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L’ultimo libro di Giandomenico Amendola, Desideri di città. Utopie Speranze Illusioni (Progedit, 2022), si configura quasi come uno slalom attraverso le molteplici caratterizzazioni della città che sono state date nella storia, questo per raggiungere l’obiettivo di rendere trasparente e spiegabile il nostro desiderio di città. L’autore infatti scrive: ”Non si vive in una società, … ma in una città dove la società si condensa e si rende visibile ed esperibile”. Quello di città, tuttavia, è un desiderio composito (come forse lo sono tutti i desideri): dalla familiarità determinata dalla frequentazione alla ricerca di sicurezza, dalla necessità di socializzazione ai molteplici bisogni che singolarmente e collettivamente esprimiamo. Alla città riconosciamo il ruolo di motore del cambiamento della società. Storicamente, infatti, è da qui che le grandi trasformazioni prendono le mosse ed è questo il palcoscenico su cui continuamente lottiamo per rendere il nostro presente e il nostro futuro migliori. È chiaro che questo nostro desiderio di una città sempre più adeguata ai nostri bisogni, alle nostre aspettative o ai nostri sogni, finisce talvolta per incontrare l’utopia. Sono il contesto culturale e le esperienze che ci permettono di abbracciare l’idea che il nostro futuro non dipenda da Dio ma unicamente da noi stessi, da quello che facciamo, da quanto siamo disposti ad impegnarci e anche da quanto sappiamo metterci in gioco. In altre parole, da quanto, davvero, investiamo per costruire la nostra città utopica.
I ricchi riferimenti bibliografici che caratterizzano tutto il testo danno conto di una ricerca approfondita, rendono esplicito il lavoro di Amendola nel mettere a sistema la sua articolata elaborazione sul tema della città. Non voglio dire che questo testo rappresenti il punto di arrivo dell’esplorazione di questo tema da parte dell'autore, ma sicuramente esso ha un po’ il significato – almeno così l’ho colto io – di una sintesi dei tanti lavori che alla città ha dedicato, con la messa a fuoco – in questo caso – del tema del bisogno di città. Un “bisogno”, più che mai attuale, che non solo caratterizza – per cosi dire – l’evoluzione e la trasformazione di lungo periodo della condizione urbana, ma che finisce per determinare un nesso indissolubile tra l’evoluzione della specie umana e il contesto fisico in cui questa assume forma e sostanza,
Il libro si articola in diciotto capitoli, non estesi ma molto densi, nei quali si esaminano le diverse sfaccettature che ha assunto nella nostra evoluzione sociale la città e come questa ha condizionato i caratteri dell’urbano. È mia opinione – ma credo che l’autore possa condividerla – che storicamente la città si sia trasformata profondamente – cambiando forma, dimensioni, carattere – ma che, nella sostanza, molti dei connotati dei primi insediamenti si possano ritrovare anche nella metropoli contemporanea. Un fatto che forse si giustifica con la simbiosi esistente tra società e contesto urbano. Così si passa dalla città felix alla città dei cittadini, dalla città ideale alla città giusta e così via fino all’immaginario tecnologico. Amendola ci conduce per mano in un viaggio attraverso i secoli mettendo a confronto il nostro specifico desiderio di città e la stessa capacità dell’umanità di dare a questo una concreta realizzazione.
Se scienziati, urbanisti, architetti, sociologi, ecc. si sono frequentemente sforzati per dare una esplicita descrizione della “città desiderata”, nulla quanto la nostra esperienza rende esplicita la concreta realizzazione di questo desiderio. Sappiamo – spesso lo misuriamo sulla nostra pelle – che le città non rispondono né ai nostri desideri né ai nostri progetti. È come se ci fosse una “resistenza” della città a piegarsi. La cosa curiosa è che questa indisponibilità – se così la possiamo chiamare – di rispondere adeguatamente a quanto viene richiesto nei diversi periodi storici si colloca in una traiettoria di lungo periodo che non trova soluzione. Le città, per eventi naturali o umani, mutano, cadono in rovina, vengono riabilitate, riorganizzate e ricostruite, ma sempre appaiono a noi inadeguate. Non si tratta di una maledizione divina, ma piuttosto di una differenza tra la velocità con la quale cambiano i nostri desideri e i nostri bisogni e la lentezza con la quale la città muta: una inerzia che deriva da una pluralità di condizioni e che, tra le altre cose, sottintende una inefficienza della politica ma anche una certa stabilità delle forme e delle funzioni urbane. Mi pare che il “desiderio di città”, così come nelle varie epoche si è manifestato, ha finito per costruire una relazione non soddisfacente tra la domanda di città e il suo continuo cambiamento. C’è sì una manifesta resistenza della città ad adeguarsi alla nostra domanda, ma al tempo stesso è il cambiamento della città che la alimenta e viceversa, senza che tra i due estremi si sia forse mai giunti ad un punto di mediazione soddisfacente.
Questa constatazione non si trova esplicitata nel testo di Amendola, ma sicuramente un ragionamento di questo tipo si intreccia con l’esplorazione dell’autore ed appare in filigrana nel testo. Così, mi pare utile soffermarmi sui sei tipi di città che l’autore individua e descrive come modelli delineati a partire dall’osservazione dalla città contemporanea. Questi – scrive Amendola – “rappresentano, incarnandoli, le esigenze e i requisiti della città e nello stesso tempo costituiscono anche l’oggetto di una domanda sociale che si presenta sempre di più con caratteri di perentorietà e ineludibilità”. Si tratta, appunto, di “modelli” che si contrappongono ma che, nello stesso tempo, esprimono la necessità di una reciproca integrazione: un esito interessante e chiaro dell’esplorazione del nostro autore. Essi sono: la città della competizione; la città dello spettacolo; la città delle differenze; la città delle possibilità; la città bella; la città sicura. Si tratta di modelli che, in realtà, possono essere intesi come sottolineature di aspetti fondativi della “città che desideriamo”. Si potrebbe sostenere che quello a cui ricorre l’autore sia un espediente narrativo per rendere esplicito il modo con cui potrebbe concretizzarsi il nostro desiderio di città. Non si tratta di rigidi tematismi. Al contrario, credo che l’autore abbia voluto esplicitamente criticare una certa tendenza della città a specializzarsi, cioè a privilegiare una soltanto delle possibilità offerte a scapito di altre. Quella che Amendola – così come molti di noi – ha in mente è infatti una città dalle molteplici sfaccettature e dalle plurime funzioni, una città plurale e democratica, in grado di soddisfare bisogni e desideri che ciascuno di noi si porta appresso e che la società nel suo insieme catalizza ed esprime.
Per concludere, quella che Giandomenico Amendola, con intelligenza, mette a fuoco nel suo bel libro – e che suscita numerose riflessioni sulla condizione e sul futuro della condizione urbana – non è tanto l’idea di città che l’umanità ha espresso in epoche diverse, ma come questa grande invenzione sociale si coniuga, senza mai soddisfarlo, con il nostro desiderio. Cambiamenti, mutazioni, riorganizzazioni, distruzioni e ricostruzioni fanno sì che la città sia, nei fatti, un’opera costantemente incompiuta, qualcosa in continua evoluzione nel tempo e nello spazio, tanto nella sua concretezza fisica quanto nell’immaginario individuale e sociale.
Francesco Indovina
N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.
Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla rendita (8 febbraio 2019); Un giardino delle muse per capire la città (4 ottobre 2019); È bolognese la ricetta della prosperità (20 marzo 2020); Come combattere la segregazione urbana (27 novembre 2020); Post-pandemia? Il futuro è ancora nelle città (12 febbraio 2021); Urbanistica? Bologna docet (3 settembre 2021).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 03 FEBBRAIO 2023 |