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Il Rinascimento, soprattutto nella sua seconda fase, ossia lungo i tormentati passaggi del XVI secolo, aveva visto la genesi della rivoluzione scientifica, che avrebbe imposto il suo paradigma ai secoli successivi; parallelamente a essa l'avvento della Riforma protestante intese rinnovare il cristianesimo nel segno della 'libertà dei cristiani', in discontinuità col dispotismo papale e nell'affermazione della coscienza personale quale tribunale inviolabile della comunicazione diretta tra Dio e l'essere umano. Con validi motivi Hegel ravvisò in ciò, e nella figura emblematica di Martin Lutero, l'autentico e pregnante inizio del rischiaramento della ragione, che sarebbe culminato nella Rivoluzione francese. Ma il Rinascimento aveva visto anche, nel suo intero arco temporale, ossia dai primi decenni del 1300, con Ockham e Marsilio da Padova, fino alla fine del '500, il sempre più deciso dispiegarsi della laicità, concepita come il diritto incoercibile all'autodeterminazione individuale. In quest'ultimo profilo del Rinascimento si colloca Michel de Montaigne (1533-1592), i cui Essais (Saggi) si pongono come l'ideale vertice della maturazione della laicità rinascimentale e come il prezioso anello di congiunzione con il fiorire del Libertinismo nel XVII secolo e poi dell'Illuminismo propriamente detto nel XVIII secolo. Tuttavia della laicità Montaigne ci propone una versione pragmatica e priva di pretese veritative, e questo a mio parere è il suo punto di forza e di attualità, nient'affatto la sua debolezza: laicità e tolleranza dunque intese noncome l'inveramento dello spirito eterno della polis, bensì come lo strumento per una coesistenza sociale mirata alla minore sofferenza possibile per i membri della società e connotata dalla maggiore levità possibile dei costumi e delle norme pubbliche condivise. Con lo scetticismo di Montaigne quindi siamo molto lontani dalla concezione della laicità come ideale realizzato nella Costituzione delle Repubbliche francesi che si sono susseguite dalla Rivoluzione francese in poi. L'autoritarismo e il paternalismo sotteso a questo modello impositivo di laicità è stato ben colto da un grande studioso del tema, il sociologo protestante Jean Baubérot, che ne ha mostrato i limiti intrinseci (1) .
Ma per poter valutare se la lezione di Montaigne ha ancora qualcosa da dirci oggi, dobbiamo preliminarmente comparare i due rispettivi contesti storici in cui si trovava il pensatore perigordino e in cui ci troviamo noi.
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Per più di un aspetto la situazione culturale del tardo Rinascimento, la cosiddetta Spätrenaissance, si presenta come affine al momento lacerante che stiamo attraversando, dagli ultimi decenni del XX secolo in poi: allora come adesso si assiste, impreparati e a volte attoniti, al crollo simultaneo degli scenari di senso ormai ossificati, che si erano imposti ma che si erano progressivamente svuotati e infine sono crollati sotto la spinta impressa dai rivolgimenti sociali degli anni '60; con lo stesso sgomento gli osservatori più lucidi coglievano la crisi irreversibile dell'assetto politico medievale e la fine del concordismo religioso imposto e normato da Roma. Allora come oggi, sotto le macerie di quegli scenari di senso si sente premere il bisogno di un nuovo inizio, che tragga linfa dal sentimento originario della vita indivisa e si prolunghi in una nuova visione dell'esperienza, precorritrice, poli-centrica e polifonica; in essa possono trovare un nuovo spazio di espressione dimensioni di alterità prima rimaste inespresse, o soffocate da schemi ideologici che hanno decretato l'incompatibilità di ciò che deve invece diventare compossibile, pena l'implodere di queste forze creative in una scia di catastrofiche collisioni.
Prendendo a prestito da Sartre il concetto di situazione, potremmo dire che la situazione di Montaigne è, almeno in parte, anche la nostra, accomunata dall'esperire e dar forma al senso della fluidità, alla rinuncia al pigro acquietarsi nei significati precostituiti e nelle certezze ormai svuotate, e insieme dal fiducioso approntare strumenti artigianali di ricostituzione di fisionomie di intelligibilità che consentano di ritotalizzare in modo nuovo l'esperienza, la quale in superficie si presenta nel segno della frammentazione più caotica. È appunto quello che tentò di fare Montaigne nei due ultimi decenni della sua esistenza, vagabondando tra letture di tutti i tipi, e orientandosi verso una sintesi provvisoria eppure efficacissima, che qualificò come sagesse (saggezza), concepita come mestiere di vivere ('mon mestier et mon art, c'est vivre'); a essa egli assegnò il compito di dare un certo ordine alla spregiudicata esplorazione della humaine condition operata nel suo libro, condotta con strumenti artigianali, e di pervenire così a un equilibrato, e sempre singolare, usage de la vie: la saggezza, dunque, come insieme di pragmatiche istruzioni per l'uso rivolte sia all'individuo sia alla collettività.
L'attualità straordinaria delle pagine degli Essais del resto è proprio il primo carattere che si è impresso nei suoi più acuti lettori-amici, fino a oggi. Ciò è vero soprattutto per gli interpreti che hanno incontrato l'opera di Montaigne nella seconda metà del secolo scorso, quando il grande percorso della modernità inaugurato dalla matematizzazione galileiana della natura aveva mostrato tutti i limiti della separazione della quantità dalla qualità, con quel che ne è conseguito in termini di reificazione e di oblio della sensatezza del vivere. Ora, Montaigne si colloca nella soglia di questa transizione epocale, che per un verso egli non può ancora cogliere, giacché solo Cartesio le darà la sua organica formulazione teorica, con l'articolazione della sostanza in res cogitans e in res extensa e l'espunzione dalla seconda della finalità. Tuttavia l'autore degli Essais riesce ugualmente a scavalcare l'arco in cui la ragione cartesiana si è imposta e quindi consumata, perché aderisce alla propria esperienza vissuta, quotidiana, in carne e ossa; egli la sonda con abito scettico, eppure non mestamente disincantato, convinto che mettendosi a nudo nei più marginali dettagli della sua quotidianità potrà dare un contributo alla comprensione della vicenda umana nella sua universalità.
A tal fine Montaigne prende le mosse da una sospensione del giudizio su tutto ciò che è dato e che pretende di valere come vero solo in forza della sua ovvietà. Con questo atteggiamento Hegel, nella Fenomenologia dello spirito, dirà che conoscere è rendere estraneo il noto.
Lo scetticismo è certo appreso alla fonte dei classici, dai radicali e intransigenti Schizzi pirroniani di Sesto Empirico, incontrati alla metà degli anni '70, al probabilismo degli Academica di Cicerone, fino all'ideale socratico dell'inscienza, quale atteggiamento critico consistente nel reiterare nei conflitti delle interpretazioni il sapere di non sapere: diventerà il riferimento centrale degli ultimi anni della sua vita. Sotto la penna di Montaigne l'epoché scettica diventa un esercizio critico ma anche sempre autocritico, audace e insieme modesto e lieve: un abito leggero che si adatta alle piccolissime e ambigue pieghe del vissuto. Tale scetticismo non invalida la ricerca della saggezza, perché non sfocia nel motto montaignano Que sçais-je? (cosa so?), giacché in queste celeberrime parole la venatio sapientiae montaignana ha il suo punto di partenza, non il suo approdo, come ben colse André Gide. Si tratta infatti uno scetticismo che consiste nel 'dar aria ai pensieri', come ha scritto Sergio Solmi, illustrando l'ideale montaignano di salute, quale equilibrio dinamico, mai fondato e mai dedotto, tra sensibile e intelligibile; uno scetticismo, potremmo dire, come esercizio mattutino, che inaugura ogni giorno la ricerca della verità, e si continua come il movimento nella verità a contatto con l'esplorazione dei fenomeni della vita precategoriale, per concludersi con la socratica scoperta dell'inscienza, ossia che il sapere di non sapere è esso stesso il movimento della verità (2) .
Ora, questo esito si palesa come uno scacco solo per la ragione dogmatica e dominatrice, che vuole imporre a sé e agli altri un paradigma precostituito del vero; invece lo stesso scacco si delinea come una conquista per la ragione dialettica ed emancipatrice. Questa non recinge il cumulo dei significati acquisiti, legittimandoli come veri e affidandoli all'amministrazione imposta con criteri estrinseci da chi governa autoritariamente i regimi di verità; al contrario, mira a individuare, nella sterminata varietà di costumi e credenze che presentano le civiltà e il succedersi delle epoche al loro interno, criteri che orientino la condotta individuale e collettiva nella direzione di una sensatezza precaria e aperta al proprio superamento. Il Perigordino non si ammutolisce nel mesto rilievo di uno scacco nella ricerca della saggezza, perché scopre la comune fonte di tutti i percorsi individuali e collettivi: la coscienza morale, unica e insieme sempre diversa da individuo a individuo, da età a età, da società a società; la coscienza morale, dunque, che seppure intramata di storicità e naturalità, presenta un orlo di intemporalità, il quale consente il dialogo tra civiltà differenti e anche il dialogo attraverso il tempo, con gli antichi e con i posteri.
Nell'inoggettivabile, eppure non completamente indefinita, coscienza morale, sempre debordante dagli angusti confini in cui vorrebbe rinchiuderla l'onnipervadente e monocorde principio di autorità, egli vede l'emergere di due paralleli e comunicanti imperativi, che bastano a mantenere l'esistenza individuale e sociale nell'orizzonte aperto del senso, ed evitano quindi il loro dissolversi nella afinalistica, piatta rimanditività di segno in segno, di simulacro in simulacro: da un lato, il dovere incondizionato dell'autenticità, quale sforzo appropriativo che esige la libera e attiva decisione di attuare i possibili che l'io scopre inscritti dentro di sé, contro le maschere e i pregiudizi che tiranneggiano la convivenza sociale; dall'altro, e convergentemente, l'altrettanto incondizionato dovere della responsabilità per tutta la vita sofferente, che silenziosamente ci chiama all'azione. Montaigne scopre così i legami che in un comune strato di sensibilità precategoriale ci accomunano ai viventi sofferenti, a tutti coloro che soffrono sotto gioghi imposti da costumi, dispositivi manipolativi e credenze ideologiche che erigono le barriere del privilegio, al fine di preservare e rafforzare i poteri in cui si strutturano le logiche violente dell'esclusione.
È in questo movimento scettico della saggezza come costruzione degli strumenti di comprensione di un presente opaco e scivoloso, che prendono forma le più famose, audaci e anticipatrici analisi critiche di Montaigne: la denuncia delle diseguaglianze sociali, dell'ipocrisia generalizzata nella vita pubblica, delle atrocità compiute nella conquista dell'America sulla pelle innocente dei nativi, la condizione della donna nelle società patriarcali, soprattutto in quella in cui vive il Perigordino, le condizioni ancor più indifese dei fanciulli, l'insensatezza e l'improduttività di un modello educativo basato sulla coercizione anziché sullo sviluppo della personalità; infine la crudeltà di cui gli esseri umani danno prova verso la vita animale e l'insensibilità per i delicati equilibri della vita vegetale.
Montaigne intravede una società in cui tutti questi mali si dispiegheranno in modo ancora più massiccio e violento; di qui proviene il suo pessimismo, ma egli non rinuncia all'impresa del cimentarsi per vivere un'esistenza sensata, e ritiene che solo attivando la logica dell'inclusione nei vecchi e nei nuovi territori dell'esperienza ci si potrà mantenere nell'orizzonte incircoscrivibile e inoggettivabile della verità, e aprirsi in tal modo a nuove forme di comunicazione con chi oggi ci appare estraneo e lontano, rifuggendo da facili demonizzazioni.
'Homo sum, humani nihil a me alienum puto'. Le parole, tuttora visibili, di Terenzio che egli fece incidere su una delle travi del suo studio, nella torre del castello di famiglia in cui aveva la sua personale dimora possono riepilogare tutto ciò; e possono anche interpellare fiduciosamente noi oggi, nel'odierno stridere di voci stonate che evocano ottusamente la vecchia logica dello scontro amico-nemico, come facile passe-partout per aprire le porte che ci separano dal territorio inesplorato in cui dobbiamo comunque addentrarci; porte che potremo aprire soltanto se saremo capaci di trasformare le odierne incompatibilità in nuovi, dinamici processi dell'accordo, dispieganti nuovi scenari di compossibilità intersoggettiva.
Note
1) Cfr. J. Baubérot, Le tante laicità del mondo. Per una geopolitica della laicità, perchè essa non è un assoluto fuori dal tempo, ma il frutto di processi storici e di fondamenti filosofici differenti, Luiss University Press, Roma 2008.
2) Ho approfondito questo profilo dello scetticismo montaignano, qualificandolo come 'scetticismo fenomenologico', nel mio libro Oh, un amico! In dialogo con Montaigne e i suoi interpreti, Milano 1996. Il libro è esaurito, ma è reperibile gratuitamente sul sito web Academia.edu.
© RIPRODUZIONE RISERVATA 25 NOVEMBRE 2015 |