Giuseppe Dematteis  
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IL TERRITORIO TRA COSCIENZA DI LUOGO E DI CLASSE


Commento al libro di Alberto Magnaghi



Giuseppe Dematteis


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Nel suo Il principio territoriale (Bollati Boringhieri, 2020) Alberto Magnaghi condensa il risultato di una vita di studi e di esperienze iniziata negli anni Settanta e proseguita poi con la formazione, sotto la sua guida, della scuola fiorentina di urbanistica e pianificazione territoriale, nucleo fondante della Società dei Territorialisti e delle Territorialiste (SdT) di cui egli è presidente. Partendo dalle origini, ricordo una riunione nel maggio 1977 indetta a Torino dalla redazione dei Quaderni del Territorio di cui Alberto faceva parte assieme Giancarlo Capitani, Augusto Perelli e Cesare Stevan. Come si legge nella presentazione del suo primo numero (1976), la rivista era dedicata ad “analisi critiche sui modi di appropriazione capitalistica del territorio nel quadro del modello di sviluppo che ha utilizzato la concentrazione metropolitana come principale luogo dell'accumulazione capitalistica”. È nel dibattito culturale promosso da questa rivista (la cui riedizione critica è in preparazione presso l’editrice DeriveApprodi) che prende l’avvio il “principio territoriale”.

È interessante notare che l’embrione del territorialismo, basato come vedremo sul rifiuto della metropoli fordista, si formi proprio dall’osservazione delle lotte operaie che si stavano svolgendo nella sua fase culminante in città come Torino e Milano. In realtà, un buon motivo c’era. Nell’introduzione degli atti del convegno L’inchiesta sul terreno in geografia (Giappichelli, 1981) che il collettivo di Geografia Democratica (anch’esso vivaio di futuri territorialisti) organizzò a Firenze nel 1979, si afferma che le lotte operaie di quegli anni "scoprono il territorio" perché mettono in discussione l'organizzazione capitalistica del lavoro, a una data in cui in Italia un certo uso del territorio - come sfera tradizionalmente esterna all'impresa - era diventato condizione necessaria del processo produttivo” e quindi “non si poteva rifiutare lo sfruttamento nelle fabbriche senza rifiutarne anche la componente esterna, cioè i costi che le classi lavoratrici dovevano pagare perché il territorio svolgesse le sue funzioni nel processo di valorizzazione del capitale”. Tradotto nel linguaggio territorialista odierno: lo spazio urbano funzionale allo sviluppo fordista, privato dei requisiti essenziali dell’abitare (casa, servizi ecc.), non era più “territorio”, cioè ambiente di vita degli abitanti-produttori. Dunque, se la lotta di classe era anche una lotta per il territorio, si può dire che la coscienza di luogo – architrave portante della costruzione territorialista – ha un legame genetico con la coscienza di classe.

Ma veniamo al libro. Il “principio” del titolo, oltre a dirci che il concetto di territorio è alla base della teoria esposta nell’opera, significa anche che la storia dell’uomo abitante della Terra comincia con il territorio, in quanto prodotto dell’interazione coevolutiva dell’insediamento umano con l’ambiente terrestre. Da questa idea derivano i caposaldi della teoria territorialista: paesaggio, patrimonio, bioregione urbana, comunità locale, coscienza di luogo, sviluppo locale autosostenibile e così via.

Tutti questi concetti, così come le loro applicazioni progettuali, prendono il loro senso da una svolta catastrofica della storia umana, che si verifica quando la potenza tecnico-scientifica acquisita dalle società umane in età moderna e il conseguente dominio della “civiltà delle macchine” portano a “un divorzio fra cultura e natura”, trasformando ciò che “fino ad allora era esito di processi coevolutivi di diverse civilizzazioni” in “una progressiva autonomizzazione artificiale dalla natura e dalla storia”. Qualcosa che non solo fa a meno del territorio, ma un po’ alla volta lo distrugge, riducendolo a mero spazio funzionale, come appunto nella città fordista degli anni ’60-‘70. Scrive Magnaghi: “Il territorio vivente, l’ambiente dell’uomo, è stato nel tempo ridotto e trasformato in un sito inanimato, in uno spazio astratto e omologante su cui poggiare i meccanismi artificiali della civiltà delle macchine, presupponendo la sua emancipazione dalla natura” (p. 21). Negli ultimi decenni poi questo processo di deterritorializzazione è proseguito e si è ampliato con l’affermarsi pervasivo della “civiltà del cyberspazio”, quella dei flussi e delle reti globali che sostituiscono le relazioni di prossimità, smaterializzano lo spazio terrestre e lo gerarchizzano.

Dunque la teoria territorialista si fonda su “un prima e un dopo”, dalla cui contrapposizione deriva la sua natura visionaria, progettuale e tendenzialmente utopistica. Gli aspetti positivi del processo di territorializazione anteriore alla civiltà delle macchine, cioè in definitiva, quelli delle società pre-moderne, possono oggi essere assunti come principi generativi di una ri-territorializzazione capace di contrastare le tendenze negative delle fasi più recenti moderna e contemporanea – che minacciano i rapporti vitali dell’umanità con l’ambiente terrestre. Quella territorialista è quindi una teoria dell’abitare e dei nostri rapporti con la Terra come “ambiente dell’uomo”. Alla base non c’è solo un giudizio di valore positivo sui modi pre-moderni di abitare la Terra e uno negativo sulle tendenze in atto, ma c’è anche un sentimento, una fiducia, quasi una fede, nelle possibilità di riscatto offerte da un “ritorno al territorio” come inizio di una nuova civilizzazione. Non si tratta di un ritorno al passato, ma a quella che Magnaghi chiama “la relazione fondante fra l’uomo e la terra”, un ritorno grazie al quale “la terra promessa torna a comparire all’orizzonte”.

Nel libro questo percorso è sorretto da una passione per la Terra, non intesa semplicemente come “natura”, ma come “ambiente dell’uomo”. Questa passione si fonde con quella del Magnaghi architetto, che applica al progetto di territorio i principi dell’ars aedificandi di Leon Battista Alberti, che rifiuta il divorzio tra natura e cultura, e lo ricompone nel progetto della bioregione urbana. Dunque, il principio territoriale ha un fondamento ontologico e un orientamento operativo. Al primo appartengono le definizioni di oggetti come: spazio, Terra, ambiente, territorio, paesaggio, patrimonio territoriale, luogo, coscienza di luogo, abitanti, comunità territoriale, bene comune, urbanità. Sono le definizioni che troviamo nel secondo capitolo (“prime voci di un dizionario territorialista”). All’ orientamento operativo si riferiscono invece i concetti di controesodo, progetto di territorio, riterritorializzazione, patrimonializzazione, regole riproduttive, invarianti strutturali, statuto di luogo, scambio cooperativo, reti non gerarchiche, neoecosistemi, sistemi neodistrettuali, coralità produttiva, sviluppo auto-sostenibile, civilizzazione eco-territorialista, valore aggiunto territoriale, patti città-campagna, nuova cultura agro-ecologica, idraulica ed energetica, democrazia dei luoghi, autogoverno comunitario, bioregione urbana, globalizzazione dal basso.

Non è possibile qui entrare nel dettaglio di tutte queste parole chiave, ma ho voluto fare un elenco delle principali per sottolineare la ricchezza e l’originalità delle categorie su cui si basa la teoria territorialista. Alcune sono parole nuove, altre sono parole già in uso, che però assumono nuovi significati. Paradigmatico è il concetto di “territorio”, che, come ho già ricordato, è pensato come un prodotto storico, un ambiente umano che si viene costruendo nella storia in un rapporto interattivo con l’ambiente naturale terrestre. Magnaghi – che aderisce all’ipotesi di Gaia della Terra come sistema vivente - lo pensa anch’esso come un “sistema vivente ad alta complessità”. Ma il pianeta che ci ospita segue un percorso del tutto indipendente da quello della specie umana, per cui l’ecologismo di Magnaghi – l’eco-territorialismo – è essenzialmente antropocentrico in quanto “definisce e affronta le condizioni di salute dell’ambiente dell’uomo, piuttosto che con un approccio ecologista radicale che pretende di salvare la natura”. Insomma, ciò che va salvato e ripristinato è il nostro rapporto con il pianeta, cioè il territorio, non la natura, che a salvarsi ci pensa da sola, se necessario anche a scapito della specie umana, ai cui destini essa appare del tutto indifferente.

Dunque, dopo l‘esodo che ha caratterizzato la modernità delle macchine e del cyperspazio è necessario un controesodo, un “ritorno al territorio” e alla “cura del territorio come ambiente dell’uomo”, che ovviamente comprende anche una cura delle sue componenti naturali in funzione di uno sviluppo umano durevole, sostenibile. Anche quest’ultimo concetto ha una declinazione territorialista che si discosta da quella corrente principalmente per due motivi. Primo perché è fondata sui concetti di patrimonio e di patrimonializzazione, ovvero sull’idea che la costruzione coevolutiva del territorio sedimenta nel tempo strati successivi sia di beni materiali funzionali come edifici e infrastrutture, sia di beni culturali come conoscenze, capacità, espressioni culturali, paesaggi. Insomma, un patrimonio di beni comuni che hanno un valore di esistenza non negoziabile, fondamento tra l’altro di identità locali e regionali, ma che rappresentano anche delle potenzialità, (la “molla” dello sviluppo locale di cui parla l’economista Becattini), capaci di produrre valori d’uso e, attraverso ad essi, benessere ricchezza, sviluppo materiale. Ma per essere sostenibile questo sviluppo deve al tempo stesso riprodurre e possibilmente accrescere il valore del patrimonio territoriale. Si tratta dunque di una concezione dinamica e incrementale del patrimonio, visto non come semplice lascito storico da conservare, ma come qualcosa che “a mano a mano che cresce la coscienza di luogo dei soggetti che se ne prendono cura, si produce”, a patto che vengano rispettate le sue “invarianti strutturali” e le “regole di trasformazione” codificate negli “statuti dei luoghi”.

Il secondo aspetto fortemente originale dell’idea territorialista di sviluppo è che esso deve essere auto-sostenibile, dove il prefisso “auto-“ presuppone l’esistenza di un soggetto collettivo locale, che è al tempo stesso attore dello sviluppo e responsabile della sua sostenibilità. Questa concezione porta con sé un modo diverso, originale, di pensare la comunità locale, l’identità, l’organizzazione del lavoro e la responsabilità d’impresa, facendo dipendere tutto da cooperazione, democrazia partecipativa e autogoverno locale. La trattazione di questi temi a cui è dedicato l’ultimo capitolo del libro (“La democrazia dei luoghi, soggettività collettive in azione verso l’autogoverno comunitario”) scavalca molte precedenti visioni, anche molto avanzate. Faccio qualche esempio. Il primo riguarda l’esperienza delle “comunità concrete” di Adriano Olivetti, che Magnaghi indica come antesignane delle sue comunità territorialiste. In queste ultime però alla responsabilità sociale d’impresa, deve aggiungersi la responsabilità territoriale. Le attività imprenditoriali devono prendersi cura non solo della società locale ma più in generale del territorio come patrimonio e come ambiente di vita della comunità stessa. Un’altro esempio è quello dei distretti industriali teorizzati dall’economista Giacomo Becattini, che con Magnaghi ha condiviso molte idee territorialiste, come quelle fondamentali di identità e di coscienza di luogo. Altre ancora ne ha apportate, come quella di coralità produttiva e quella di una globalizzazione dal basso basata sullo “scambio solidale tra i tanti prodotti made in” specifici di ogni sistema locale. A queste idee di Becattini Magnaghi aggiunge quella per cui il principio territoriale deve prevalere su quello funzionale in modo da evitare l’eccessiva specializzazione settoriale dei sistemi produttivi locali. E su queste basi propone il modello dei neodistretti.

Ci sono altri esempi di come il principio territoriale comprenda e vada oltre, aggiornandole, varie visioni anticipatrici, come ad esempio quelle di Cattaneo, Kropotkin, Geddes, Bookchin e altri ancora. Ma merita soffermarsi in particolare sulla reinterpretazione del noto modello della bioregione (J. e N.Todd, K. Sale ecc.) in termini di bioregione urbana, a cui è dedicato il 5° capitolo. Questo modello, non a caso oggetto dei più recenti lavori di Magnaghi (tra cui il libro La bioregion urbaine edito a Parigi da Eterotopia France nel 2014), svolge un ruolo centrale nell’utopia territorialista di una riorganizzazione dello spazio terrestre alle diverse scale. Secondo me è il modello progettuale che permette di capire meglio la ragion d’essere del paradigma eco-territorialista. Perché ne mostra le due facce, annunciate dal suo stesso nome. Con il prefisso bio-, grazie a una nuova cultura idraulica, energetica e agro-ecologica e con la chiusura locale dei cicli, ci dice che cosa significhi oggi continuare il rapporto coevolutivo delle società umane con l’ambiente naturale terreste e che cosa comporti la cura del territorio. Con l’aggettivo urbana ci avverte che la civilizzazione del “ritorno al territorio” è essenzialmente urbana, anche se (o meglio proprio perché) rifiuta le grandi concentrazioni ed è legata da rapporti vitali con gli insediamenti e gli ambienti rurali. Magnaghi parla di un “ritorno all’urbanità” come spazio di relazione e di prossimità, di “un percorso capace di rifondare la città nella prospettiva bioregionale e di relazioni sinergiche di co-evoluzione e co-sviluppo fra insediamento umano e ambiente, anche utilizzando il bagaglio delle tecnologie avanzate al servizio dell’ambiente dell’uomo” (p.83).

In quanto sbocco progettuale di tutta la teoria territorialista, il modello della bioregione è anche quello che ne rivela il carattere tendenzialmente utopistico e quindi l’impossibilità di una realizzazione compiuta che non sia – per dirla con Keynes nei tempi in cui saremo tutti morti. Poco male. L’importante è che nei tempi della nostra breve vita essa ci indichi una strada da percorrere e degli obiettivi raggiungibili, limitati ma progressivi. Certo il “ritorno al territorio”, mentre la globalizzazione economico-finanziaria con le megacittà e le reti globali prosegue la sua marcia verso la deterritorializzazione del pianeta, è un percorso in forte salita. Alcuni obiettivi di questo ritorno appaiono per ora molto lontani, quello ad esempio di poter stabilire regole su che cosa produrre, come e in che quantità, in relazione alla peculiarità dei patrimoni locali, oppure quello di una rete di sistemi economici a base locale che riduca drasticamente la dipendenza dall’esterno attraverso uno “scambio cooperativo” tra diversi sistemi e mercati regionali, come punto di partenza di una” globalizzazione dal basso”. Obiettivi irragiungibili? Dipenderà anzitutto da quanti non saranno disposti ad accettare un futuro che sembra già scritto. E questi non mancano. Oggi la ‘fede’ territorialista può far leva su una crescente insoddisfazione degli abitanti – in particolare nelle grandi città – che si traduce in un rimpianto del territorio perduto. Forme di contro-esodo dagli agglomerati urbani verso le campagne e le montagne alla ricerca di valori ambientali e sociali perduti sono ormai largamente documentate. Ad esempio, se ne parla largamente nei numeri della rivista della SdT, Scienze del territorio, dedicati al ritorno alla terra e alla montagna, alla comunità e alla democrazia dei luoghi, oltre che nell’Osservatorio delle buone pratiche territorialiste e negli atti del Convegno di Camaldoli sulla nuova centralità della montagna (tutti consultabili nel sito http://www.societadeiterritorialisti.it).

Giuseppe Dematteis

 

 

 

 

N.d.C. – Giuseppe Dematteis, professore emerito di Geografia politica ed economica, ha insegnato Geografia economica alla Facoltà di Economia dell'Università di Torino e Geografia urbana e regionale alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino. È stato direttore del Dipartimento Interateneo Territorio del Politecnico e dell'Università di Torino. È socio corrispondente dell'Accademia delle Scienze di Torino, membro del Comitato direttivo della Società dei Territorialisti/e. È presidente dell'Associazione Dislivelli, ricerca e comunicazione sulla montagna.

Tra i suoi scritti: L'organizzazione del territorio nelle utopie sociali di T. Moro, T. Campanella, F. Bacone (Riv. Geogr. Ital., 1964); Rivoluzione quantitativa e nuova geografia (Arti grafiche Rosada, 1970); Rivoluzione quantitativa e nuova geografia (Flaccovio, 1971); Metodi moderni per lo studio della geografia urbana. Rassegna critica e proposte (Patron, 1973); Rivoluzione quantitativa e nuova geografia (Flaccovio, 1971); con V. Vagaggini, I metodi analitici della geografia (la Nuova Italia, 1976, 1981, 1983); Deconcentrazione metropolitana, crescita periferica e ripopolamento di aree marginali: il caso dell'Italia (F. Angeli, 1983); Le metafore della Terra. La geografia umana tra mito e scienza (Feltrinelli, 1985; 1986; 1990); con C. Cencini & B. Menegatti (a cura di), L'Italia emergente. Indagine geo-demografica sullo sviluppo periferico (Angeli, 1990); (a cura di), Il fenomeno urbano in Italia. Interpretazioni, prospettive, politiche (F. Angeli, 1992; 1993; 1994; 1999); Progetto implicito. Il contributo della geografia umana alle scienze del territorio (F. Angeli, 1995; 2002); con V. Guarrasi (a cura di), Urban networks (Pàtron, 1995); con A. Clementi & Pier Carlo Palermo (a cura di), Le forme del territorio italiano (Laterza, 1996); con S. Conti & C. Lanza, Geografia economica generale (Bompiani, 1997); con P. Bonavero, Il sistema urbano italiano nello spazio unificato (il Mulino, 1997); (con altri), I futuri della città. Tesi a confronto (F. Angeli, 1999); con P. Bonavero & F. Sforzi (a cura di), The Italian urban system. Towards European integration (Ashgate, 1999); con F. Governa (a cura di), Contesti locali e grandi infrastrutture. Politiche e progetti in Italia e in Europa (F. Angeli, 2001); con F. Boggio (a cura di), Geografia dello sviluppo. Diversità e disuguaglianze nel rapporto Nord-Sud (UTET, 2002; 2007; 2008); con F. Ferlaino (a cura di), Il mondo e i luoghi. Geografie delle identità e del cambiamento (Istituto di ricerche economico sociali del Piemonte, 2003); con F. Governa (a cura di), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità. Il modello SLoT (F. Angeli, 2005); con C. Lanza, Le città del mondo. Una geografia urbana (UTET, 2011; 2014); (a cura di), Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre (Marsilio; Roma); (a cura di), Montanari per scelta Indizi di rinascita nella montagna piemontese (F. Angeli, 2011); con A. Greiner & C. Lanza, Geografia umana. Un approccio visuale (UTET, 2012; 2016; 2019); con F. Corrado (a cura di), Terre alte in movimento. Progetti di innovazione della montagna cuneese (CRC, Fondazione Cassa di risparmio di Cuneo, Centro studi: Dislivelli, 2013); con F. Corrado & A. Di Gioia (a cura di), Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel 21. secolo (F. Angeli, 2014); (con altri), L' interscambio montagna città. Il caso della città metropolitana di Torino (F. Angeli, 2017); Proyecto implicito (Ed. Asimétricas, Univ. Polit. De Catalunya 2020).

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


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05 FEBBRAIO 2021

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
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in redazione:
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2018: Cesare de Seta
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Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

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2015: online/pubblicazione
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2021:

M. Ruzzenenti, Una nuova cultura per il bene comune, commento a: G. Nuvolati, S. Spanu (a cura di), Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 (Ledizioni, 2020)

F. Forte, Una legge per la (ri)costruzione dell'Italia, commento a: M. Zoppi, C. Carbone, La lunga vita della legge urbanistica del '42 (didapress, 2018)

F. Erbani, Casa e urbanità, elementi del diritto alla città, commento a: G. Consonni, Carta dell’habitat (La Vita Felice, 2019)

P. Pileri, Il consumo critico salva territori e paesaggi, commento a, A. di Gennaro, Ultime notizie dalla terra (Ediesse, 2018)

 

 

 

 

 

 

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