Franco Vaio  
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UNA CITTÀ GIUSTA (A PARTIRE DALLA COSTITUZIONE)


Commento al libro di Giovanni Maria Flick



Franco Vaio


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Il libro Elogio della città? Dal luogo delle paure alla comunità della gioia di Giovanni Maria Flick (Paoline, 2019) è un manifesto in cui l’autore, insigne e autorevole costituzionalista, espone alcune riflessioni sulla città contemporanea, in particolare la città italiana, nell’attuale epoca della globalizzazione e delle politiche neoliberiste, in una prospettiva rifondatrice della città stessa. L’idea centrale sviluppata nel libro è che tale prospettiva rifondatrice trovi negli articoli della Costituzione della Repubblica Italiana, il riferimento ai quali è costante in tutto il testo, il fondamento istituzionale su cui basarsi, e nei principi generali affermati nella Costituzione la fonte più profonda di ispirazione.

La riflessione dell’autore, condotta in modo puntuale ed esposta in un linguaggio chiaro, doverosamente rigoroso ma non osticamente tecnico, mira a sciogliere quei nodi che hanno portato la città a essere economicamente e socialmente ingiusta, e spesso irrispettosa dei diritti individuali che sono comuni a ogni cittadino, senza alcuna eccezione. Quei nodi che hanno portato la città a essere una ‘formazione sociale’ in uno spazio in larga misura privo di anima; a essere, come l’autore sintetizza con un’icastica espressione, la «città della paura» (p. 112): la paura del ‘diverso’, strettamente legata al rifiuto che gli si oppone, alla chiusura, all’esclusio­ne, per non dire, a volte, all’odio verso di lui. Paura che si sviluppa, in particolare, nella percezione che si ha della città, dopo che sono stati persi molti dei valori immateriali, soprattutto quelli di carattere sociale, ripetutamente affermati nella Costituzione.

Il tema della salvaguardia della città dal disagio che origina dal sentimento di paura del ‘diverso’, causa del rifiuto e dei frequenti e perniciosi fenomeni di grave esclusione sociale, è oggetto di studio almeno da un secolo, da quando, nei primi anni Venti del Novecento, i sociologi della Scuola di Chicago iniziarono a occuparsi dei problemi irrisolti del difficile inserimento nella società americana del tempo dei contadini polacchi immigrati: i ‘diversi’ di allora. Con gli anni il settore della sociologia urbana si è sviluppato ed ha affrontato problemi sempre più ampi – come non tornare con la memoria ai terribili problemi di integrazione sociale posti dalla massiccia immigrazione dal sud Italia verso le città industriali del nord, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento? –, ed è arrivato a considerare oltre al disagio che vive la città, in Italia, legato al confronto con il ‘diverso’, anche il disagio che origina dai guasti che al paesaggio e all’ambiente urbano sono stati apportati, dal punto di vista fisico, da edificazione e cementificazione sregolate, eccessive e distruttive del paesaggio. Autorevoli studiosi, primo fra tutti Salvatore Settis, costituzionalisti, storici dell’arte, urbanisti, e una folta schiera di giornalisti hanno richiamato l’attenzione, da decenni, sul fatto che nella Costituzione è chiaramente affermato il principio della tutela del paesaggio e dell’ambiente, compreso quello urbano: un principio più volte ribadito da sentenze della Corte Costituzionale, che definiscono il paesaggio «valore primario e assoluto». Un principio, però, che è drammaticamente disatteso. Anche in questo, la Costituzione ‘incompiuta’, per dirla con Calamandrei, presa a modello nel mondo civile per il suo respiro, il suo coraggio nella tutela dei diritti dei cittadini, non ha avuto (ancora) la sorte che merita nell’applicazione di quanto ivi affermato. Nel settore di studi in cui s’intersecano ambiente, paesaggio e Costituzione, si inserisce autorevolmente, oggi, il libro di Giovanni Maria Flick, che si rivolge in modo più specifico al tema della città e all’intersezione fra città, soprattutto nei sui aspetti sociologici, e Costituzione ‘incompiuta’.

La lettura delle considerazioni che l’autore esprime nel libro, di scrittura molto densa e ricco di concetti, è in realtà agevole anche per chi ha una formazione culturale che non origina dall’ambito giuridico, come è lo scrivente, la cui formazione si è svolta in ambito scientifico, e, a sua volta, costituisce un forte stimolo per ulteriori riflessioni sulla città. Alcune di queste riflessioni, sviluppate in stretto riferimento al testo di Giovanni Maria Flick, le esporrò nelle considerazioni che seguono: in particolare, in riferimento al collegamento che si può chiaramente riconoscere fra la città discussa da Flick e la città vista come sistema complesso.

 

La città sistema sociale complesso

I sistemi sono tanto più complessi, quanto più numerose sono le parti che li compongono, certamente, e soprattutto quanto più le interazioni fra le parti sono numerose, varie e lontane dall’essere lineari, cioè dalla condizione in cui si possa osservare qualche tipo di proporzionalità diretta fra la causa – l’azione di una parte del sistema su un’altra parte – e l’effetto della causa stessa sulla dinamica del sistema. I sistemi, quanto più sono complessi tanto più sono difficili da descrivere, gestire, e tanto più sono lontani dall’essere governabili in modo rigido e dirigistico, agendo su di essi dall’esterno allo scopo di indirizzare l’evoluzione del sistema stesso verso un obiettivo prefissato o verso il conseguimento di un risultato voluto. Tutt’al più, e questo vale in particolare per i sistemi sociali, è ragionevole pensare di ‘accompagnare’, senza la pretesa di forzare, l’evoluzione dei sistemi complessi, intervenendo volta per volta con le cosiddette ‘spinte gentili’: i nudge, di cui ha scritto Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017. Ciò vuol dire accompagnare il sistema sociale nella sua evoluzione, spinta dalle forze interne che danno struttura e forma al sistema stesso, attraverso l’uso di piccoli segnali, suggerimenti o aiuti indiretti, endogeni o esogeni, rivolti agli individui o ai gruppi sociali che compongono il sistema. ‘Spinte gentili’ che, nei sistemi sociali, siano opportunamente messe in opera, ad esempio, per creare motivi e incentivi atti a influenzare il processo di decisione degli individui e dei gruppi, agendo, in tal modo, più efficacemente che non attraverso l’uso di istruzioni dirette o di adempimenti forzati, imposti dirigisticamente. Eventualmente, per certi tipi di sistemi complessi, ad esempio per alcuni sistemi economici, in particolare per i mercati – anche questi, come è ampiamente riconosciuto, sono sistemi complessi – può essere ragionevole pensare di ‘cavalcare’ la loro evoluzione, che di per sé non è pilotabile in modo dirigistico. Può essere ragionevole, cioè, tentare di sfruttare a proprio vantaggio l’evoluzione osservata del sistema complesso, riconoscendone i meccanismi non lineari interni e anticipandone gli esiti, senza alcun tentativo di intervento.

È sotto gli occhi di chiunque che le città sono sistemi composti di molti sottosistemi e di innumerevoli elementi di tutti i tipi, i quali interagiscono secondo forme e modalità anch’esse innumerevoli e tutt’altro che lineari: le città sono sistemi complessi. Sistemi urbani complessi, com’è più proprio chiamarli, che sono diventati sempre più complessi nel corso del tempo. In Europa, ciò è accaduto soprattutto negli ultimi due secoli e mezzo o poco più: dalla prima rivoluzione industriale in avanti. Ma non è stato solo negli ultimi secoli, in realtà: non è difficile immaginare quanto sia cresciuta la complessità del sistema urbano, ad esempio, per una città come Roma antica, nel corso dei pochi secoli in cui si trasformò da piccola capitale di un piccolo territorio in lotta con i vicini a popolosa metropoli, capitale e fulcro di un enorme impero, divenendo la prima megalopoli (per quei tempi) della storia.

I sistemi complessi, si dice comunemente, sono ‘difficili da gestire’ e, ancor più, sono difficili da ‘governare dirigisticamente e rigidamente’; le città sono sistemi complessi, e dunque le città sono ‘difficili da gestire’ e da ‘governare dirigisticamente e rigidamente’. Il sillogismo è banale. A non essere banali sono, in realtà, proprio i concetti stessi di complessità e di sistema complesso, relativamente chiari su base intuitiva, ma poco di più. Tutti ne abbiamo una percezione soggettiva, ma questi concetti sono (ancora) privi di una definizione formale generale, che trascenda i singoli particolari contesti cui sono applicati e le proiezioni individuali, che sia universalmente accettata e che permetta all’idea approssimativa di ‘complessità’ di acquisire il necessario rigore dal punto di vista concettuale, di diventare una grandezza vera e propria in termini scientifici, come sarebbe auspicabile per una sua efficace comprensione e gestione: una grandezza misurabile – come è, in fisica, ad esempio, la forza – oppure calcolabile in riferimento ad altre grandezze misurabili – come è, sempre in fisica, ad esempio, l’energia –.

Il sistema urbano, composto di innumerevoli elementi di molti tipi diversi, interagenti secondo forme altrettanto innumerevoli, nel quale si possono identificare molti sottosistemi, ciascuno osservabile sotto prospettive differenti, è, verrebbe da dire, il sistema complesso per antonomasia: un sistema complesso che fornisce, forse, la più efficace ipostasi alla comune percezione di ‘complessità’. Il sistema urbano complesso e la percezione che di esso si ha offrono così un fertile contesto, nel quale possono trovare le proprie radici e dare origine a interessanti sviluppi ricerche attinenti a tematiche di portata estremamente ampia, sulle quali molto si è già scritto e molto si scriverà ancora.

In altre parole, le città, sistemi urbani complessi, sempre meno sono sistemi che è ragionevole pensare di governare cercando di pilotarne l’evoluzione in modo rigido e dirigistico verso obiettivi prefissati. Il grave rischio di un governo urbano dirigista è di spegnere la complessità stessa del sistema, la quale non costituisce un limite o un difetto della città, ma, al contrario, ne è un pregio fondamentale. Il rischio che si corre trattando la città come un rigido sistema meccanico che risponde a comandi, è proprio quello di soffocare la vitalità stessa della città, di spegnere la percezione che i cittadini hanno della città come di un organismo vitale, nel quale essi, individui attivi e partecipi, riconoscono il proprio luogo identitario. È una consapevolezza, questa, che ormai da decenni si va diffondendo sempre più.

È impossibile, pensando a tematiche di questo tipo, non tornare a quel libro pionieristico che fu The Death and Life of Great American Cities, pubblicato nel 1961, la cui autrice, Jane Jacobs, non era un’urbanista o un tecnico, ma una giornalista acuta osservatrice della società americana. In quegli anni iniziò ad emergere sempre più chiaramente il rifiuto dei metodi standardizzati per la pianificazione urbana da parte dell’opinione pubblica e dei cittadini residenti nelle aree urbane interessate; ed emerse anche il richiamo a un nuovo modello partecipativo che estendesse l’insieme dei cittadini coinvolti nelle decisioni relative alla pianificazione e agli interventi urbani. Solo un anno prima era uscito, sempre negli Stati Uniti, The Image of the City, di Kevin Lynch, un urbanista che esponeva i risultati della propria ricerca sul campo, condotta intervistando tre campioni di abitanti di Boston, Los Angeles e Jersey City, sulla percezione che essi avevano degli elementi fisici della città. La ricerca, la prima realizzata su questi temi – solo una quindicina d’anni prima il filosofo Maurice Merleau-Ponty aveva pubblicato Phénoménologie de la perception, testo cardine della fenomenologia novecentesca –, evidenziò come gli individui abbiano una percezione dell’ambiente fisico urbano in cui vivono, che si articola in immagini mentali che sono comuni a tutti. E qualche anno più tardi, in Francia, Henri Lefebvre, filosofo marxista eterodosso, avrebbe iniziato la pubblicazione della sua trilogia Le droit à la ville, in cui denunciava la città della modernità, che aveva espropriato i cittadini del loro ‘diritto alla città’: il diritto non solo a una buona qualità di vita urbana, ma soprattutto a una cittadinanza attiva e consapevole.

Quelle opere, e altre, segnarono il dibattito culturale di quegli anni. Segnarono l’inizio della transizione a un nuovo approccio postmoderno alla pianificazione urbana, che si sviluppava dal rifiuto dell’idea di una totalità indifferenziata da governare, dal rifiuto della pianificazione generale e onnicomprensiva, imposta razionalmente e astrattamente, indipendentemente dal contesto. La nuova visione della pianificazione urbana, invece, ha iniziato da allora a prendere in considerazione teorie nuove, che esaltano la flessibilità, il cambiamento, il pluralismo, la percezione che della città stessa hanno i suoi abitanti, così come l’eterogeneità dei contesti e delle soluzioni. E ciò nella consapevolezza delle differenze sociali, per mettere in luce e accettare le richieste delle minoranze e dei gruppi sociali svantaggiati.

 

La riflessione di Giovanni Maria Flick

Il libro di Giovanni Maria Flick si inserisce come un importante contributo in questa linea di studi sulla città sistema complesso, affrontando sotto una prospettiva molto particolare alcuni degli innumerevoli fattori che caratterizzano la complessità del sistema urbano. Flick argomenta chiaramente come nella Costituzione della Repubblica Italiana siano presenti i principi giuridici necessari per restituire ai cittadini, che abitano la «città della paura», il «diritto alla città giusta» di cui sono stati espropriati (p. 92). Ci mostra che molti di questi principi giuridici sono spesso disattesi, e che è necessario metterli in atto, in particolare il fondamentale riconoscimento, espresso nella Costituzione, della «“pari dignità sociale” di tutti – cittadini e stranieri accolti e presenti nella comunità – che appartengono e partecipano alla città, la realizzano in concreto e la vivono», al fine di «uscire dall’arca dopo il diluvio e dalla “città della paura”, per giungere a intravvedere la “città della gioia”» (p. 112). Il funzionalmente corretto e la vitalità della ‘città bella’, della ‘città opera’, come la chiamò Lefebvre, frutto dell’autorganizza­zione del sistema sociale costituito dai membri di una cittadinanza attiva e partecipe, messo in moto dal basso, sono imprescindibili dai principi costituzionali, tale è la tesi del libro, in quanto espressione dei diritti fondamentali degli individui e della società.

L’analisi della città italiana contemporanea che Giovanni Maria Flick conduce – la ‘città sistema complesso’, mi permetto di aggiungere io, senza in alcun modo intaccare il pensiero dell’autore – si dipana attraverso le pagine del libro, mostrando come alcuni dei fondamentali principi affermati nella Costituzione possano e debbano trovare piena attuazione nella città, intesa come bene comune. Ciò al fine di perseguire il fondamentale ideale della ‘città bella’: una città inclusiva, vitale e vivibile, appartenente a ogni individuo che vi riconosca un principio identitario, a ogni persona, i cui diritti sono tutelati dalla Costituzione. Al fine di rendere la città, quando sia percepita come luogo identitario, l’espressione di un ‘abitare’ che viene prima del ‘costruire’, per dirla con Heidegger. Al fine di trasformare la città, come dice il sottotitolo del libro, «dal luogo delle paure alla comunità della gioia».

Nella sua analisi l’autore fa riferimento, in particolare, a tre articoli della Costituzione: l’Art. 2, che riconosce i «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», l’Art. 3, che dichiara: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge» e l’Art. 9, ove si stabilisce che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» e «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Fondamentale è l’accostamento che l’autore propone fra alcune delle gravi problematiche che la società urbana vive nella città contemporanea, e la cura di tali problematiche che i principi affermati nella Costituzione, «tuttora attuale, ma non ancora attuata in alcuni suoi aspetti fondamentali, dopo settant’anni di vita» (p. 55) – sottolinea Giovanni Maria Flick –, sarebbero in grado ancora oggi di operare, se fossero realmente attuati nei fatti e nella gestione della città. I mali ravvisati della città italiana contemporanea sono sotto gli occhi di chiunque, e sono legati, riconosce ancora l’autore, alla «crescita smisurata e disordinata di molte città che sono divenute invivibili a causa dell’inquinamento di vario genere, del caos urbano, della “privatizzazione” degli spazi riservati a “isole felici e sicure” per pochi, mentre si trascurano e si aggravano i problemi degli esclusi, dei diversi» (p. 43).

Sono legati alla sensazione di spersonalizzazione che la città, soprattutto la grande città, induce negli abitanti, causata da una dilagante globalizzazione, pressoché senza regole, percepita dai più come un fenomeno ostile. Sono legati alla drammatica e crescente esclusione sociale, conseguenza della crescente sperequazione economica provocata dagli «eccessi delle politiche di tipo liberista» (p. 16) vigenti da decenni a scala mondiale. Sono legati all’isolamento e alla solitudine che si vive nelle città, soprattutto nelle estese periferie anonime e prive di centri di aggregazione sociale, alla percezione che «l’identità comune rischia di perdersi per il venir meno dell’integrazione nella città, della sua storia e delle tracce di quest’ul­tima» (p. 43); alla paura del ‘diverso da noi’, dell’immigrato, del socialmente escluso, che ne deriva, e alla diffusa sensazione di insicurezza che a tutto ciò si lega. «La crisi nella città e la paura in essa e di essa ai tempi della globalizzazione – osserva ancora l’autore – irrompono e diventano chiaramente percepibili dopo la guerra, con la rivoluzione industriale (la terza) fondata sull’onnipotenza della scienza e del suo progresso [...], sul superamento del lavoro manuale» (pp. 41-42).

La Costituzione, nei cui principi è la radice del suo fondamentale ruolo nella cura delle problematiche indicate, ha come obiettivo primario la pari dignità sociale di tutti: cittadini e stranieri: «La dignità è la premessa fondamentale di tutto il sistema costituzionale. Rappresenta il completamento indispensabile dell’egua­glianza formale di tutti di fronte alla legge e non può essere impedita da ostacoli di fatto e da distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (p. 55). Giovanni Maria Flick non manca di ricordare, a questo proposito, che già la Bibbia, di fronte alle migrazioni che da sempre hanno segnato la storia dell’uomo, raccomandava il dovere dell’ospitalità allo straniero. Ma nei confronti del migrante, però, rileva ancora l’autore, «oggi non ci stiamo muovendo nella direzione tracciata dalla Costituzione» (p. 56). A proposito della ‘diversità’ dei migranti, l’Art. 10 della Costituzione «scritto in un momento in cui i migranti eravamo noi, [...] affermò l’obbligo di ricevere i migranti ai quali, nel loro Paese, fosse impedito l’esercizio delle [...] libertà democratiche garantite dalla Costituzione: prima fra esse, ovviamente, quella di non morire di fame» (p. 57).

Sono principi fondamentali, affermazioni forti alla base dell’organizzazione di una società, sono delle intenzioni poste come binari per definire la società e dare la direzione della sua evoluzione: non sono le ‘spinte gentili’ di cui scrivevo sopra, messe in atto per assistere l’evoluzione della società sistema complesso. Se mai, le ‘spinte gentili’ potrebbero e dovrebbero essere quelle azioni messe in atto dalla politica lungimirante, dall’amministrazione locale attenta agli interessi generali della comunità e, soprattutto, dalle varie forme della comunicazione critica e libera da asservimenti politici ed economici, volte a sciogliere i nodi sopra descritti, al fine di rendere le città, soprattutto le grandi città, soprattutto le loro estese e anonime periferie, prive di identità e di anima, luoghi più vivibili. Al fine di impedire derive nell’evoluzione della società sistema complesso; derive che, una volta iniziate, spesso si amplificano nel tempo per effetto dei meccanismi non lineari di interazione sociale, portando l’evoluzione sociale stessa ad allontanarsi sempre più dai binari sanciti, fino a quando nelle dinamiche evolutive della società non intervengano fenomeni di rottura improvvisa (le ‘catastrofi’ di René Thom). Rotture che possono insorgere per cause endogene, manifestandosi come imprevedibili fenomeni emergenti, comparsi bruscamente per le non linearità delle interazioni sociali che amplificano le piccole fluttuazioni, oppure essere indotte da cause esogene intervenute inaspettatamente, di fronte alle quali il sistema non sa essere resiliente.

Due concetti, distinti, ma legati fra loro, sono centrali nel pensiero espresso da Giovanni Maria Flick in questo libro.

Il primo è il concetto di bene comune, inteso in senso molto ampio, così da includere beni materiali, come il patrimonio storico e artistico, ma anche beni immateriali come la bellezza del paesaggio, la cultura, e l’identità storica, in opposizione all’appropriazione privata e allo sfruttamento economico di stampo neoliberista. Osserva l’autore, a questo proposito, come l’evoluzione che la categoria dei beni comuni ha seguito con il tempo apra la via a una serie di interpretazioni alternative rispetto all’idea originaria: l’idea che portò a istituire nella legislazione italiana la categoria stessa dei beni comuni, intesa essenzialmente come strumento per contrastare gli eccessi delle politiche di tipo neoliberista, improntate a logiche di mercato e di profitto privato. Interpretazioni alternative, devianti, che si fondano su una strumentalizzazione dei beni comuni, e fra questi anche degli spazi comuni, fra i quali gli spazi urbani e, in generale, le stesse città. Una strumentalizzazione che, stravolgendone l’idea originaria, assimila la categoria dei beni comuni, appartenenti a uno Stato-comunità, alla categoria della proprietà pubblica, appartenente a uno Stato-persona, mirando con ciò alla loro svendita, e rischiando di portare l’intera categoria dei beni comuni a una condizione di asservimento a finalità politiche che vivono nell’immediato o nel breve termine. Da una parte, dunque, una visione dello Stato come una comunità di cittadini liberi, consapevoli e partecipi: uno Stato formatosi ‘dal basso’, nel quale ciascun cittadino si riconosce, e che riconosce come proprio; dall’altra parte, contrapposta, una visione dello Stato come istituzione a sé, un’entità imposta ai cittadini dall’alto, ai cui dettami i cittadini stessi si devono conformare.

Il secondo concetto, in realtà legato al quello di bene comune, è la visione della città come tipico caso in cui si rende concreta l’idea generale di ‘formazione sociale’, di cui parla l‘Art. 2 della Costituzione: «Le formazioni sociali sono un luogo e uno strumento nel quale e attraverso il quale l’individuo realizza la sua personalità. La formazione sociale non dispone di diritti opponibili agli individui che la compongono; anzi questi ultimi vanno difesi rispetto alle eventuali prevaricazioni e offese da parte di essa» (p. 68). La città, scrive ancora Giovanni Maria Flick, «in quanto formazione sociale fra le più significative, rientra nell’ambito dei beni comuni alla stregua della sua realtà e complessità, alla luce del suo sviluppo quantitativo, qualitativo, sociale, culturale, economico e tecnologico, alla luce delle sue degenerazioni attuali e ancor più prevedibili nel prossimo futuro» (p. 17). Egli rileva altresì, a questo proposito, proiettando nella realtà territoriale il sistema urbano complesso, come la città si distingua rispetto alle altre formazioni sociali cui si riferisce l’Art. 2: «La prospettiva del pluralismo – e i riflessi che ne discendono per il principio di solidarietà, evocato esplicitamente dall’articolo 2 della Costituzione fra i doveri inderogabili – non annulla ovviamente le distinzioni che vi sono fra altre “formazioni sociali” ex articolo 2 e le città. Le prime sono prevalentemente realtà sociologiche a carattere privatistico. Le seconde sono realtà istituzionali a carattere locale cui si riferisce l’articolo 5. Le città sono frutto del decentramento previsto dall’articolo 5: sono titolari di autonomie [...] previste dall’articolo 114; sono dotate di attribuzioni amministrative, autonomie funzionali e risorse per il perseguimento dei fini di cui all’articolo 2 in tema di diritti inviolabili e di doveri inderogabili» (pp. 66-67). Una formazione sociale, la città bene comune, dunque, che richiama concetti tipici dei sistemi sociali complessi.

La formazione sociale che chiamiamo ‘città’ è un sistema sociale complesso, che, in quanto tale, è in continua evoluzione, soggetto a dinamiche interne di molti tipi e forme. Ma le città, le singole città, sono anche sistemi fisici, fatti di pietre, mattoni, case, strade, automobili, percorse da flussi materiali e immateriali di molti tipi diversi, e sono a loro volta, soprattutto oggi nel quadro della globalizzazione, poli di più ampi sistemi economici locali e transnazionali. Di più: le città sono sistemi che a loro volta sono parte di sistemi di città sempre più estesi. Tutti questi aspetti ed elementi, a cominciare dalle pietre, dai mattoni e dalle strade, per finire alle reti delle ‘città mondiali’ e delle ‘città globali’, sono il prodotto degli individui e dei gruppi sociali che abitano e vivono le città, ne sono determinati e a loro volta li determinano su scale temporali diverse fra loro. In Italia, la Costituzione, riconoscendo la dignità di ogni individuo, di ogni componente ‘atomico’ del sistema città, implicitamente riconosce alle città libertà di evoluzione sistemica; ma, avverte l’autore, «occorre non confondere il pluralismo sociale con quello istituzionale e con quello politico; riconoscere che il primo non è sufficientemente garantito dalla sola libertà di associazione politica. D’altronde la pubblicizzazione e la istituzionalizzazione del pluralismo possono essere viste come un aiuto per utilizzare al meglio le capacità rappresentative di un organismo che sia espressione di aggregazione sociale; ma possono pur sempre risolversi in una perdita di autonomia, se non di responsabilità dei soggetti sociali interessati. [...] L’attivazione del pluralismo sociale e delle autonomie sul territorio non si esprime più soltanto nell’organizza­zione autarchica degli enti locali. Si esprime altresì nelle relazioni con gli individui e con le formazioni sociali che sono espressione di quel territorio. Il principio democratico non passa più soltanto per quelli di autonomia e di decentramento, ma anche e prima ancora attraverso il riconoscimento di un ruolo fondamentale ai singoli e ai corpi intermedi che sul territorio vivono e operano» (pp. 69-70).

 

La città bene comune

Sulla contrapposizione a tre di cui sopra si è detto, fra bene comune, proprietà pubblica e appropriazione privata, si possono sviluppare alcune considerazioni, in riferimento alla città.

La riflessione su ciò che è ‘pubblico’ e ciò che è privato copre, in realtà, una varietà di temi e ambiti distinti, ma in qualche modo collegati fra loro. L’esistenza di una dimensione pubblica della vita urbana, nonostante sia andata sempre più riducendosi a favore di una vita in una dimensione privata sempre più autoreferenziale, come già osservava Richard Sennett negli anni Settanta, richiama l’attenzione direttamente sulla necessità di distinguere che cosa sia pubblico e che cosa non lo sia. La necessità di definire cosa significhi ‘pubblico’ e di classificare ciò che è ‘pubblico’ ha una genesi lunga e articolata: è la stessa organizzazione sociale della cultura occidentale che si fonda sulla complementarità tra la categoria del ‘pubblico’ e quella del ‘privato’, legate a due sfere distinte dell’esistenza individuale.

Come per i beni comuni in senso generale, anche quelli urbani sfuggono a una tassonomia univoca. Parlare, in generale, di spazio urbano come un bene comune, significa sottolineare il fatto che lo spazio urbano non è solo uno spazio fisico, ma è anche uno spazio di relazioni: è uno «spazio antropologico», per usare l’espres­sione di Maurice Merleau-Ponty. Uno spazio urbano nel quale, scriveva Michel de Certeau nel 1980, gli individui sono enunciatori di un proprio discorso spaziale attraverso cui si esprimono le loro «tattiche del quotidiano», in risposta alla strategia oppressiva del potere: «Le successioni di passi sono una forma di organizzazione dello spazio, costituiscono la trama dei luoghi. [...] Non si localizzano: sono esse stesse a costituire uno spazio» (Certeau, L’invention du quotidien, 1980, p. 150). Per cogliere a fondo molteplici significati dello spazio urbano bisogna ascoltare «le parler des pas perdus»: ‘la voce dei passi perduti’, i passi dei suoi abitanti che quello spazio urbano frequentano e nel quale vivono. Uno spazio urbano bene comune, dal quale nessuno può e deve essere escluso. Uno spazio urbano, dunque, che, così come il paesaggio urbano in cui esso s’inserisce, è in stretta e costante relazione con chi lo abita: cittadine e cittadini, persone con le loro aspirazioni e i loro diritti, un bene comune che deve essere governato in considerazione di questa sua specifica natura.

Si possono identificare almeno due tipi di immaginari come sfondo alla categorizzazione dei beni comuni: da una parte, ciò che è aperto e accessibile rispetto a ciò che è nascosto; dall’altra parte, ciò che è collettivo, o riguarda gli interessi di una collettività, rispetto a ciò che è di interesse individuale.

Nel modello economico-liberale della società, dominante in questi anni, la distinzione tra pubblico e privato riconduce all’opposizione fra il ruolo dell’ammini­strazione statale e l’economia di mercato, così come al confronto dell’individuo con le organizzazioni e l’azione dello Stato. In tale confronto si riflettono le due risposte al problema di ordine sociale già postosi all’inizio dell’età moderna: la risposta formulata da John Locke e da Adam Smith, con l’idea che il mercato si autoregoli naturalmente per effetto delle azioni mosse dagli interessi individuali, e la risposta formulata da Thomas Hobbes e da Jeremy Bentham, con l’affermazione della necessità di una figura (o una forza) che si ponga al di sopra della società, che abbia come scopo garantirne l’ordine e il funzionamento. La solidarietà e la responsabilità sono dunque, nel modello economico-liberale di società, gli elementi fondamentali che caratterizzano la dimensione pubblica.

Per contro, nel modello di società improntato alla socialità e non alla competizione economica, che si ricollega all’idea di vita pubblica analizzata da Jane Jacobs, di cui ho detto sopra, la salute della vita pubblica non si misura guardando solo all’autodeterminazione o alla presenza dell’azione collettiva, ma guardando anche alla spontaneità e alla vivacità della vita pubblica stessa. Caratteristiche, queste, che nascono dalla continua interazione fra individui, o gruppi di individui, eterogenei, tutti impegnati nella realizzazione di una coesistenza civile. La dimensione pubblica si concretizza, in tal caso, proprio nella socialità che la caratterizza.

A questo modello di società si può associare il riferimento all’idea di una ‘sfera pubblica’, per usare l’espressione di Habermas, fondata sul concetto di cittadinanza e di appartenenza. Un modello, questo, che considera ‘il pubblico’ nei termini di comunità politica e di cittadinanza, facendo uso di un’accezione del termine comparsa nella Francia di Luigi XIV, in riferimento alla comune frequentazione dei teatri parigini da parte di «la cour et la ville» – titolo di uno studio di Erich Auerbach del 1951 –, la corte e la nuova borghesia, laddove, precedentemente, ‘pubblico’ aveva significato simile al nostro attuale ‘bene comune’. La cour et la ville, a teatro, a Parigi, iniziano dal Seicento a essere indicate, insieme, come ‘le public’: un’accezione nuova di un termine esistente, ‘pubblico’, che amplierà ulteriormente il proprio campo semantico con la rapida ascesa della borghesia europea illuminista settecentesca. Una classe sociale in grande sviluppo, la borghesia, che frequenta i nuovi parchi pubblici urbani, e discute nei caffè, nuovi luoghi di incontro aperti a tutti, da poco comparsi e diffusi nelle grandi città europee, e che darà inizio e forma a ciò che oggi chiamiamo ‘sfera pubblica’. Concetto ben distinto, dunque, quello di ‘pubblico’, inteso come comunità politica e cittadinanza, da quelli di Stato e mercato, e che, in un certo modo, si richiama alle virtù classiche e repubblicane. Al centro della vita pubblica vi è, in questo modello della società, la partecipazione attiva al processo di elaborazione delle decisioni da parte di una nuova ampia classe sociale: non più sudditi, ma un pubblico attivo e partecipe al sistema Stato. ‘Pubblico’ rimanda, così, in questo senso, al significato più specifico di ‘relativo alla discussione, al dibattito, alla produzione collettiva delle decisioni’ e, in particolare, all’idea di partecipazione attiva alla società urbana.

Come osservava Françoise Choay già nel 1965, in L’urbanisme, utopies et réalités. Une anthologie, ancora nella piena realtà della città fordista, il fondamento puramente scientifico dell’urbanistica è un’illusione: l’urbanistica è un campo filosofico in cui si affrontano valori a favore e contro la società meccanizzata. Il pianificatore non può non avere dubbi e difficoltà, ma ha a disposizione concetti teorici e strumenti operativi come la statistica, la sociologia, la storia, la morfologia, garanti di una lettura sensata delle operazioni realizzate, contro la libera immaginazione e il dirigismo del demiurgo.

La città, scriveva la Choay, è un oggetto sociale che dialoga con una società, con ‘un pubblico’ costituito dai cittadini, e non esclusivamente con gli specialisti: su questo poggia l’essenza del progresso democratico. La città non è riducibile a un mero insieme di funzioni vitali, né al cieco mantenimento nel tempo di uno stato esistente, e neppure a un qualsiasi modello utopico. La città è una lingua viva che deve essere intellegibile a tutti i cittadini: al tutto ‘il pubblico’. Altrimenti, la città si svilupperà intorno a una concezione individualistica ed edonistica, in un’ottica di appropriazione privata che rifiuta vincoli e limitazioni, e porterà allo sviluppo incontrollato e disordinato del periurbano che consuma suolo ai bordi della città perennemente in crescita, come quello a cui si assiste in questi ultimi decenni, e alla perdita dei valori identitari, simbolici e culturali del centro storico, spento nella propria vitalità, privato di anima, e trasformato in impresa economica. Altrimenti, sarà sempre più incombente il drammatico scenario di quella che la Choay chiamava «la mort de la ville».

È indispensabile trovare forme nuove e alternative di organizzazione del paesaggio e del territorio che allontanino quello scenario e, attraverso modalità relazionali, restituiscano all’abitante della città lo spazio di relazione e di prossimità, il senso della centralità e del limite, in una parola: l’urbanité. Che restituiscano al cittadino la qualità della vita urbana perduta nell’esplosione mondiale delle città in inarrestabile crescita. Che restituiscano al cittadino «le droit à la ville» di cui parlava Lefebvre. Quel «diritto alla città» che oggi, richiama Giovanni Maria Flick, si precisa come «diritto alla città giusta»: a una città che non esclude i socialmente svantaggiati, che siano essi gli economicamente deboli, gli immigrati o altro. Di fronte alla Costituzione non esistono differenze di alcun tipo fra gli individui.

Diritto, dunque, a una città progettata secondo un’urbanistica che non si risolva, richiama Giovanni Maria Flick, in una «“cornice” soltanto tecnica e/o estetica, senza tener presente il contenuto o inseguendo il mito della città ideale più che la realtà della città “giusta”». Diritto a una città bene comune che si sviluppi intorno a «un rapporto equilibrato fra politica, tecnica, economia ed estetica» (p. 93), nella quale, salvaguardando anche la forma sociale a fianco di quella architettonica, emergano le potenzialità espresse dall’incontro fra cultura e territorio. Un diritto, quello alla città giusta, che si affianca agli altri diritti fondamentali, civili, politici, sociali ed economici, che la Costituzione riconosce e garantisce a tutti, che rischia di essere conculcato nella città della globalizzazione e del neoliberismo: «Con l’abolizione delle distanze e delle frontiere, [la globalizzazione] può provocare lo sradicamento dell’uomo dal proprio ambiente e incidere negativamente sulla sua identità. [...] Può cioè indurre una condizione di insicurezza che a sua volta si può risolvere in reazioni di intolleranza e di tendenza all’isolamento, [...] di aggressività, di esasperazione nazionalistica, di xenofobia» (p. 73).

 

Conclusioni: auspicio per l’architettura e l’urbanistica nella città contemporanea

Il titolo del libro di Giovanni Maria Flick formula una domanda: la città è da elogiare? Al termine della lettura dell’analisi condotta dall’autore forse l’interrogativo, in parte, rimane.

Molti sono gli aspetti negativi che si rilevano nella città di oggi, la città del neocapitalismo. Molti di questi richiamano aspetti simili della città del capitalismo: quelli che Lefebvre denunciava alla fine degli anni Sessanta, parlando della città della modernità come di ‘città prodotto’, contrapponendola alla ‘città opera’. Ma la città è imprescindibile nella storia dell’uomo, lo è da oltre diecimila anni e per molti motivi. Tutto o quasi ciò che l’uomo ha fatto, dal neolitico in avanti, l’ha fatto in città. La città ci serve, è una ‘formazione sociale’ troppo importante per noi esseri umani. Però, quasi sempre vorremmo una città diversa, almeno da quando è iniziato il rapido e convulso sviluppo dell’urbanesimo, da quando la prima rivoluzione industriale cominciò a richiamare in città masse di contadini in cerca di miglior sorte, creando i primi forti squilibri sociali legati all’immigrazione. E allora ripensiamo con ammirazione e nostalgia alla città precedente, soprattutto rimpiangendo la città rinascimentale: una città piccola, ben disegnata e ben integrata con il territorio circostante, con una popolazione omogenea, con pochi stranieri, solo commercianti e, al massimo, una certa quota di ‘villani’ provenienti dal contado quando potevano permettersi di vivere in città. Oppure immaginiamo una città utopica, anch’essa con una popolazione omogenea, una città che non c’è, e che, se ci fosse qualcosa che le somiglia, probabilmente, per varie ragioni, non ci piacerebbe. La parola ‘utopia’, coniata da Thomas Moore nel Cinquecento, denominava un’isola immaginaria, abitata da una società ideale, eppure è un termine che spesso, da secoli, è associato in vari modi alla progettazione urbana. Porsi come obiettivo un progetto utopico significa mirare più lontano che non alla semplice costruzione particolare: significa avere una prospettiva in cui l’orizzonte al quale ci si rivolge rientri in un panorama più ampio, che corrisponda al mondo intero con le sue relazioni, le sue esigenze, la sua umanità, la sua fragilità, la sua storia, il suo spirito e il gioco delle sue forze.

E allora come rispondiamo all’interrogativo posto nel titolo? La città, in realtà, questo è uno dei messaggi del libro di Giovanni Maria Flick, non deve guardare con rimpianto a un passato né inseguire utopie. Le tipologie di insediamento di oggi richiedono, invece, nuovi strumenti operativi e una nuova cultura urbana in un approccio diverso da quello puramente urbanistico-edilizio seguito nel passato, anche recente.

L’oggetto dell’architettura è lo spazio: l’architettura organizza lo spazio e lo consegna al tempo. Il tempo e lo spazio diventano così realtà e luogo. L’architettu­ra, in questo senso, in una città in costante evoluzione, si inserisce nella pratica dell’urbanistica come una fra le molte discipline che, in qualche modo e a diverso titolo, vi confluiscono. La città è un vasto insieme di strutture e funzioni, è sede di interessi individuali e collettivi: deve raccogliere, organizzare, soddisfare e tutelare le preferenze, i diritti, le opportunità di vita, i bisogni dei cittadini, tenendo conto delle loro soggettività e oggettività. Le trasformazioni che la città sistema complesso ha attraversato negli ultimi decenni, dopo il tramonto della stagione della modernità, del fordismo e delle concezioni urbane volte prevalentemente alla razionalizzazione della città intesa soprattutto a favorire l’accumulazione capitalistica – la ‘città prodotto’ di cui scriveva Lefebvre –, hanno visto emergere nuovi presupposti culturali per il progetto del territorio, assegnando un ruolo predominante allo spazio pubblico e agli interventi sul paesaggio, inteso come un bene pubblico, e in particolare al paesaggio urbano. Sono state così coinvolte nel settore dell’urbanistica, fra le altre, numerose pratiche di progettazione del paesaggio, tali da dare origine a un nuovo ambito interdisciplinare. Questo processo ha anche avuto il merito di dar vita a un nuovo concetto di paesaggio, lontano dalle logiche disciplinari e settoriali, e vicino a una prospettiva di maggiore portata, che concepisce il paesaggio stesso come un fondamentale elemento integrato in una più ampia dimensione territoriale.

È oggi essenziale, afferma Giovanni Maria Flick, una ridefinizione giuridica e professionale della figura e del ruolo dell’architetto: colui che «ha il compito di tradurre le idee e i desideri degli uomini nel linguaggio delle pietre» (p. 9). E ciò, sia alla luce di quanto discusso sopra sia nella considerazione dell’inscindibile trinomio architettura-urbanistica-paesaggio urbano – mi limito a paesaggio ‘urbano’ solo perché di città stiamo parlando –, che richiama il trinomio di più ampia portata territorio-ambiente-paesaggio, nel quale esso s’inserisce, proiettandolo e contestualizzandolo sulla città. La ridefinizione della figura e del ruolo dell’architetto dovrà tener conto sul piano giuridico, professionale ed etico delle gravi difficoltà in cui la tutela, garantita dalla Costituzione, del territorio, dell’ambiente e del paesaggio, fondamentali beni comuni, è attuata in Italia, e di come, sottolinea l’autore, essa sia spesso pesantemente vittima di «un intrico normativo», di un «conflitto fra le competenze dello Stato e delle Regioni» (p. 21) e di conflitti fra interessi privati e interesse pubblico, quando non di veri e propri abusi.

Il riferimento della ridefinizione giuridica e professionale della figura e del ruolo dell’architetto che si rende necessaria, è all’architetto inteso in un senso molto ampio, ma in particolare – mi permetto di precisare io – è all’architetto urbanista o all’urbanista tout court, inteso come il professionista che si occupa specificamente di progettazione, riqualificazione e tutela della città, del territorio e dell’ambiente. La figura dell’urbanista, in Italia, è da sempre associata a quella dell’architetto – si pensi a ciò che furono Filippo Juvarra, per la Torino barocca, e prima ancora, Leon Battista Alberti e il Filarete per l’Italia rinascimentale – e, in tempi più recenti, anche a quella dell’ingegnere civile, ma in quasi tutti gli altri paesi, in particolare in Francia e nei paesi anglosassoni, ne è ben distinta. Diversi infatti sono gli ambiti culturali in cui architettura e urbanistica si inseriscono, diversi i saperi che esse coinvolgono fin dalle rispettive scuole di formazione, e differenti sono gli approcci con cui esse guardano al territorio su cui entrambe operano. È essenziale una ridefinizione che, sottraendo la professione del progettista urbano alle imposizioni del mercato, svincoli il progettista stesso dalle attuali logiche economiche neoliberiste, fondate sulla ricerca del profitto originato dall’appropriazione privata e sullo sfruttamento economico; logiche antitetiche a quelle sottostanti al progetto della città bene comune.

«Prima che di regole – scrive Giovanni Maria Flick – il problema è quello di una nuova cultura. La città con il suo complesso di prospettive, di collegamenti e di problemi [...] è tradizionalmente oggetto di analisi approfondite, ma settoriali. In esse troppo spesso rischiano di infiltrarsi interessi economici, professionali, di potere. A tutti [...] spetta ricordare che il tema del paesaggio e dell’ambiente – di fronte alle nuove dimensioni della città, ai cambiamenti climatici, ai fenomeni demografici e migratori, alle nuove risorse scientifiche e tecniche a disposizione – non può più evocare soltanto l’articolo 9 della Costituzione. È essenziale ma non è sufficiente il trittico proposto da quell’articolo fra la cultura [...], la ricerca scientifica e tecnica [...] e il paesaggio e il patrimonio storico e artistico» (pp. 80-81). Come non essere d’accordo con l’autore?

È essenziale, richiama ancora Giovanni Maria Flick, affiancare alle competenze tecniche dell’architetto urbanista «la cultura della legalità sostanziale, della reputazione e della vergogna, che prende le mosse inevitabilmente da un discorso più generale: la cultura civile e sociale e la rivalutazione della dimensione personale e umana del professionista» (p. 84). «Il recupero di un’etica e di una deontologia della professione di architetto» (p. 85) che rischiano di essere relegate in secondo piano nel contesto attuale di individualismo e di competitività esasperata basata sulla logica del profitto.

In tutto il comparto delle professioni intellettuali, osserva l’autore, si manifesta sempre più spiccatamente, favorita anche dalla legislazione europea, la tendenza a considerare le attività professionali come servizi al cliente, e i professionisti come fornitori di servizi, nel quadro di una generale spinta ‘mercatista’, che caratterizza l’attuale contesto neoliberista. Una fondamentale questione, etica prima che giuridica, a cui non è estranea neanche la professione di architetto. Ed è proprio intorno alla dicotomia fra professione e impresa, scrive Giovanni Maria Flick in riferimento alla figura e al ruolo dell’architetto urbanista, che si sviluppa uno degli snodi centrali della crisi attuale della città. In relazione a questa dicotomia si impone urgentemente un nuovo ordinamento della professione di architetto, che si confronti con le questione dell’identità culturale prima ancora che professionale, e che recuperi «la componente umanistica che appartiene all’identità e alla formazione culturale e professionale degli architetti, e l’idea di lavoro intellettuale come espressione autentica della personalità sociale» (p. 91).

Proprio il recupero di un’etica e di una deontologia della professione di architetto, così come il principio fondamentale del rispetto dell’ambiente bene comune, nella progettazione e nell’edificazione, sono stati posti a fondamento del ‘giuramento di Vitruvio’ per l’architetto, modellato sul giuramento di Ippocrate per il medico, proposto da Salvatore Settis fin dal 2014: un giuramento che si rifà a quanto già scriveva Vitruvio nel primo secolo a.C., nel De architectura, là dove egli «delinea la figura dell’architetto ideale, elencando fra le sue virtù necessarie la cultura che noi chiameremmo umanistica, la conoscenza storica, il rispetto della salubrità dell’ambiente» (Settis, «Il Sole 24 Ore», 29 gennaio 2017). Mi limito a riportare, in questa sede, il primo degli articoli del giuramento di Vitruvio: «Giuro di custodire ed accrescere la conoscenza in diversi campi, umanistici, di scienze ed arte, per operare a favore della società e dell’ambiente».

Nella medesima prospettiva del giuramento di Vitruvio, già fatto proprio dall’Ordine degli Architetti di Reggio Emilia, è orientato il Codice deontologico degli architetti, pianificatori, paesaggisti, conservatori, architetti iunior e pianificatori iunior italiani, approvato nella Conferenza degli Ordini e deliberato dal Consiglio Nazionale, in vigore dal 1 settembre 2017, nel quale sono confluiti i codici deontologici delle singole specializzazioni, del decennio precedente, il quale fra le altre cose stabilisce all’Art. 3: «Il Professionista ha l’obbligo di salvaguardare e sviluppare il sistema dei valori e il patrimonio culturale e naturalistico della comunità all’interno della quale opera»; e all’Art. 6: «Nell’esercizio dell’attività professionale il Professionista ha il dovere di conservare la propria autonomia di giudizio, tecnica e intellettuale, e di difenderla da condizionamenti di qualunque natura» compresi quelli economici.

Una nuova definizione professionale e giuridica dell’architetto, i cui errori non sono, dice un noto aforisma, come gli errori del medico, sepolti sotto terra, ma sono sotto gli occhi di tutti, per tempi a volte lunghissimi. Una nuova figura polivalente, quella dell’architetto, auspica Giovanni Maria Flick, che si inserisca e agisca nell’ambito di una nuova legge urbanistica per l’Italia, a quasi ottant’anni dall’ormai storica legge del 1942, la prima e unica legge urbanistica di ampio respiro mai promulgata in Italia, tuttora vigente. Che si inserisca in una nuova legge sulla città di cui sia parte la disciplina urbanistica, con tutte le implicazioni di ordine sociale, economico, giuridico e politico che essa richiede.

Una legge sulla città, precisa ancora Giovanni Maria Flick, «volta a definire i principi fondamentali in materia, gli incentivi per intervenire nel contesto della competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni, il coinvolgimento e la partecipazione di abitanti e soggetti pubblici e privati nei processi di rigenerazione [...] a formare una nuova cultura della sostenibilità ambientale ed economica» (p. 100).

Che miri a valorizzare il ruolo imprescindibile della città, che da sempre ha segnato la qualità della vita e l’attitudine dell’uomo alla vita sociale e alla convivenza, per uno sviluppo adeguato in termini di sostenibilità e resilienza di fronte ai grandi cambiamenti economici, sociali, ambientali e climatici; e soprattutto nel rispetto di imprescindibili termini di giustizia sociale affermati e garantiti dalla Costituzione.

Franco Vaio

 

 

 

N.d.C. Franco Vaio, fisico, già docente di Matematica al Politecnico di Torino, si è occupato di fisica della alte energie e di ricerca industriale nel settore della sintesi e del riconoscimento vocale. È autore di numerosi testi nel campo della fisica sperimentale delle particelle elementari, della storia e della didattica della fisica, dei sistemi complessi.

Tra i suoi libri sui temi urbanistici e sociali (con Cristoforo Sergio Bertuglia): Non linearità, caos, complessità. Le dinamiche dei sistemi naturali e sociali (Bollati Boringhieri, 2003, 2007; ed. ing. Oxford university press, 2005); Complessità e modelli. Un nuovo quadro interpretativo per la modellizzazione nelle scienze della natura e della società (Bollati Boringhieri, 2011); Il fenomeno urbano e la complessità. Concezioni sociologiche, antropologiche ed economiche di un sistema complesso territoriale (Bollati Boringhieri, 2019).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri

R.R.


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05 GIUGNO 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020:

G. Nuvolati, Città e Covid-19: il ruolo degli intellettuali, commento a: M. Cannata, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19 (La nave di Teseo, 2020)

P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)

V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)

E. Micelli, Il futuro? È nell'ipermetropoli, commento a: M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019)

A. Masullo, La città è mediazione, commento a: S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

P. Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui partire, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

M. Pezzella, L'urbanità tra socialità insorgente e barbarie, commento a: A. Criconia (a cura di), Una città per tutti (Donzelli, 2019)

G. Ottolini, La buona ricerca si fa anche in cucina, commento a: I. Forino, La cucina (Einaudi, 2019)

C. Boano, "Decoloniare" l'urbanistica, commento a: A. di Campli, Abitare la differenza (Donzelli, 2019)

G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle
donne.it, 2019)

F. Indovina, È bolognese la ricetta della prosperità, commento a: P. L. Bottino, P. Foschi, La Via della Seta bolognese (Minerva 2019)

R. Leggero, O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto, Commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)

L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città (Quodlibet, 2018)

L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

G. Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te?, commento a: C.Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)

M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)

A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)

P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)

W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)

L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)

 

 

 

 

 

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