Renzo Riboldazzi  
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ELOGIO DEL TEMPO (PER FARE ORDINE)


Introduzione all'incontro e commento al libro di Stefano Boeri



Renzo Riboldazzi


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Il terzo incontro di Città Bene Comune 2022 – martedì 17 maggio, alle ore 17.30 – sarà dedicato alla discussione di Urbania, l’ultimo libro di Stefano Boeri pubblicato per i tipi di Laterza nel 2021. A interloquire con l’autore sono stati invitati Cristina Bianchetti – professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Torino –, Elio Franzini – rettore dell’Università degli Studi di Milano – e Gabriele Pasqui – professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica del Politecnico di Milano –. L’appuntamento è come sempre alla Casa della Cultura di Milano (via Borgogna 3, MM San Babila). Sono gli stessi anche il curatore dell’iniziativa – chi scrive – e i suoi promotori: la Casa della Cultura e il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. E sono identici tanto gli obiettivi – promuovere, a partire da un libro, il dibattito pubblico sui temi della città, del territorio, dell’ambiente, del paesaggio e delle relative culture interpretative e progettuali – quanto i patrocini concessi: dall’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU), dalla Società Italiana degli Urbanisti (SIU), dalla Società dei Territorialisti/e Onlus (SdT) e dall’Associazione Italiana di Scienze Regionali (AISRe).

 

Introduzione ai temi del libro

La stiamo già un po’ dimenticando la pandemia. Con la guerra in Ucraina, giornali, telegiornali e tutti gli altri mezzi di informazione che abitualmente utilizziamo per conoscere ciò che succede nel mondo l’hanno in quattro e quattr’otto fatta scivolare fuori dalle prime pagine. Se ne sta lì un po’ in disparte anche se di morti e contagi a ben vedere ce ne sarebbero ancora in abbondanza (anche oggi che stiamo scrivendo questo testo). Così come di cose da capire, su cui riflettere, da cambiare. L’arrivo della bella stagione e l’allentarsi delle misure volte a contenere la diffusione del virus, però, ci hanno già proiettato in un’altra dimensione. Per molti – a parte qualche riunione a distanza e la comodità di un po’ di lavoro svolto a casa – sostanzialmente la stessa di prima. Per chi ha avuto la fortuna di attraversare questi due anni senza particolari conseguenze, tuttavia, resta quella sensazione che si prova al ritorno da un viaggio. Quando ci si ritrova tra le proprie cose che pazientemente ci hanno atteso nel silenzio delle nostre case. Quella di ritrovarsi a ricominciare. Di riaprire le persiane delle nostre stanze e quelle delle nostre esistenze per far entrare, di nuovo, l'aria e la luce. Da un lato impazienti di riprendere il nostro rassicurante tran tran, dall’altro cambiati dentro dall’esperienza vissuta. Nella quale restiamo ancora un po’ avviluppati e dalla quale una parte di noi fatica a staccarsi.

Tra le cose che quanti hanno subito il lockdown senza altre ripercussioni più gravi forse ricorderanno con un velo di nostalgia, c’è il tempo. L’improvvisa sua disponibilità a controbilanciare lo sconcerto, la paura e forse anche la rabbia di non poter fare ciò che di solito facevamo. Di essere prigionieri lì tra le mura di casa dove molti giovani sono perfino appassiti. Tempo che è stato l’occasione per riflettere. Per rimettere ordine tra le carte, i libri, le cose della vita. Per interrogarsi sul senso di ciò che avevamo fatto fin lì. E ciò che magari, in un futuro che in quel momento non offriva alcuna certezza, avremmo potuto fare. Un tempo sospeso, dunque, capace – nel silenzio surreale delle città – di catalizzare il nostro passato e il nostro futuro. Abbattendo quelle barriere invisibili che proprio la sua mancanza – dovuta a una quotidianità fatta di cose da fare, di carrelli della spesa riempiti frettolosamente, di figli da recuperare a scuola, di burocrazia, treni presi e talvolta persi, di email ricevute, scritte, dimenticate – costruisce tra noi e il nostro fare. Togliendoci, quando la stanchezza prende il sopravvento, perfino il piacere di farlo.

Ecco, è qui in questo interstizio della vita che nasce Urbania, il libro di Stefano Boeri, curato da Maria Lucrezia De Marco e dedicato a Mia Halley. Un libro – scrive Boeri – che non ha «alcuna ambizione saggistica» (p. X). Che è scritto «nella forma di un diario, una raccolta di appunti» (Ibid). Un libro che è «il block-notes di un architetto. Un girovagare tra i testi, i tempi e gli spazi della […] vita» professionale (Ibid). Una vita che nel caso di Boeri è fatta di incontri, letture, progetti, sogni ambiziosi. Di cose andate bene e altre meno. Dove, tuttavia, l’essere 'nati con la camicia' – una famiglia agiata, colta e aperta al mondo – o la fama internazionale guadagnata con il proprio lavoro di architetto – ma anche di professore universitario, direttore di periodici («Domus», «Abitare») o di istituzioni (in primis, La Triennale di Milano) dov’è maturata nel Novecento molta di quella cultura architettonica, urbanistica, artistica di cui oggi ancora ci nutriamo – non fanno venire meno il desiderio e la responsabilità di provare a capire. E spiegare a se stessi e agli altri: chi sono, cosa faccio, perché lo faccio.

Che il libro, in fondo, sia un fare ordine, lo si intuisce anche sfogliandolo. L’apertura di ogni capitolo scritto a partire dal 9 marzo 2020 è sempre accompagnata da una bella immagine del tavolo di lavoro dell’autore. Dove gli oggetti più personali – carte, penne, matite, occhiali – lasciano di volta in volta lo spazio a libri, riviste, fotografie, stampe. Cercati, ritrovati, riesumati dai cassetti, tolti dagli scaffali e rimessi lì, quasi a riaffermarne il ruolo. A riprenderne l’insegnamento. Ad evocare e riallacciare legami tra loro, l’oggi e il sé. Fotogrammi di una narrazione dove il percorso di Boeri si intreccia con periodi e momenti della cultura architettonica italiana (e non solo quella). Dove un presente per molti aspetti tragico e da decifrare – che in quel frangente sembrava testimoniare «una sorta di ribaltamento del nostro rapporto con la sfera della natura vivente» (p. 5) – ha il potere magico di richiamare in quello spazio-tempo inatteso tanto il passato quanto un possibile futuro. Quello di tutti noi che secondo l'inventore del Bosco Verticale non può che «tornare ad accettare la sfida dell’imprevisto, dell’indeterminatezza» (p. 6) e, al tempo stesso, ci obbliga a un deciso cambio di passo volto a «riposizionare il rapporto tra Natura e Cultura nel mondo» (p. 6).

Il libro muove da lì. Da quel tavolo. E da quella finestra alle sue spalle che simbolicamente inquadra per metà un’architettura – quel magnifico artificio con cui l’uomo ha reso bello e abitabile il mondo e allo stesso tempo lo ha, per certi versi, distrutto –, e per metà le chiome degli alberi di un giardino. Ovvero, l’altra parte della nostra identità di esseri viventi sulla Terra, quella che più abbiamo tentato di addomesticare, imbrigliare, contenere. Pagina dopo pagina, l’autore dà vita a una galleria di personaggi, di vicende ad essi legate, di voci più o meno assonanti, un Parnaso di sguardi fugaci e riflessioni meditate su temi e questioni della contemporaneità. Dove quelli sulla città, il territorio, il paesaggio, l’ambiente si intrecciano con altri relativi all’architettura, all’urbanistica, alla comunicazione, alla fotografia, alla letteratura, al teatro, alla politica. Un’apertura a mondi e modi del sapere e del fare eterogenei che tuttavia non sfocia – come certa letteratura tende a fare oggi – in un disconoscimento del portato e del potenziale dell’architettura e dell’urbanistica nella cultura contemporanea. Semmai ne riafferma il ruolo nella società seppur immaginando di riorientarne l’azione e gli obiettivi. Ciò sottolineando il contributo che queste discipline talvolta bistrattate e travisate possono dare alla soluzione di molti dei problemi con cui abbiamo a che fare. Tenendo insieme, nelle ipotesi di trasformazione della realtà, la dimensione estetica con quella etica, politica, civile, ambientale. Come a dire: il problema non è tanto o solo nelle discipline perché, in fondo, queste sono strumenti. Sta, piuttosto, nella nostra idea di futuro e nella nostra capacità di perseguirla progettualmente.

Nel libro, ben scritto e di agile lettura, troviamo così istantanee sulla città – quella compatta fondata sulle inestricabili relazioni tra eterogenee comunità e i contesti fisici – e quella che lo stesso Boeri in un libro di qualche anno fa definiva ‘anticittà’: ovvero «il trionfo di una democrazia economica individualista: ma anche del diritto, privo di doveri, di modificare a proprio piacimento lo spazio a propria disposizione» (p. 19). E troviamo ipotesi per il suo futuro. Che la crisi pandemica sembra ridefinire «segnando forse il tramonto definitivo dei grandi spazi urbani della concentrazione umana» (p. 25) a favore – scrive – di una più equilibrata ridistribuzione della popolazione sul territorio che faccia del policentrismo uno dei suoi tratti essenziali. Ma, ancor più, – sottolinea l'autore – che vada nella direzione di ribaltare la nostra idea dei rapporti tra naturale e artificiale attivando «un doppio movimento degli alberi verso la città e degli umani verso le foreste» (p. 39).

Troviamo ritratti del territorio italiano, quello che è stato possibile trasfigurare «negli anni Ottanta e Novanta (consumo, impermeabilizzazione e inquinamento dei suoli, abusivismo, distruzioni di paesaggi naturali) [anche a causa – sostiene Boeri – delle] formidabili lacune culturali della sinistra intellettuale italiana […] capace di piani urbanistici socialmente e ecologicamente inappuntabili, ma spesso inattuati» (p. 22). Lacune culturali – aggiungiamo noi – unite a una inadeguatezza degli apparati della pubblica amministrazione e a una debolezza della politica che, di fatto, hanno consentito che andasse in crisi «un antico e implicito patto di distanziazione spaziale tra le sfere vitali abitate dalla nostra specie e – scrive Boeri – quelle delle altre specie viventi non addomesticate» (p. 33). Una situazione che – sostiene – oggi richiede un riorientamento del nostro sguardo scientifico, culturale, politico. Che dia vita a «un nuovo paradigma della vita urbana, in grado di concepire l’idea di una urbanità interconnessa con i fenomeni naturali e le loro caratteristiche vitali» (p. 76).

Troviamo i libri. Quelli letti, che hanno lasciato una traccia indelebile nel suo errare professionale. E quelli scritti. Nel primo gruppo c'è, per esempio, Il barone rampante di Italo Calvino (Einaudi, 1957) che – scrive Boeri – «torna di continuo nella mia vita» (p. 56) e si riverbera nel costante tentativo di fare «un mondo, una città, una società, guardata attraverso lo sguardo dei lecci, dei sugheri, delle querce, degli ulivi, dei faggi, dei castagni» (p. 57). Oppure c'è La Règle et le Modèle. Sur la théorie dè l’architecture et de l’urbanisme di Françoise Choay (Éditions du Seuil, 1980), ma anche il Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic (Hefti, 1988) che diventa l’occasione per denunciare la tragedia dell’immigrazione nel Mare Nostrum attraverso un'installazione di Multiplicity a Documenta 11 inaugurata nel giugno del 2002: «Oggi, ancora oggi, quei corpi sono in fondo al mare e quella vicenda – scrive Boeri – ha aperto una ferita che anno dopo anno si è allargata fino a diventare una voragine nella storia, nella cultura, nella politica del nostro Paese» (p. 96). Nel secondo gruppo, invece, ci sono gli scritti dell’autore, spesso legati a ricerche, incontri, intuizioni. Oltre a L’anticittà (Laterza, 2011) che abbiamo già citato – nata in un momento in cui la cosiddetta 'città dispersa' «nonostante rappresentasse a tutti gli effetti la forma urbana contemporanea di maggior successo, gli architetti e gli urbanisti allora non la guardavano, non la studiavano, non cercavano di capirla» (p. 87) – ci sono, per citarne alcuni, Biomilano. Glossario di idee per una metropoli della biodiversità (Corraini, 2011); Fare di più con meno. Idee per riprogettare l'Italia (con Ivan Berni, Il Saggiatore, 2012); La città scritta. Carlo Aymonino, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi, Bernardo Secchi, Giancarlo De Carlo (Quodlibet, 2016); Sezioni del paesaggio italiano (con Gabriele Basilico, Art&, 1997). Testi che fin dal titolo testimoniano della vastità di interessi dell’autore, della sua capacità di cogliere alcuni temi cruciali della contemporaneità.

Troviamo i personaggi. Una galleria di figure di mondi diversi: da Vittorio Gregotti – con cui, scrive, «ho avuto un rapporto intellettuale complesso e in periodi diversi della mia vita» (p. 71) – a Bernardo Secchi – «il mio primo maestro» (p. 72) – passando da Rem Kookhaas, Andrea Branzi, Vico Magistretti, Enzo Mari e Alessandro Mendini; da Mario Piazza a Ettore Sottsass; da Guido Martinotti a Gabriele Basilico – a cui, scrive, «ho voluto molto bene e ancora oggi mi mancano la sua ostinazione e la sua profonda intelligenza» (p. 84) – da Ludovico Einaudi a Luca Formenton a Piergaetano Marchetti – rispettivamente legati all’idea di Piano City e Book City che «era, ed è ancora oggi, un grande evento legato alla lettura come pratica diffusa nella vita quotidiana e negli spazi della città» (p. 67) – fino a Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.

E poi nel libro ci sono le occasioni mancate e persino i fallimenti. Che sono sempre parte del percorso professionale di ogni architetto. Quello di Expo 2015, che nell’idea di Boeri avrebbe potuto fare di Milano «per la prima volta nella storia dell’umanità, un grande orto botanico planetario» (p 43). Quello del Fiume verde, ovvero «un sistema lineare che unisse tutti gli scali [ferroviari] dismessi [di Milano], anche grazie all’uso dei binari morti come corridoi verdi, e li trasformasse in grandi aree di rinaturalizzazione» (p. 49). O quella di portare, per un certo periodo, la Pietà Rondanini di Michelangelo nella cupola centrale del carcere di San Vittore. Un modo, scrive Boeri, di «offrire agli abitanti di San Vittore la presenza muta e struggente di una scultura che incarna un concetto di pietà diverso dalla semplice compassione» (p. 123). Infine, quella che l’autore considera la sua «più importante esperienza di fallimento» (p. 128) ovvero il riadattamento dell’ex Arsenale militare sull’isola di La Maddalena per ospitare il vertice dei Paesi del G8 che verrà invece spostato a L’Aquila. Un’opera in cui «ruberie, illegalità e procedure non lecite» (p. 131) giocheranno un ruolo cruciale nel decretarne il definitivo abbandono. Altre pagine del libro, invece, narrano di occasioni colte solo parzialmente – come Casabosco, «un progetto sperimentale che implicava una visione realmente circolare del processo edilizio» (p. 48) – o di occasioni visionarie o di grande impatto mediatico. Come Forestami, «(promosso da Comune di Milano, Città metropolitana, Poltiecnico di Milano e altri […] con il coordinamento di Maria Chiara Pastore) [che tutt’oggi] sta promuovendo la piantumazione di tre milioni di alberi nell’area metropolitana milanese» (p. 45). O come il celeberrimo Bosco Verticale che secondo l’autore era ed è «il prototipo di un nuovo modo di pensare al rapporto tra architettura e natura vivente che, da elemento decorativo e ornamentale – scrive – diventava una componente essenziale della composizione architettonica» (p. 46).

Infine, ci sono pochi luoghi e oggetti cari, personali, richiamati brevemente e con pudore. Per esempio, la casa che la madre, Cini Boeri – amica di lunga data della Casa della Cultura – aveva realizzato per la famiglia nella seconda metà degli anni Sessanta sull’isola di La Maddalena. Oppure la lampada Arco, disegnata dai fratelli Castiglioni per Flos nel 1962, che nell’abbracciare lo spazio di lavoro di Boeri ha illuminato il tempo che ha consentito, e richiesto, la stesura di questo libro. Un tempo inaspettatamente liberato, utilizzato per fare ordine, per trovare un ordine di sé nel mondo. Per spiegarsi e spiegare il cammino di una vita di lavoro.

 

Qualche elemento di discussione

Così come quello di Ezio Manzini e quello di Elena Granata di cui abbiamo discusso nelle scorse settimane, anche il libro di Stefano Boeri suscita diverse riflessioni. Ne richiamiamo qui alcune come possibile elemento di dibattito: la prima riguarda i contenuti della proposta dell'autore sul futuro della città e del territorio; la seconda attiene la condizione dell’architettura e dell’architetto nella società contemporanea; la terza, infine, la modalità narrativa adottata nel libro.

1. Naturale/artificiale
La crisi climatica non lascia alternative alla necessità di andare nella direzione di un riequilibrio tra le attività dell’uomo e l’ambiente. E non c’è alcun dubbio circa il ruolo che architettura e urbanistica possono/devono giocare in questa fondamentale partita per il futuro dell’umanità. Su questo, dunque, non si può che essere d’accordo con l’autore che fa bene a insistere su tali aspetti affinché finalmente diventino patrimonio condiviso. Cosa diversa, tuttavia, è immaginare che tale riequilibrio possa avvenire prevedendo che la componente naturale (vegetale e animale) assuma un ruolo paritetico a quella antropica non in un quadro ambientale considerato nel suo insieme ma all’interno dei tessuti urbani. Questo, per molti versi, è stato il sogno (fallito) della cultura urbanistica moderna a partire da Ildefonso Cerdà che già nella seconda metà dell’Ottocento sosteneva la necessità di “ruralizzare la città, urbanizzare la campagna". E cosa diversa è pensare di poter raggiungere tale obiettivo attraverso la realizzazione di architetture in cui la componente materiale e quella tecnologica sono tali da artificializzare significativamente quella naturale che dovrebbe caratterizzarle e riconfigurarle. Nel primo caso, probabilmente, non faremmo che legittimare una ulteriore riduzione di aree naturali a favore di situazioni solo illusoriamente ibride ed equilibrate, dove in realtà la compromissione degli ecosistemi avrebbe la meglio. Questo, in fondo, è quanto avviene in tutti i contesti caratterizzati da un’edificazione a bassa densità, né città né campagna dove la presenza del verde privato che circonda le costruzioni o quello frastagliato inframmezzato a esse non è sufficiente a controbilanciare gli effetti della cementificazione del suolo. Nel secondo caso, invece, il rischio è quello di realizzare edifici sostenibili solo in apparenza, non nella sostanza. Oltre a questi aspetti andrebbero poi discussi i temi del paesaggio urbano, delle relazioni con i contesti esistenti, di un’urbanità dei tessuti edificati già abbondantemente andata in fumo durante il Novecento a cui probabilmente si darebbe il colpo di grazia.

2. L’architetto oggi
Un secondo tema su cui fa riflettere il libro riguarda la condizione dell’architetto e dell’urbanista nella società contemporanea. L'intensa e articolata attività professionale descritta fa emergere la figura di un professionista che non si occupa esclusivamente di progetto urbano e territoriale con un approccio miope e acritico, ma agisce come un intellettuale capace di vedere temi e questioni di più ampio respiro e, attraverso la sua attività principale o altre collaterali, indica una nuova strada da seguire. Comunemente, invece, si riscontra - anche per tante comprensibili ragioni che non necessariamente sono da imputare ai singoli o alle categorie professionali - una certa debolezza (culturale, politica, economica) di questa professione nei confronti delle richieste che vengono dal mercato, più che dalla pubblica amministrazione o dalle comunità. Viene dunque spontaneo interrogarsi su quali possibilità ha non l’autore (che gode di fama e potere mediatico) ma un giovane architetto per orientare la propria attività nella direzione indicata nel libro se il mercato chiede altro. Come, al di là dei doveri deontologici, potrebbe praticare un approccio etico, ambientale, civile nel progetto architettonico e urbano se la committenza non è sensibile a tali temi. Appare infine utile chiedersi se architetti, ingegneri, urbanisti e tutte quelle professioni coinvolte nelle trasformazioni della città e del territorio esprimono un’idea di futuro condivisa fondata su adeguate basi teorico culturali e se - come in altre discipline (si pensi alla medicina) - sono tra loro solidali a tal punto da poter indicare alla società la strada da seguire.

3. La modalità narrativa
La modalità narrativa del libro è – abbiamo detto – quella del taccuino autobiografico. Questa da un lato consente il racconto di una realtà (politica, professionale, culturale, di contesto) attraverso la ricostruzione di vicende personali. I filmati prodotti da Città Bene Comune, a cura di Elena Bertani, dedicati a Edoardo Salzano, Silvano Tintori e Alberto Magnaghi vanno in tale direzione. Così come ci vanno – seppur con intensità differenti dell’io narrante – i testi autobiografici di Edoardo Salzano – Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto (Corte del Fondego, 2010) –, Vezio De Lucia – Le mie città. Mezzo secolo di urbanistica in Italia (Diabasis, 2010) –, Giuseppe Campos Venuti – Un bolognese con accento trasteverino. Autobiografia di un urbanista (Pendragon, 2011) –; Giancarlo Consonni – Da grande voglio fare il poeta (La Vita Felice, 2013) – o, per citarne ancora uno (bellissimo come lo sono i precedenti), quello di Enzo Scandurra – Fuori squadra (Castelvecchi, 2017). Dall’altro, non dobbiamo dimenticare che a differenza del diario che è fatto per rimanere chiuso in un cassetto, l’autobiografia presuppone l’autorappresentazione, premeditata e persino pubblica, ovvero la narrazione del sé e la ricostruzione dei fatti che riguardano la propria esistenza fin dal momento in cui la si scrive. E le autorappresentazioni del proprio passato, si sa, non solo sono viziate dal ricordo, dai meccanismi selettivi della memoria che a distanza di anni ci fanno vedere i fatti in modo anche assai diverso da quando li abbiamo vissuti. Esse sono in qualche modo corrotte e corruttibili dalle gioie o dai tormenti del presente ma soprattutto dalla rappresentazione che consciamente o inconsciamente ognuno di noi vuole dare di se stesso. Cosa che non sminuisce affatto l'importanza di questo genere di testi, collocandoli nell'area della testimonianza viva, di una riflessione critica filtrata dal setaccio di ciò che siamo oggi e da quello del vissuto, dell’esperienza, da tutto ciò che si è sedimentato dentro il cuore, l’anima, il cervello.

Renzo Riboldazzi

 

N.d.C. - Renzo Riboldazzi insegna Urbanistica al Politecnico di Milano. È mem­bro della direzione scientifica dell’Archivio Piero Bottoni (dipartimento Dastu) e del consiglio culturale della Casa della Cultura di Milano. Ha ideato e coordina “Città Bene Comune”, ambito di dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e le relative culture progettuali. La sua attività di ricerca verte prevalen­temente sulla cultura del progetto urbano moderno e contemporaneo.


© RIPRODUZIONE RISERVATA

13 MAGGIO 2022

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, l'ambiente, il paesaggio e le relative culture progettuali

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Luca Bottini
Oriana Codispoti
Filippo Maria Giordano
Federica Pieri

cittabenecomune@casadellacultura.it

iniziativa sostenuta da:
DASTU - Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Conferenze & dialoghi

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2021: V. Magnago Lampugnani | G. Nuvolati
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

 

 

Gli incontri

2021: programma/1,2,3,4
2022: programma/1,2,3,4
 
 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori
2019: Alberto Magnaghi

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020: online/pubblicazione
2021: online/pubblicazione
2022:

R. Pavia, Il porto come soglia del mondo, commento a: B. Moretti, Beyond the Port City (Jovis, 2020)

S. Sacchi, Lo spazio urbano è necessario, commento a L. Bottini, Lo spazio necessario (Ledizioni, 2020)

D. Calabi, La "costituzione" degli ebrei di Roma, commento a: A. Yaakov Lattes, Una società dentro le mura (Gangemi, 2021)

F. Ventura, Memoria dei luoghi ed estetica dell'Ircocervo, riflessione a partire da: G. Facchetti, C’era una volta a San Siro (Piemme, 2021) e P. Berdini, Lo stadio degli inganni (DeriveApprodi, 2020)

E. Scandurra, Il territorio non è una merce, commento a: M. Ilardi, Le due periferie (DeriveApprodi, 2022)

A. Mela, Periferie: serve una governance coerente, commento a: G. Nuvolati, Alessandra Terenzi (a cura di), Qualità della vita nel quartiere di edilizia popolare a San Siro, Milano (Ledizioni, 2021)

M. A. Crippa, Culto e cultura: una relazione complessa, commento a: T. Montanari, Chiese chiuse (Einaudi, 2021)

V. De Lucia, La lezione del passato per il futuro di Roma, commento a: P. O. Rossi, La città racconta le sue storie (Quodlibet, 2021)

M. Colleoni, Mobilità: non solo infrastrutture, commento a: P. Pucci, G. Vecchio, Enabling mobilities (Springer, 2019)

G. Nuvolati, Una riflessione olistica sul vivere urbano, commento a: A. Mazzette, D. Pulino, S. Spanu, Città e territori in tempo di pandemia (FrancoAngeli, 2021)

E. Manzini, Immaginazione civica, partecipazione, potere, commento a: M. d'Alena, Immaginazione civica (Luca Sossella, 2021)

C. Olmo, Gli intellettuali e la Storia, oggi, commento a: S. Cassese, Intellettuali (il Mulino, 2021); A. Prosperi, Un tempo senza storia (Einaudi, 2021)

A. Bagnasco, Quale sociologia e per quale società?, commento a: A. Bonomi (a cura di), Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi 2021)

R. Pavia, Le parole dell'urbanistica, commento a A. A. Clemente, Letteratura esecutiva (LetteraVentidue, 2020)

G. Laino, L'Italia ricomincia dalle periferie, commento a: F. Erbani, Dove ricomincia la città (Manni, 2021)

G. Consonni, La bellezza come modo di intendersi, commento a: M. A. Cabiddu, Bellezza. Per un sistema nazionale (Doppiavoce, 2021)