Gabriele Scaramuzza  
  casa-della-cultura-milano      
   
 

DA KAFKA ALLA SAPIENZA MODERNA


Dialogo con Fulvio Papi



Gabriele Scaramuzza


altri contributi:



  gabriele-scaramuzza-dialogo-fulvio-papi.jpg




 

In occasione della Tavola rotonda

PER RAGIONARE CON FULVIO PAPI IN OCCASIONE DEI SUOI 90 ANNI

 

Non ricordo quando ho conosciuto Fulvio Papi. O meglio, l’unica data certa è il 13-14 maggio 1967, a Reggio Emilia, in occasione del Convegno di Studi Banfiani, di cui furono poi pubblicati gli Atti col titolo Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo da La Nuova Italia nel 1969.

Sotto l’insegna di Banfi è dunque avvenuta la mia conoscenza personale di Papi. E non a caso i primi scritti suoi che ho letto riguardano il suo maestro: Il pensiero di Antonio Banfi mi è stato indispensabile per la tesi, ed è tuttora insostituibile per qualsiasi approccio a Banfi. Ho poi letto sul tema altri scritti, numerosi e comunque imprescindibili, fino a Antonio Banfi. Dal pacifismo alla questione comunista; e ho anche fatto tesoro di non poche sue testimonianze orali.

Quanto ho potuto cogliere del suo pensiero, gli incontri, le conversazioni anche solo telefoniche, mi sono stati di stimolo da anni, vuoi nel senso che hanno trovato consenso in me, vuoi nel senso che mi hanno suscitato interrogativi. Le sue convinzioni sono state oggetto di dialogo tra me e me, implicitamente o meno più di una volta ho cercato di confrontarmici. E questo non solo sul piano filosofico e letterario, ma anche più ampiamente culturale, e di attualità varia: mi hanno orientato meglio nell’intrico delle questioni oggi sul tappeto, e talvolta hanno toccato radici personali. E tutto questo è stato sostenuto da un tono partecipativo che non dimentico: la capacità di empatia, di “intelligenza primaria” direbbe Dostoevskij, appartengono a Fulvio Papi. Ed è raro, non è poco nella vita.

I suoi scritti non sono mai semplici, tanto meno scontati; danno molto da pensare, scrostano opinioni invalse, costringono a rifletter su di sé. E, almeno in me, ogni lettura lascia il dubbio di non aver afferrato tutto fino in fondo. Mi sono tracciato personali vie d’accesso al suo pensiero; mi limito ora a pochi spunti cui a modo mio ho fatto ricorso per orientarmici.

Il primo riguarda naturalmente il suo rapporto con Banfi; un rapporto sempre pieno di riconoscenza e di affetto, molto lontano da quello di allievi che talora hanno tenuto a marcare la loro differenza dal maestro, e in toni non sempre cortesi. Non ascriverei mai al pensiero di Fulvio Papi alcuna forma di ottimismo, come spesso è stato rimproverato a Banfi; mi ha sempre attratto il suo sguardo lucido, disincantato, che traspare allorché gli chiedo pareri non solo su questioni filosofiche ma anche su problemi attuali. Quel suo “prender le cose alle radici” (così me lo figuro), del tutto alieno da ogni luogo comune, mi è sempre stato prezioso. Il termine “tragico” non mi sembra appartenga al suo lessico, Papi non vi ricorre quasi mai; e tuttavia è ben consapevole di risvolti della nostra esperienza vissuta che non saprei definire se non come tragici.

Il secondo spunto si riferisce alle critiche di Banfi a quelle che chiama, nei Principi di una teoria della ragione, le “teorie di un principio reale del conoscere”, che postulano un “valore ontologico” del discorso, un’aderenza delle parole alle cose. Di qui il trascorrere dell’attenzione di Banfi, al di là di ogni realismo, dal “mondo della vita” al suo costruirsi nelle forme della cultura. Non a caso la filosofia di Banfi si delineerà negli anni Trenta essenzialmente come una filosofia della cultura e non tout-court della vita.

Entrambi questi spunti mi hanno aiutato a entrare meglio nel pensiero di Papi; o, quanto meno, sono stati per me uno strumento per accostarmi al suo mondo. Mi ha colpito da subito in lui (traduco con parole sommarie) il concentrarsi del suo pensiero sui percorsi mediante i quali “il reale” si costituisce in mondi simbolici; come riflessione dunque, più che sul suo darsi, sulle vie del suo costruirsi, che affonda le proprie radici nei contesti storico-temporali da cui ha tratto alimento. Lo stesso vale anche per il suo Marx, così originale e attuale.

L’appannarsi dell’orizzonte ontologico del pensiero, lo scollarsi delle parole dalle cose, l’ho vissuto come qualcosa che in certo modo mi appartiene. E ha come risvolto la disgregazione dei valori che da quell’orizzonte traggono linfa. Proprio a questa “crisi”, quale si delinea nel periodo della decadenza dell’impero asburgico Papi dedica tra le più affascinanti riflessioni della sua tersa e fertile terza età.

Certamente, nella mia ottica, sullo sfondo lontano dell’interesse di Papi per il tema della “crisi” agiscono le riflessioni di Banfi; anch’esse risalgono agli anni tra le due guerre mondiali, in cui escono le grandi opere di Broch, Musil, Roth, Svevo, pur così diverse per atmosfere, figure e temi dal mondo banfiano. Non è un caso che alla “crisi” Banfi dedichi importanti riflessioni negli anni 1934-35, consegnate in appunti che, di nuovo non a caso, sono stati riediti nel 2013, a cura di Papi e Minazzi.

Vengo ora a uno dei testi dell’ultimo Papi che più mi ha fatto non poco pensare: L’impossibile “perché”[i], dedicato alle tappe, ai modi, in cui questa impossibilità si è manifestata. Ogni domanda è interdetta ad Auschwitz, lo ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo; Hier ist kein Warum[ii] gli si risponde allorché pone una domanda peraltro scontata; più oltre leggiamo anche, scritto da un detenuto: “ne pas chercher à comprendre”. Oggetto del testo di Papi tuttavia non è solo un “perché” proibito o rischioso, bensì piuttosto persino “impossibile”. Impossibile per chi? chi ne decreta l’impossibilità? e come mai? Nel contesto, il limite estremo della questione è rasentato da Kafka. E su questo soprattutto mi soffermo.

Non è pensabile leggere L’impossibile “perché” senza considerarlo alla luce di taluni ultimi saggi che sviluppano tensioni esistenziali sempre latenti in Papi: scavano in profondità problematiche che non esiterei a chiamare teologiche, religiose sullo sfondo. L’impossibile “perché” rende conto dei diversi livelli a cui si pone il problema, e delle diverse risposte che gli si danno. “Il ‘perché’ del Giobbe biblico deriva dalla distanza infinita della creatura dal creato […]. Dio può mettere alla prova Giobbe che tuttavia […] mantiene intatta la fede nell’infinita imperscrutabile volontà di Dio”. Da subito non ottiene risposta, certo, l’interrogativo; e tuttavia c’è la fiducia che questa risposta vi sia, in una trascendenza inafferrabile nella nostra limitata immanenza. La domanda resta già qui inevasa: “il mio problema, scrive Papi, è seguire la storia di un perché che alla fine rimane senza alcuna risposta”.

Il Giobbe di Joseph Roth attraversa sventure che lo conducono a un “tragico e impenetrabile”, “desolato” perché; il caso narrato si inscrive pur sempre in un ambito in cui “la sciagura, la violenza, la pena, devono trovare sempre una Alterità nel cui potere sia provocare un’altra storia. Il silenzio, l’impossibilità, il nulla vi sono solo quando l’immanenza condanna se stessa, quando l’identità tra l’esistenza e la colpa è data dalla stessa condizione umana”. Con ciò è compiuto il passo verso Kafka, il cui “Giobbe non detto” (cioè Joseph K.) vive, nel Processo, “l’estinzione di qualsiasi senso del suo ‘perché’”. In Kafka “la colpa, più che originaria, è inevitabile: l’esistenza stessa ha preso la forma di una colpa”.

Le pagine dedicate da Papi a Kafka recano a titolo, e pour cause, La colpa dell’esistenza. Ne ripercorro alcuni tratti: il protagonista “oppone la forma della sua razionalità educata socialmente alle insensate e grottesche” situazioni e persone che la mettono a priori fuori gioco (non è così anche col nazismo, con tutti i regimi totalitari che per certi tratti Kafka sembra prefigurare?). “Grottesco” ricorre nel lessico di Papi, con assoluta proprietà; e non a caso si accompagna a termini quali umiliante, volgare, sudicio, aggressivo; inconcepibile infine, e ciò nonostante produttivo di inenarrabili orrori.

In relazione a Joseph K. nel romanzo non v’è traccia di colpa: di colpa esplicita, provata, quanto meno: di colpa esprimibile nei termini del linguaggio di cui disponiamo. “In tutta la narrazione non esiste una risposta plausibile”, non c’è ragione che tenga e possa esprimersi: Joseph K. “vive nell’ombra di un irriducibile ‘perché’”. Non solo viene messo “fuori senso qualsiasi esame di coscienza”, ma insieme è esautorata ogni presa di coscienza; l’idea stessa della verità, della giustizia risultano prive di senso. Ciò cui si dà nome di intelletto come Verstand, ma anche di ragione come Vernunft, la radice di ogni possibile argomentare, dialogare, discorrere, comprendersi, vengono interdetti con violenza: l’imposizione non accetta di misurarsi con alcuna forma di razionalità, di dialogo, di relazione. In atto è “un potere privo di alcun controllo” - non è questo che avviene durante la Shoah?

La stessa femminilità, onnipresente nel Processo, cui Papi dedica pertinenti osservazioni, è complice di questo gioco; non costituisce alcuna via di fuga, tanto meno un’isola di salvezza; non è consolatoria, né compassionevole, né caritatevole. Tra gli accusati stessi non c’è “alcuna cooperazione”, “ognuno è solo” – come per lo più avviene nei lager e nei gulag, in cui ogni rapporto cui si possa dare il nome di “umano” è contrastato alla radice. Torna qui, in un modo esasperato oltre ogni limite, l’affermazione di alcuni eroi delle prime opere verdiane, per cui sarebbe “delitto avere pietà”.

Mentre i “senza perché” dei Giobbe precedenti “erano pur sempre domande di un uomo di fronte a una legge comprensibile”, quelli di K. non hanno risposta, neppure ipotizzabile; non c’è legge, in assoluto. Quasi che “la lettura umanistica dell’esistenza, proprio nella sua credenza più profonda, venisse rovesciata, e ogni possibilità che le è propria diventasse parodisticamente (e qui sta la narrazione) la sua crudele impossibilità, la sua condanna. Il senza perché della colpa senza Dio è il modo in cui si può pensare l’intollerabilità stessa dell’esistenza”.

Verso la fine Papi chiama in causa Bruno Schulz, il noto autore di Le botteghe color cannella, per cui l’intollerabile, il sudicio, il tremendo del mondo kafkiano sono il modo in cui per via negationis si manifesta la “sublimità dell’ordine divino”. La fede può in questo caso diventare l’unica risposta agli improponibili “perché” che si pongono all’uomo. A Schulz risponde a suo modo Papi nelle ultime righe del libro: “L’ordine divino, nel mio percorso, non è che l’immanenza che svela a se stessa la colpa della sua forma storica. È l’enfasi umanistica rovesciata nella sua verità. Sullo sfondo un ‘poter essere’ che non appartiene più nemmeno al pensiero”.

Kafka sta dunque al punto di non ritorno del discorso di Papi. Nel caso di Joseph K. “il documento che certifica la colpa è nell’esistenza stessa dell’accusato”; la colpa è iscritta nella forma stessa della sua vita: colpa è il mero esserci o, meglio, esser così. Ma colpa non è un atemporale peccato originale, bensì un peculiare modo (storico dunque) di partecipare alla vita, di affrontare le vicende che la attraversano.

Nel Processo assistiamo a una sorta di azzeramento del problema che la vicenda pone: insensata l’istanza stessa, il desiderio di conoscere, di chiedere e di motivare, che aveva mosso l’uomo di campagna, e insieme Josef K. La soluzione non è in una positiva risoluzione del problema; non sta nell’affrontarlo, nel coglierne bene i termini e disquisirne i risvolti. Sta piuttosto nel toglierlo di mezzo. Non era un problema, il peccato del protagonista è già esserselo posto. Si tratta solo di lasciar valere l’insolubile come tale; senza indagare. Per questo Kafka dichiara impossibile, anzi tale da motivare la propria condanna, il chiedersi il “perché” della vicenda da parte del protagonista del Processo. Con le parole di Leni verso la fine del sesto capitolo: “Non mi chieda nomi, per favore, e corregga piuttosto il suo errore, non sia più così rigido, contro questo tribunale difendersi non si può, bisogna confessare. Faccia la sua confessione appena può. Solo dopo se la potrà cavare, solo dopo”. Joseph K. non ha commesso nulla; si autocondanna a motivo dell’instancabile perseguire, accanitamente (orgogliosamente, forse), il perché della propria vicenda. L’alternativa può essere solo il “confessare” (Geständnis machen, nelle parole di Leni), l’ammettere dunque, la propria colpa; confessare significa accettare, e accettarsi, senza chiedere nulla. Implica una forma di abbandono, di silenzio fiducioso forse, nei confronti dell’inesplicabilità della vita. E questo è pur un modo dell’esistere, che risponde al tormentoso viversi come colpevoli, al non saper uscire dall’angoscia delle domande “impossibili”, al vano presumere che possano avere risposta. Il consiglio proviene da una donna: c’è una saggezza femminile dunque, malgrado tutto? e Hegel non ha parlato nella Fenomenologia (come Papi stesso mi ricorda) della ironia femminile?

Nell’ambito degli impossibili perché si inserisce anche già nel titolo l’ultimo libro di Papi[iii]: non è una domanda, neppure un’affermazione; circoscrive il tratto di un percorso che non ha meta. Per andare dove marca l’incertezza di un cammino, e l’indeterminatezza dell’esito cui conduce. Non c’è per Papi un destino tracciato che predetermina la vita, bensì il farsi mutevole e cangiante di ogni esistenza sotto l’urto delle circostanze storiche, ambientali e personali che si attraversano. Ma il tratto di vita di Per andare dove include anche lo scrivere, questa narrazione, che forse è la direzione di una vita, il suo senso: l’itinerario personale di una vita che si è sempre interrogata sui mille rivoli in cui si è dispersa quella “crisi” da cui siamo partiti; ne è in certo modo la conferma. Perché scriverla, dove conduce lo scriverla e, ora, l’averla scritta? Cosa produrrà nell’esistenza dello scrittore, e nella vita di noi che lo leggiamo? Si può ipotizzare che l’impossibilità di rispondere non inibisca ma dia luogo a infinite interrogazioni? e che queste siano il leitmotiv di una vita, in certo modo le diano “senso”? Qualcosa del rapporto tra l’autore e il proprio testo pur lo dicono.

Un ultimo sguardo infine a La sapienza moderna, da poco edito[iv]; indubbiamente tra i libri più affascinanti di Fulvio Papi: per gli argomenti affrontati e per i modi in cui vengono affrontati. In ogni voce a una personale presa di posizione è fatta precedere una citazione da autori hanno indubbiamente contato per Papi, e già di per sé testimoniano della sua sterminata cultura. Il suo testo si sviluppa nella forma di un dialogo stringente con essi; si presenta come sorta di summa dei temi che hanno percorso la sua vita filosofica: disparati, eppure attraversati da una corrente di “saggezza” (il termine mi sembra del tutto appropriato) che conferisce loro una tensione convergente verso punti nodali. Inutile qualsiasi enumerazione: lo stesso indice si presenta in prima pagina in modo estraneo agli indici cui siamo abituati. Ricorderò solo temi quali la difesa dell’arte, la persona e la sua identità, l’antisemitismo, la religiosità. Tra i nomi segnalo Ulisse, V. Grossman, Einstein, Stalin, Heidegger, Cristo, Hesse…

 

 

 



[i] F. Papi, L’impossibile “perché” da Giobbe al Processo, Ibis, Como Pavia 2018.

[ii] Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1960, pp. 31.

[iii] F. Papi, Per andare dove 1934-1949, Mimesis, Milano-Udine 2020.

[iv] F. Papi, La sapienza moderna, Ibis, Como-Pavia 2020. Ma su di essa rinvio alla recensione di Emilio Renzi qui immediatamente sopra.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

06 NOVEMBRE 2020

9 ottobre 2020 Tavola Rotonda

PER RAGIONARE CON FULVIO PAPI IN OCCASIONE DEI SUOI 90 ANNI

Silvana Borutti, Fabio Minazzi, Gabriele Scaramuzza e Carlo Sini in dialogo con Fulvio Papi a partire da tre libri:

LA SAPIENZA MODERNA

PER ANDARE DOVE 1934-1949

IL CERCHIO DI NIETZSCHE

Guarda il video dell'incontro