Roberto Limonta  
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PER MASSIMO CAMPANINI


A un anno dalla scomparsa, un ricordo in forma di recensione



Roberto Limonta


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A un anno dalla scomparsa di Massimo Campanini, il 9 novembre del 2020, ai tanti che lo stimavano come studioso e intellettuale mancano l’erudizione sconfinata sul mondo islamico e la sua storia, la capacità di leggere con acume e senza pregiudizi i fenomeni di quel mondo (che è in buona parte, come proprio lui ci ha aiutato a comprendere, anche il nostro), la generosità nel condividere il proprio sapere, il valore come docente e accademico, la capacità affabulatoria e sicuramente altro ancora.

Agli amici, invece, di Massimo manca tutto. Per questo rappresenta un lenitivo alla nostalgia (il “dolore del ricordo”), e un doveroso omaggio, la pubblicazione dei suoi ultimi scritti, tra i più personali, legati a una passione intellettuale, quella per Dante e per il motivo del viaggio, che lo ha accompagnato per lungo tempo e che solo in anni recenti aveva deciso di lasciare uscire allo scoperto (in Dante e l’Islam, Roma 2019 e ne I giorni di Dio Il viaggio e il tempo tra Occidente e Islam, Milano 2019). In Epoche dello spirito. Dante, Hegel e Manzoni, pubblicato postumo per i tipi di Rosenberg & Sellier nel marzo 2021, il viaggio di Dante e la sua dimensione profetica – sulla scia di Bruno Nardi e del suo Dante e la cultura medievale – diventa il modello non solo per comprendere l’esperienza estatica del poeta come paradigma per interrogare i nostri tempi, ma soprattutto per indagare il rapporto tra religione e storia (e fatalmente anche la dialettica problematica tra la cultura cristiana dei tre protagonisti e il mondo islamico e orientale), anche in contesti storici molto distanti tra loro, come quelli di Hegel e Manzoni, ai quali sono dedicati gli altri due saggi che completano il volume.

Mi concentrerò sul primo testo (Il profilo poetico di Dante e le religioni semitiche), dedicato al poeta fiorentino, e su alcuni spunti che ne fanno un punto di riferimento e quasi un’anticipazione in nuce di motivi e riflessioni che poi ricompariranno negli altri saggi del volume. Tema di apertura è quello del viaggio, già al centro de I giorni di Dio; viaggio che è al contempo simbolo e realtà, metafora del tempo ma anche sua tangibile manifestazione, ed è quindi esperienza che, attraversando tutti i grandi racconti delle mitologie e delle religioni dell’antico Medio Oriente, costringe a interrogarsi sul rapporto tra il valore eterno che ogni fede religiosa reclama e il contesto storico delle società in cui sorge e a cui appartiene.

Il viaggio estatico di Dante, nelle pagine di Campanini, sorge in Oriente. E non per la tanto discussa filiazione del poema dantesco dalla conoscenza di testi o storie della tradizione islamica, come il racconto del viaggio notturno e dell’ascensione del profeta Muhammad. L’Oriente è in primo luogo quello dell’antico Egitto, dove modello del viaggio è il mito di Osiride, che viene ucciso e smembrato, ma poi rinasce grazie all’amore della moglie Iside che ne ricompone il corpo straziato. È la parabola del viaggio del sole, che sorge e deve tramontare per risorgere di nuovo, ed è il paradigma del ciclo di nascita, vita, morte e rinascita che da allora accompagna, nelle religioni nate dalle civiltà semitiche, il destino del Dio che muore e risorge, e fonda il mito del viaggio come paradigma dell’esistenza. Ma quella egizia è solo la prima tappa di una storia che attraverso la letteratura mesopotamica, con l’epopea di Gilgamesh, giunge ad Abramo, “il padre dei credenti e l’amico di Dio” – figura al contempo mitica e storica, ed anzi mitica proprio in quanto fondamentalmente storica, radice di storia, perché “è decisivo il fatto che la Bibbia pretende di narrare la storia vera, la storia evenemenziale” (p. 17) – nel quale forse, azzarda Campanini sulla scorta del Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli, Dio ha voluto creare uno specchio per conoscersi.

Abramo è simbolo della primordialità, di un viaggio che è ritorno circolare alla purezza di ciò che era in principio, fedele a quel mito delle origini che segnerà anche, in diversa misura, cristianesimo e Islam. È un passaggio fondamentale: egli “viene dunque a collocarsi al centro di un tessuto mitologico e storico allo stesso tempo, in cui si stagliano i temi del viaggio, dell’esilio e del ritorno” (p. 21). Da qui si passa a Dante attraverso il nostos di Odisseo. Campanini lo definisce un “salto brusco”, che troverà spiegazione col proseguio della narrazione. Ma il richiamo all’esilio prefigura quale sarà la direzione del racconto: l’esperienza di un altro viaggio che riprende la traccia dell’Odisseo omerico, cioè l’ascesa di Dante al cielo del Paradiso; cui non fece seguito, con grande sofferenza (e nostalgia) del poeta, un analogo ritorno alla patria fiorentina.

Il viaggio della Commedia è allegorico e soteriologico, e procede a ritroso. Dante aspira al ritorno a un’origine che egli sente come incorrotta; egli la otterrà con la visione di Colui che tutto move, che chiude il circolo consueto che dall’allontanamento (Caduta) conduce alla nostalgia e infine al ritorno. Nel recupero dell’originaria purezza dell’uomo, nel suo “trasumanar”, il poeta fiorentino può quindi rivendicare la propria natura di profeta politico, mostrando come si possa interrogare il passato per orientare il presente e pensare il futuro, al pari di Giuseppe con Abramo e di Muhammad, che ha fatto del rapporto con il passato l’occasione per una frattura netta che inaugura una nuova età della storia (p. 29). Il viaggio dantesco è così un autentico mito di fondazione, perché legittima la missione e il ruolo di profeta politico di Dante come colui che, prefigurando i destini futuri, può rendere possibile una palingenesi della cristianità.

Nelle pagine di Epoche dello spirito la scansione diligentemente cronologica della cultura del viaggio si ibrida più volte con sfasamenti temporali e di genere, passando da Abramo a Thomas Mann, da Gilgamesh alle sure del Corano a Nietzsche, in un generoso e a tratti anarchico intreccio di fonti e suggestioni. Non è tuttavia disinvoltura storiografica, almeno a parer mio, ma quasi la rappresentazione plastica dell’idea che il viaggio costituisce una costante antropologica e un tema ancestrale, quasi un mito di fondazione dell’esperienza umana, la quale vi ritrova la ciclicità che segna le età dell’uomo e i ritmi della natura. E che è, allo stesso tempo, quel cerchio che i monoteismi spezzano: “il tempo non deve flettersi […] come avviene nel tempo ciclico delle antiche civiltà mediterranee o nel ritorno di Odisseo/Ulisse. Come spiegato e acutamente colto da Nietzsche, l’oltreuomo tramonta, certo, ma al contempo transisce a un nuovo mondo, oltre le colonne d’Ercole” (p. 33). In questo senso, l’Ulisse dantesco si fa profezia dei destini dell’Occidente, con la sua hybris e la sua sete di sapere come strumento dominio sugli uomini. In essa Campanini individua, sulla scia di Adorno, la radice del nichilismo proprio della ragione occidentale (p. 24). D’altronde il mito – di Osiride, di Gilgamesh, di Odisseo, del’ottimismo scientista e colonialista del XIX secolo, ma anche il mito di Dante, in quanto narratore di miti e mito polimorfo egli stesso, oggetto di una sorta di devozione laica – è forse il motivo che attraversa sottotraccia tutti e tre i saggi: i modi con cui differenti epoche della storia hanno cercato di risolvere, attraverso la creazione di figure e racconti (o del Racconto), la dialettica tra le istanze spirituali di una fede vissuta come assoluta ed eterna, da una parte, e la temporalità contingente delle vicende umane dall’altra. Perché tempo e storia rappresentano, nella tradizione islamica, “i giorni di Dio”, in quanto “Dio agisce nella storia, direttamente o indirettamente” (p. 34). Al motivo mitologico dunque attinge, in Epoche dello spirito, l’idea del viaggio e tutta la sua letteratura, la purezza delle origini e il suo valore fondativo, e appunto il rapporto tra religione e storia, tra salvezza dell’anima e destino terreno delle creature. E Campanini non fa dei miti un semplice oggetto di indagine storica o filologica (la quale pure sorregge il suo lavoro), ma li intende e li utilizza in quanto miti, strumenti per decifrare e interpretare la storia, dalla quale essi pure sorgono un po’ come il barone di Münchausen, tentando di sollevarsi dal fango del mondo tirandosi per i capelli.

In questo quadro concettuale si collocano gli altri due saggi del volume. Religione e filosofia della storia in Hegel è infatti centrato su una rigorosa teleologia della storia, quella hegeliana, che nei meccanismi anodini della dialettica ha trasposto, sub specie aeternitatis, le ambizioni di sistema e dominio del proprio tempo, segnato dall’avvento dell’imperialismo europeo. Campanini rileva come “in Hegel fossero presenti, in modo dialetticamente contraddittorio, gli elementi e i germi che, col passare dei decenni, avrebbero provocato la crisi dello spirito europeo” (p. 37); e nel farlo, forse inconsciamente, proietta anche sul filosofo tedesco l’ombra della figura del profeta, ennesimo anello di una catena che, come abbiamo visto, nel delineare il rapporto con il tempo e la storia risale fino ai primordi della civiltà. Il testo poi prosegue con un’analisi di alcuni concetti cruciali del pensiero hegeliano, soprattutto alla luce della concezione di questo come acmé del nichilismo insito nella tradizione occidentale, secondo un’interpretazione che in Campanini mostra il proprio debito nei confronti della lettura heideggeriana del mondo della tecnica.

Nel contributo su Manzoni (Alessandro Manzoni e la crisi dell’ottimismo storico hegeliano) la teleologia della storia di stampo hegeliano si incrina per l’introdursi di una concezione religiosa. È l’inquietudine legata alla concezione del Dio biblico, onnipotente e terribile, imperscrutabile nei suoi disegni; il Dio del credo quia absurdum e della fede come scommessa (p. 87), il Dio degli eserciti dell’Antico Testamento. E questo porta Campanini a rivedere alcuni cliché della storiografia manzoniana, primo fra tutti quello scolastico dei Promessi sposi come epopea di una Provvidenza che volge tutto al meglio, conducendo le creature alla propria elevazione spirituale nella realizzazione dei disegni di Dio. Il capolavoro manzoniano mostrerebbe invece ampie zone di irriducibilità a questo quadro provvidenziale, come nella figura di don Abbondio, mai realmente redento e sino in fondo gretto ed egoista, o in quelle di don Rodrigo e del Griso, la cui negatività non è dialetticamente risolta, per dirla in termini hegeliani, ma semplicemente troncata dalla morte (p. 95). Tutta l’opera di Manzoni, scrive Campanini, è sorretta da una contraddizione mai risolta tra il disegno provvidenziale divino e una intrinseca razionalità della storia.

È sin troppo facile cercare in queste pagine meccanismi di proiezione analogica tra l’autore e il proprio oggetto di studio; riconoscere in questi scritti, a posteriori, una pura immagine retrospettiva delle esperienze personali dell’autore, delle tappe di una formazione culturale che soltanto sul fare della sera, per restare a un’immagine hegeliana, si mostrano nel loro autentico significato. Ma certo il viaggio di cui il libro parla, se non è (solo) quello esistenziale del proprio autore, è certamente il libro stesso quale diario –irregolare e idiosincratico come tutti i diari – di un percorso intellettuale: il mondo della cultura islamica, i rapporti tra politica e religione nei grandi monoteismi, le civiltà storiche del Vicino Oriente e i loro miti, la cultura medievale crogiolo di tradizioni. Per questo, in apertura, ho parlato di questi scritti come “tra i più personali”. I viaggi che Epoche dello spirito descrive si riconducono tutti a quel paradigma originario del viaggio che è la vita dell’uomo; in questo senso, il libro racconta anche molto dell’esistenza del proprio autore, in una dialettica tra momento personale e costanti antropologiche. Così che, nel ripercorrere la vicenda di Abramo, il mito di Odisseo, Osiride e Gilgamesh, le storie del Corano, l’avventura profetica di Dante, Massimo Campanini finisce per assomigliare a quell’uomo che, scrive Borges ne L’artefice, “si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

 


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14 OTTOBRE 2021