Antonio Calafati  
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LA GENEROSITÀ CHE NON HAI


L'Italia dimentica il suo antieuropeismo



Antonio Calafati


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Lo si dimentica, poi si è costretti a ricordarlo: l’Unione Europea è un insieme di accordi tra stati nazionali che si muovono nel tempo, elezioni politiche dopo elezioni politiche, lungo traiettorie ideologiche e culturali proprie e disallineate. Sono sempre in-corso i lavori del progetto europeo. Far convergere visioni e interessi di 27 Paesi in evoluzione richiede tempo e metodo. Ogni accordo un equilibrio politico transnazionale, precario comunque: una negoziazione dietro l’altra definisce il cammino dell’Unione. E di biforcazioni il progetto europeo nella sua storia ne ha incontrate molte – e non tutti desideravano andare dalla stressa parte.

L’Italia è stata uno dei principali Paesi artefici dell’Unione Europea: ha contribuito a fondarla, a modificarla, a consolidarla. A ogni biforcazione importante nell’evoluzione del progetto europeo ha fatto la sua scelta (scegli anche quando ti distrai e gli altri scelgono per te). Se siamo al punto in cui siamo non può pretendere di non sapere perché e come. L’Italia è anche la terza economia dell’Unione, dopo Germania e Francia (ora che il Regno Unito ha preso il largo). Al tavolo delle trattative gli altri 26 Paesi si aspettano che tu ti ricordi della tua forza. Si aspettano anche che tu ricordi come siamo giunti qui. (Che tu ricordi che il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) l’hai approvato e che non l’ha usato solo la Grecia ma anche, senza conseguenze drammatiche, la Spagna, il Portogallo.) Gli altri Paesi si aspettano che tu sia consapevole della tua forza economica e delle tue responsabilità nell’evoluzione dell’Unione.

 

All’inizio degli anni Novanta il progetto europeo è diventata un’immagine sfocata in Italia. Stavamo dentro una drammatica crisi politica in anni cruciali – prima e dopo l’approvazione del Trattato di Maastricht. Mentre il progetto europeo veniva decostruito sotto la spinta dell’egemonia culturale e politica del paradigma neoliberale, l’Italia politica era in frantumi. Dentro quella crisi, cognitiva prima che politica (e morale) che dura da trenta anni, è nata e si è consolidata la sconclusionata narrazione della Lega, ha preso corpo il disordinato progetto del M5S, si è dipanata la contradditoria conversione neoliberale del Partito Democratico – cambio di nome dopo cambio di nome: un cantiere politico tenuto disordinato, a un passo dall’essere chiuso.

Ci siamo dimenticati che nel progetto europeo delle origini la redistribuzione del prodotto sociale tra Paesi – la generosità transnazionale – era un principio e un progetto politico. Ci siamo dimenticati che il bilancio dell’Unione e le regole per vincolare il mercato erano gli strumenti. Tutti i Paesi contribuivano al bilancio e alcuni – tra cui l’Italia – ricevevano indietro più di quello che avevano dato. La Germania ha sempre ricevuto meno, molto meno di quanto dava. Bilancio irrisorio quello dell’Unione Europea rispetto ai bilanci nazionali, ma sul sentiero della solidarietà territoriale ci si era incamminati, il principio affermato. Si trattava di mettere più risorse in comune, bilancio dopo bilancio. Tutti i Paesi avevano accettato un ordinamento giuridico che poneva molti limiti all’operare del mercato – il mercato doveva essere ‘sociale’.

La generosità dell’Unione Europea era istituzionalizzata – anche se ancora insufficiente. Stava (sta) nel finanziamento trans-nazionale della politica agricola comune; stava (sta) nel finanziamento transnazionale delle azioni dei fondi strutturali; stava (sta), inoltre, in una distribuzione spaziale della produzione e del lavoro sottratta al mercato competitivo in settori ritenuti chiave per la stabilità sociale ed economica dei Paesi membri.

All’inizio degli anni Novanta si è avviato il processo di ampliamento a Est: mille ragioni morali per realizzarlo. Paesi molto piccoli – e anche relativamente poveri – ora erano al tavolo negoziale accanto a Germania, Regno Unito, Francia, Italia. Quello era il momento di triplicare il bilancio dell’Unione, di mettere più risorse in comune e poi redistribuirle con un criterio di giustizia spaziale e solidarietà territoriale. Il momento di porre altri limiti all’operare del mercato competitivo per evitare squilibri territoriali e iniquità distributive. Una biforcazione decisiva per il progetto europeo, il momento in cui si è preso il sentiero sbagliato che ci ha condotto a dove siamo ora. Che l’Italia ha contribuito a prendere – con entusiasmo da parte delle élite politiche e intellettuali liberali.

 

Il paradigma neoliberale diventava egemone in un Paese dopo la (presunta) ‘fine della storia’. La dimensione redistributiva – tra territori e individui – diventava parodia con un bilancio europeo che non si adeguava alle nuove dimensioni dell’Unione e alla profondità ed estensione dei suoi disequilibri territoriali. Con l’attenzione che si spostava sui fondamenti giuridici del mercato interpretato nella sua dimensione più ferocemente competitiva, sulla costruzione del mercato unico europeo.

Perché l’Unione Europea abbia preso la strada della sua de-costruzione è una storia da scrivere. La Germania non aveva allora la forza che ha oggi, ed era distratta dai suoi problemi all’inizio degli anni Novanta: ora aveva il suo Mezzogiorno – quanto ha investito nelle regioni della ex-DDR! Grandi dilemmi: dobbiamo ri-unificarci? Dobbiamo proprio investire tutte queste risorse nelle regioni della ex-DDR? Molte delle difficoltà politiche della riunificazione sono ancora lì, come dimostrano i risultati delle ultime elezioni politiche. Ma la Germania, molto meno dell’Italia, ha percorso la strada indicata dai neoliberali (a saper guardare te ne accorgi).

Quale progetto politico aveva l’Italia per l’Europa in quegli anni? Semplicemente non lo aveva. Con il paradosso che più di ogni altro membro dell’Unione – con l’eccezione del Regno Unito – ha spinto il pedale dell’accelerazione neoliberale. L’ossessione per la deregolamentazione del mercato del lavoro, venti anni di esagerata ostinazione mostrata dalla “sinistra di governo” per trasformare il ‘lavoro in merce’ – progetto incompatibile con una democrazia liberale –, ne è la dimostrazione inconfutabile. Così come lo è l’ossessione per le privatizzazioni. Da quella ostinazione è nata una crisi sociale profonda, che non si è lasciata ‘narrare’ come una storia a lieto fine, che ha generato un Parlamento profondamente antieuropeista che è ancora lì.

 

Difronte all’emergenza ora l’Italia prova le corde del ricatto morale. Ma la terza più grande economia dell’Unione, quale è l’Italia, cosa può pretendere al tavolo negoziale? Puoi fare finta di non ricordarlo – e magari l’opinione pubblica dopo decenni di comunicazione economica disordinata e isterica non se lo ricorda veramente. Ma gli altri lo sanno qual è la tua forza. Sanno che il tuo ‘prodotto interno lordo’ (Pil) è 3,6 volte quello della Svezia, 5,7 volte quello della Danimarca, 9 volte quello della Romania, 12,6 volte quello dell’Ungheria – chi vuole può continuare consultando i dati Eurostat. Nonostante venti anni di stagnazione economica alle spalle l’Italia è un’economia ancora forte nel paesaggio europeo. L’esagerata iniquità della distribuzione del reddito e della ricchezza, l’elevata povertà assoluta e relativa, le profonde disparità territoriali, l’alto debito pubblico – se sei un Paese grande e ricco quale sei – sono temi della tua agenda politica, che non puoi portare al tavolo negoziale dell’Unione.

La Lombardia è in uno stato di emergenza? Certamente, ma la Lombardia è anche una regione con un ‘prodotto interno lordo’ maggiore di quello dell’Austria, della Danimarca, 3 volte quello dell’Ungheria, 9 volte quello della Slovenia. E al centro della Lombardia c’è Milano e il suo hinterland, una delle più grandi e ricche aree metropolitane d’Europa, certificano i dati Ocse. Il suo Pil pro-capite è tra i più alti, più alto di quello di Londra, 1,5 volte quello di Berlino. In valore assoluto, il Pil della sola area metropolitana di Milano è maggiore di quello di molti dei Paesi membri dell’Unione: maggiore di quello della Grecia, della Repubblica Ceca, del Portogallo, della Romania.

Come fai a chiedere un trasferimento di risorse a tuo favore te al tavolo negoziale – quando, peraltro, non sei il solo Paese a essere in uno stato di emergenza? Il tema non è la generosità che gli altri Paesi non hanno nei tuoi confronti, ma quella che tu dovresti avere – con gli immigrati irregolari che lavorano in settori chiave, con i milioni di poveri che la tua economia ha generato, con i lavoratori che hai precarizzato – con tutti gli altri paesi dell’Unione più piccoli e più poveri di te.

Puoi mettere in discussione la regola che impone un vincolo al disavanzo del tuo bilancio pubblico (e al tuo debito), l’osservanza a regole che discendono dal paradigma di regolazione neoliberale – che, comunque, hai contribuito a scegliere. Puoi sostenere che è il momento di creare moneta e non debito per arginare la crisi economica. Puoi mettere in discussione quello che vuoi dell’Unione. Ma dire stizziti della generosità che gli altri Paesi dell’Unione Europea ti devono, che devono a uno dei Paesi più grandi e ricchi dell’Unione, è solo una manifestazione del greve antieuropeismo che si è diffuso nel nostro Paese.

 

 

 

 

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24 APRILE 2020