trascriviamo il passo nella versione data da Agamben[3]:

Come per l’auleta, per lo scultore e per ogni artigiano e, in generale, per tutti coloro che hanno un’opera [ergon] e un’attività [praxis], il buono e il bene sembrano consistere in quest’opera, così dovrebbe essere anche per l’uomo, ammesso che vi sia per lui qualcosa come un’opera [ti ergon]. Oppure si dovrà dire che per il falegname e il calzolaio vi sono un’opera e un’attività, per l’uomo invece nessuna, che è nato senz’opera [argos]?”

A commento di questo brano Agamben introduce la nozione di energeia, assente nel testo aristotelico. “Ergon – scrive Agamben – significa in greco ‘lavoro, opera’. Nel passo in questione, tuttavia, il significato del termine si complica per via della stretta relazione che lo lega a uno dei concetti fondamentali del pensiero aristotelico: l’energeia (lett. ‘essere-in-opera’)”[4]. Da questo momento in poi – con un gesto filologico affrettato, che interpreta argos, l’inoperoso, come opposto di energeia – Agamben estromette l’ergon del testo aristotelico, ovvero l’opera vera e propria, il prodotto dell’azione (la scarpa fatta del calzolaio, per intenderci, e non l’azione di fabbricare una scarpa), e instaura un’opposizione tra l’inoperosità presunta dell’uomo-argos e quest’energeia, introdotta all’improvviso e utilizzata come equivalente dell’opera, come se significasse la concretizzazione dell’azione umana in un qualche “prodotto” – da trovare o invece da dichiarare inesistente, affermando la conseguente inoperosità umana. Conscio della forzatura, poco dopo Agamben cerca di correggere il tiro, precisando che a mancare nell’uomo sarà eventualmente un ergon, un’opera specifica intesa come prodotto; e tuttavia “se mancasse d’un ergon proprio – dice Agamben -, l’uomo non avrebbe neppure un’energeia, egli sarebbe cioè un essere di pura potenza, che nessuna identità e nessuna opera potrebbero esaurire”[5]. Il tentativo d’aggiustare il tiro s’è rivelato, al contrario, una radicalizzazione della forzatura.

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04 GIUGNO 2015

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