Il sistema universitario italiano ingolfato nelle sue lente manovre, provinciale e obsoleto, fintamente egualitario, non sembra preparato ed equipaggiato ad affrontare l’economia della conoscenza, in cui suo malgrado è inserito. Eppure molti ricercatori che oggi lavorano presso i migliori centri di ricerca nel mondo sono usciti proprio dalle università italiane.
Parlando di Università, facendo e disfacendo riforme, sarà sfuggito ad alcuni un dato macroscopico che riguarda la formazione e il futuro degli studi in Italia: sempre più denaro viene speso nel mondo per una formazione di alto livello e sempre più le università aumentano tra loro la competizione.
Che cosa significa prendere questa direzione? Decidendo se, come e quanto investire, come dovrebbe agire il governo di un Paese di fronte a questo cambiamento? E cosa ci dice questo sullo stato attuale dell’Università? The Economist (28 marzo – 3 aprile 2015) ha dedicato un dossier a questi interrogativi – The Whole World Is Going to University – dove emergono chiaramente alcuni punti su cui dovremmo tutti iniziare a riflettere.
Innanzitutto è un fatto che il modello standard dell’università nel mondo è quello americano, che a sua volta era stato una fusione tra il modello Oxbridge e quello delle università tedesche del XIX secolo. Che l’americanizzazione dell’Università sia un bene o un male non è più questione in discussione poiché è ormai un fatto. Gli Stati Uniti hanno creato il sistema della formazione universitaria d’eccellenza e della ricerca e poi lo hanno esportato in Europa e in Asia.
Che piaccia o no oggi si gioca secondo le regole di questo sistema. Non avendo neanche un’università tra le prime cento nel mondo, il nostro Paese è già fuori da questo gioco, — o, se si preferisce, diciamo che lo guarda da seduto in panchina. Questo dato non è irreversibile ma bisognerebbe intervenire subito incoraggiando la ricerca con maggiori investimenti mirati e adeguando il sistema universitario italiano al sistema dell’università-mondo.
Chiamo così l’attuale sistema dell’università — facendo eco al concetto di économie-monde di Braudel — poiché le sue caratteristiche sono ormai misurate in uno spazio geografico percepito come sempre più ristretto, dove i dati sono calcolati comparando valori omogenei a paesi e culture differenti. Non importa se un’università sia in Oregon, in Cina, a Johannesburg o in Sicilia, i criteri di giudizio in base ai quali si stilano le liste e si valuta la loro attività sono gli stessi.
Se vogliamo discutere seriamente d’università, dobbiamo partire da questo dato: una volta c’erano le università, ognuna con la sua storia, oggi c’è l’università-mondo. Possiamo spostarci geograficamente, si può cambiare lingua, ma il sistema resta ovunque lo stesso. Tutte le università stanno intensificando la competizione tra loro in base all’eccellenza, sia per la qualità della ricerca che offrono, sia nella selezione degli studenti che tali università impongono. Se accettiamo dunque questa premessa, il primo dato che raccogliamo contrasta con la situazione attuale italiana, — ed è preoccupante.
Negli ultimi due decenni la popolazione studentesca mondiale è aumentata dal 14% al 32% grazie ai paesi emergenti, quando da noi invece si sta abbassando. Le persone vogliono studiare all’università per trovare un buon lavoro e poter entrare nella middle class. C’è una domanda molto forte e quindi segue un’offerta altrettanto vigorosa. Per questa ragione le università hanno iniziato a valutarsi, perché le famiglie che pagano l’iscrizione dei propri figli per un futuro migliore vogliono sapere quale università scegliere.
L’Economist fa giustamente notare che...
Continua la lettura su cheFare.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA 30 GIUGNO 2015 |