Pierluigi Ciocca  
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L'ECONOMIA MONDIALE, E NON SOLO, A RISCHIO


Sui rischi di stagflazione e inasprimento di tensioni geopolitiche



Pierluigi Ciocca


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Novembre 2024

La proiezione di ottobre 2024 del FMI per l’economia mondiale nel 2025-2029 ruota attorno al numero tre: una dinamica sul 3% l’anno del Pil, degli scambi fra paesi, dei prezzi al consumo. Il FMI definisce in particolare “underwhelming”, deludente, la prospettiva della crescita. Se il quadro è mediocre, non si deve escludere che risulti ottimistico. Su scala mondiale l’inflazione potrebbe essere più alta, lo sviluppo della produzione e degli scambi inferiore.

Ciò per il concorso di cinque possibili motivi: calo dell’offerta; espansione della domanda; banche centrali incerte; bassa produttività; crisi della cooperazione internazionale.

1) Autarchia, protezionismo, guerre e tensioni geopolitiche stanno frantumando le relazioni commerciali e finanziarie internazionali. Comportano un generale aggravio dei costi, un restringimento dell’offerta aggregata di beni e servizi. Ceteris paribus uno shock d’offerta di tale segno contrae attività economica e occupazione, innalza il livello dei prezzi. L’autarchia assume la forma di sussidi statali ancora più cospicui degli attuali alle produzioni nazionali, anche alle imprese meno efficienti, incapaci di sostenere la concorrenza estera. È la modalità più negativa e distorsiva. È anche poco trasparente, quindi meno suscettibile di trattativa e di compromesso fra gli Stati. Il protezionismo va nella medesima direzione, sebbene muova da una media dei dazi doganali internazionali storicamente bassa (del 4% nel 2022). Inoltre i dazi, per la stessa chiarezza del commisurarsi a un numero, sono più adatti alla minaccia strumentale e più suscettibili di accordo rispetto agli opachi rivoli di sussidi pubblici. Infine la guerra non appena li utilizza consuma i beni militari, che è poi molto oneroso riprodurre, e spiazza i beni e i servizi civili, aumentando così i costi e i prezzi complessivi. Non a caso Keynes, pacifista, cento anni fa diceva (nella Fine del laissez-faire) che “le merci e i servizi ottenuti con le spese militari sono destinati a estinzione immediata e infruttifera”.

2) Allo shock d’offerta potrebbe unirsi uno shock di domanda: una espansione della domanda aggregata mondiale legata a due fattori. Ovunque si stanno pianificando e attuando spese militari aggiuntive, che moltiplicano la domanda globale. Inoltre negli Stati Uniti la nuova amministrazione darebbe concreto seguito alla duplice promessa con cui Trump ha vinto le elezioni per “rendere di nuovo grande l’America”: effettuare nel medio termine maggiore spesa pubblica per almeno 7,5 trilioni di dollari (25% del Pil attuale!), bloccare l’immigrazione ed espellere immigrati sebbene vi siano pieno impiego e scarsità di manodopera. Già attraverso le aspettative l’effetto inflazionistico sarebbe molto forte. Inoltre, come è avvenuto nel 2021 e nel 2022 prima della guerra in Ucraina, dagli USA l’inflazione si estenderebbe al resto del mondo perché l’economia americana pur sempre esprime il 15% del prodotto reale globale, seconda solo al 19% dell’economia cinese. Le quotazioni delle fonti d’energia e dei prodotti primari salirebbero rapidamente anche rispetto a quelle dei manufatti. Queste tuttavia non diminuirebbero, cosicché l’asimmetria del mutamento nei prezzi relativi accentuerebbe l’inflazione.

3) I tassi d’interesse, già calmierati in termini reali dall’attuale inflazione core, si stanno ulteriormente riducendo. Nell’abbassare i tassi nominali le banche centrali sono condizionate dalla pressione miope della politica e del mondo degli affari, in particolare di chi specula sui mercati finanziari. Ma se l’inflazione ripartisse il prezzo del danaro potrebbe bruscamente salire, sgonfiando le borse sopravvalutate e frenando direttamente gli investimenti. Lo shock d’offerta tenderebbe allora a risolversi nel peggiore degli scenari: inflazione e disoccupazione. Se le banche centrali lasciassero i tassi invariati o continuassero a ridurli e la domanda globale si dilatasse l’aumento della disoccupazione ne risulterebbe contenuto, ma l’inflazione sarebbe più alta. Si riproporrebbe comunque il dilemma della stagflation.

4) Particolarmente incerta in questo quadro incerto è la produttività. Il suo incremento stabilizzerebbe i prezzi e favorirebbe la crescita più della stessa accumulazione di capitale. Dopo il 2019 il quadro è oscurato dalla caduta e dal rimbalzo del prodotto provocati dal covid. Nondimeno fra il 1998 e il 2019 la dinamica della produttività totale dei fattori è risultata negativa o nulla in Italia e Spagna, mentre negli altri paesi dell’OCSE ha progredito solo dello zero virgola per cento l’anno. ICT e Intelligenza Artificiale non hanno ancora dispiegato l’effetto sperato, di estendere la produttività agli altri settori. Questo non è avvenuto nemmeno negli Stati Uniti, dove le nuove tecnologie sono all’avanguardia.

5) Ciò che è più grave, la cooperazione economica internazionale, la stessa pace sono minate da autarchia, protezionismo, conflitti, ma anche dall’affermarsi di paesi nuovi. Vi si unisce la fragilità, economica e politico-istituzionale, degli Stati Uniti, dove la stessa democrazia è scossa dall’asprezza dello scontro fra i partiti, da tensioni sociali, da spinte centrifughe. Gli equilibri mondiali stanno quindi attraversando una fase di transizione confusa, imprevedibile negli sbocchi. Ai cinque originari BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa – si sono aggiunti dal 1° gennaio 2024 Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia, Iran. Tredici partner sono in trattativa per aderire, e ancor più lunga è la lista della cinquantina e passa di nazioni che hanno richiesto la partnership per candidarsi in futuro. In termini reali il Pil degli attuali paesi membri supera il 30% del Pil mondiale. Se una parte degli aspiranti venisse accolta il club supererebbe la metà dell’economia del globo. In questo molto variegato consesso anti-occidentale al di là delle motivazioni politiche v’è un intento economico comune, che ne riassume altri: sottrarsi al signoraggio del dollaro quale valuta di riserva e di denominazione e pagamento nelle transazioni commerciali e finanziarie internazionali. In assenza di alternative l’accettazione del dollaro ha sinora consentito agli Stati Uniti di indebitarsi verso l’estero, di vivere per decenni al disopra delle proprie risorse col risparmio che i paesi creditori trasferiscono all’economia americana e non impiegano al loro interno. Dal dopoguerra la leadership di Washington ha assicurato l’ordine mondiale: una pax americana, non solo economica. Ma le debolezze attuali degli Stati Uniti suscitano dubbi sulla loro primazia. Nell’ultimo ventennio la crescita del reddito reale pro capite statunitense è scesa all’1,3% l’anno, rispetto al 2,4% del ventennio precedente. L’accumulazione di capitale non è stata in aumento. Anche per lo scemare della concorrenza interna la crescita della produttività totale dei fattori dall’1,9% l’anno del 1920-1970 si è ridotta nell’ultimo ventennio allo “zero virgola”, come in altri paesi. Nella società americana la distribuzione degli averi è altamente sperequata: l’1% più abbiente detiene oltre il 20% del reddito e oltre il 30% del patrimonio di tutti i cittadini. Sono dati da paese sottosviluppato. Il reddito medio pro capite sfiora i 90mila dollari l’anno ma 38 milioni di persone – oltre un decimo degli americani, anche bianchi non laureati – sopravvivono a stento in povertà assoluta, molti abbandonati nelle strade. L’apparato sanitario cura chi può pagarsi la medicina d’avanguardia sviluppata dai Premi Nobel. Tuttavia è nell’insieme costosissimo e inefficiente. La speranza di vita non arriva a 80 anni, rispetto agli 84-85 anni nei paesi dove la sanità resta un bene in primo luogo pubblico. La finanza statale è dissestata, con un disavanzo superiore al 7% del Pil e un debito che travalica ormai il 120% del Pil sommandosi a un debito privato pur esso alto. Dal 2009 la competitività in termini sia di costo unitario del lavoro sia di prezzi è scemata di un terzo. La bilancia dei pagamenti correnti è afflitta da un passivo strutturale, giunto a sfiorare il trilione di dollari l’anno. La posizione debitoria netta verso l’estero è quindi in continua ascesa e già varca 23 trilioni, l’80% del Pil. Per il loro orientamento a esportare Giappone, Germania e soprattutto la “nemica” Cina hanno invece una posizione creditoria netta verso l’estero complessivamente pari a 10 trilioni di dollari, in prevalenza a fronte degli Stati Uniti. Una vendita di dollari da parte della Cina e la sfiducia nella moneta di riserva alimenterebbero la stagflation. Le crepe nella cooperazione fra paesi la renderebbero più difficile da governare.

Lo sbocco peggiore delle contraddizioni e dei contrasti interni al capitalismo è la guerra mondiale. Forse non è nell’interesse di una Cina in progresso economico. Forse la Russia non ha la forza economica per sostenerla. L’Europa non ha peso geopolitico. Gli Stati Uniti, sfidati, potrebbero non attendere il loro ulteriore indebolimento economico e far leva sul loro strapotere militare, già usato in passato.

Come spesso accade, il verificarsi di un insieme di eventi sfavorevoli non è valutabile in termini di probabilità commensurabili. Tuttavia la logica – non dimostrativa! – e l’analisi empirica invitano a non escludere lo scenario più negativo …

 

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