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Peccato. Peccato per quel titolo infelice. Per quella preposizione che pare essere lì più per colpire, scandalizzare e - potremmo malignamente pensare - per vendere qualche copia in più. Peccato perché in realtà non fa che indisporre il lettore più accorto per la sua superficialità e una certa supponenza mentre l'ultimo libro di Franco La Cecla - Contro l'urbanistica. La cultura delle città (Einaudi 2015) - è ricco di intelligenti intuizioni, di sensibili restituzioni letterarie di contesti vicini e lontani, di amare e tuttavia condivisibili riflessioni sulla condizione urbana e quella delle scienze che dovrebbero prendersene cura. Ma - ahimè - anche di qualche imperdonabile semplificazione che conferma l'avventatezza del titolo e finisce col tarpare le ali a una tesi di fondo - quella della necessità di rifondare una disciplina per molti versi inadeguata ad affrontare le sfide della contemporaneità - che avrebbe un suo fondamento e meriterebbe di essere messa a fuoco più chiaramente.
Della pesante critica mossa da La Cecla all'urbanistica possiamo condividere diverse cose.
Per esempio, l'incapacità 'a costituirsi come una disciplina di osservazione, di ascolto e di interpretazione delle realtà urbane' (p. 34). Realtà che sono qualcosa di assai più complesso dei pochi fattori solitamente presi in considerazione dalla pianificazione. Nella pratica professionale corrente 'la rappresentazione della complessità - osserva giustamente l'autore - è ancora un atlante fatto di retini, flussi, zonizzazioni in cui è difficilissimo ravvisare non solo un genius loci, ma soprattutto una relazione di appartenenza e mutua influenza tra abitanti e città' (p. 34).
Possiamo poi - forse e con i dovuti distinguo - condividere l'idea che l'urbanista si sia frequentemente ridotto a essere 'una specie di assistente dell'economia immobiliare, un mezzo politico - scrive La Cecla - capace di mediare tra le forze del capitale territoriale' (p. 41) per portare a compimento piani e progetti maturati altrove, lontano dai contesti su cui saranno calati e in omaggio a logiche che spesso nulla hanno a che vedere con le vere esigenze della società. 'L'urbanistica degli uffici di piano, l'urbanistica assegnata agli studi privati - ma a nostro avviso sarebbe stato più corretto dire: 'L'urbanistica di alcuni uffici di piano, l'urbanistica assegnata ad alcuni studi privati…' - l'urbanistica intesa come disbrigo delle questioni relative al chi ha diritto a costruire e dove - afferma l'autore generalizzando più del necessario e soprattutto non lasciando intravedere alternative concrete - si allontana enormemente dalla sua matrice umanistica e perde completamente di vista la necessità di darsi degli strumenti di conoscenza che orientino quelli di intervento' (p. 41). Succede quindi che un'urbanistica priva di un pensiero politico sulla città e di un'idea di società faccia precipitare la disciplina verso qualcosa che - senza troppi scrupoli etici - 'si pone nell'area ambigua ma molto remunerativa della debolezza della politica amministrativa e della poca lungimiranza della finanza speculativa' (p. 42), assecondando il vincitore di un corpo a corpo tra forze che, almeno in Italia, rispettivamente non riescono e non vogliono agire nell'interesse della collettività.
Possiamo anche condividere - almeno in parte - la condanna per certe pratiche o slogan che si traducono in azioni progettuali ambigue dal punto di vista della legittimazione democratica. La Cecla, per esempio, ci ricorda gli irrisolti equivoci della partecipazione, quel 'vastissimo campo del filtro sociale tra utenti sempre meno abituati a far valere direttamente i propri diritti e pianificatori che - scrive - non vogliono direttamente essere implicati' (p. 79). Un modo di progettare e governare le trasformazioni urbane talvolta fintamente aperto agli stimoli della società civile che finisce in diversi casi con l'appiattire, fino ad annullarle, le competenze degli urbanisti ridotti a 'facilitatori del consenso' (p. 79) senza dare ai cittadini vere opportunità di orientamento dei destini del proprio territorio. Col triste risultato - afferma La Cecla - che 'l'urbanistica continua con i suoi metodi e le sue rappresentazioni e gli abitanti continuano a […] non avere alcun vero accesso al linguaggio dei progetti' (p. 79), ma diremmo di più, ai progetti stessi, specie quelli dove sono in gioco rilevanti investimenti. Per non parlare degli innumerevoli slogan a cui certi profeti dell'urbanistica ricorrono per sbandierare soluzioni semplici - in realtà solo penosamente semplicistiche - a problemi urbanistici complessi e al contempo nascondere sotto al tappeto un'evidente 'povertà epistemologica' e progettuale, nonché 'la poca efficacia [di certe politiche] nel contrastare i processi del settore immobiliare' di natura speculativa (p. 91). È il caso, per esempio, di quelle per le cosiddette creative cities che da fattore di rigenerazione urbana si sono talvolta trasformate - ci ricorda La Cecla - in elemento moltiplicatore dei 'prezzi della città, [tanto da determinare, in diversi casi, l'espulsione da quelle stesse aree che si sarebbe voluto rilanciare all'insegna della creatività proprio dei cosiddetti creativi] artisti, scrittori e [persino delle] famiglie normali' (p. 93). È il caso della open source architecture che non tiene conto di quanto oggi la rete sia in realtà 'una simulazione sempre più riduttiva della piazza' (p. 95) e, più in generale, della democrazia. Oppure è il caso delle smart cities - secondo l'autore, 'nuova scienza della gestione del funzionamento urbano' sostenuta da 'una categoria professionale che vuole fare piazza pulita dei vecchi urbanisti' (p. 96) - che, in parole povere, 'sarebbero città informatizzate e tecnologiche in cui tutti i problemi vengono risolti da macchine intelligenti' (p. 95). Questo approccio - è vero - tende a sminuire a priori ogni riflessione sulla forma urbana o sulla distribuzione delle funzioni - ovvero sulle cose di cui comunemente l'urbanistica si occupa o dovrebbe occuparsi - alimentando l'illusione che molte delle sofferenze della città contemporanea - per esempio il traffico o la sicurezza - possano essere alleviate o persino completamente sanate dalla tecnologia. Insomma - osserva l'autore - 'l'insieme di questi slogan e di questi sforzi ignora o mistifica la problematica vera della vita di una città, quel gioco tra pubblico e privato che oggi si fa sempre più scorretto' (p. 97).
Possiamo infine essere d'accordo con La Cecla sull'imprescindibilità di alcuni temi per qualsiasi piano, progetto o politica per le città e il territorio del XXI secolo. Ci riferiamo, per dirne una, alla questione ambientale e, in particolare, alla necessità di contrastare in tutti i modi la 'tendenza suicida dell'umanità' (p. 67) a edificare irrazionalmente e senza tregua pur sapendo 'che la situazione del pianeta è a rischio proprio per il peso dell'urbanizzazione su di esso' (p. 68). In generale - salvo casi che dimostrano che andare in un'altra direzione sarebbe possibile - 'da questo punto di vista l'urbanistica è drammaticamente superata e in ritardo - afferma l'autore - [e] non si può più fare urbanistica se non attraverso fortissimi provvedimenti che limitino la natura catastrofica delle città' (p. 69) e quella di territori martoriati da un'inutile edificazione dispersa e disordinata dal punto di vista funzionale. 'Chi si è occupato in Italia di città diffusa - ma forse sarebbe stato più corretto scrivere: 'Chi ha celebrato in Italia la città diffusa…' - ha dimenticato di condannare questo modello folle di uso del territorio'. Secondo La Cecla, 'sarebbero bastati giudizi e leggi più severe e ci saremmo risparmiati la devastazione a cui assistiamo' (pp. 71-72). Giudizi che in realtà ci sono stati - peccato che l'autore non li riconosca - ma che faticano, come ogni presa di posizione che lede interessi consolidati e prassi radicate, a incidere sulla realtà e a tradursi in norma legislativa.
Dunque, non c'è dubbio che l'urbanistica negli ultimi cinquanta/settant'anni abbia dato prova di molti suoi limiti. Se ci soffermiamo brevemente a riflettere su molte parti della città e del territorio moderni e contemporanei - nei paesi occidentali, ma anche in quelli dove più virulenti sono i processi di trasformazione e ampliamento - ci rendiamo tutti ben conto della povertà e dell'inadeguatezza di certe forme dello spazio pubblico (per esempio, nel favorire le relazioni sociali e un abitare urbano che vada oltre le quattro mura domestiche); comprendiamo bene l'inumanità di molta architettura e la sua indisponibilità a qualsiasi tipo di relazione (con i luoghi, le altre architetture, le persone); maturiamo altresì facilmente la consapevolezza di quanto siano insensati e dissennati certi modi di edificare il territorio (magari là dove è più fertile, più sensibile dal punto di vista naturalistico o semplicemente più bello), di quale violenza sia capace l'uomo sull'ambiente e, per questa ragione, con quale rabbiosa reazione questo stia reagendo: giustamente, ci verrebbe da dire se non fosse per il rispetto che dobbiamo alle vittime dei disastri ambientali. Ci rendiamo anche conto dell'ingiustizia di certe situazioni abitative, di certe strutture urbane, di certi confini visibili o invisibili che sono la negazione del senso ultimo della città che è - e dovrebbe continuare ad essere - prima di tutto convivenza civile. Comprendiamo infine quanto - soprattutto dagli anni Sessanta e poi ancora, con un'incredibile aggressività, dagli Ottanta del secolo scorso - abbiamo costruito inutilmente e malamente: producendo alloggi che paradossalmente rimangono inutilizzati e non alleviano la fame di case delle fasce sociali più deboli (giovani, anziani, single, immigrati); costruendo strade, superstrade, seconde, terze e quarte corsie che non riducono mai il traffico dentro e fuori le grandi città ma che in compenso fanno schizzare verso l'alto i tassi di inquinamento dell'aria; edificando inutili palazzi per uffici e schiere di capannoni (commerciali, artigianali, industriali) avvolti da grandi parcheggi con l'asfalto bucato dalle erbacce.
D'accordo, è tutto vero. E si potrebbe continuare. Ma dal constatare una situazione, dal prenderne atto o perfino dal denunciare ciò che proprio non va - come fa acutamente La Cecla praticando i luoghi, registrandone atmosfere, colori, suoni, odori, ascoltando le persone che quei luoghi abitano o frequentano, osservandone le abitudini - a trovare un unico capro espiatorio a tutto ciò, ce ne corre (e anche parecchio).
L'autore sembra fare di ogni erba un fascio. Non distingue quali sono le effettive responsabilità della pianificazione da quelle di chi ha governato e governa il territorio, per esempio quelle della pubblica amministrazione locale o territoriale e quelle della proprietà immobiliare (concentrata in poche mani o diffusa che sia): così facendo attribuisce agli urbanisti ruoli e oneri che, almeno in Italia, forse non hanno mai avuto. Si pensi, per fare un solo esempio tra molti, al caso di Milano e al peso che hanno avuto e stanno avendo gli investitori e i proprietari delle grandi aree di trasformazione urbana (caserme, scali ferroviari, City Life, Porta Nuova, Expo) nel determinarne il destino urbanistico.
Trascura di fatto - pur citando alcuni protagonisti - molta parte di quell'universo di pensatori, urbanisti o semplici osservatori dei fenomeni urbani che fin dal secondo dopoguerra ha criticato certe derive della pianificazione contribuendo, in diversi casi, alla nascita di teorie, piani o politiche che hanno molti punti di tangenza con quanto lui stesso auspica.
Non considera la giungla di leggi che, in Italia come altrove, regola le trasformazioni urbane e territoriali: dimentica cioè i limiti (stabiliti dalla politica e dunque dall'intera società) entro cui ogni piano deve e può muoversi. Qualsiasi forma di pianificazione spaziale pubblica non è oggi l'estemporanea espressione della cultura o della sensibilità di uno o più urbanisti, ma è da un lato condizionata dal legittimo indirizzo impresso dai rappresentanti dei cittadini nella pubblica amministrazione, dall'altro si inquadra in una maglia di leggi e regolamenti tale per cui il piano che ne scaturisce è per molti versi prefigurato o comunque condizionato, inquadrato in una cornice di regole che dovrebbe essere a garanzia della collettività. Diciamo dovrebbe perché sappiamo bene che la destrutturazione di parti significative della legislazione urbanistica del secondo dopoguerra in Italia ha portato in realtà a situazioni deprecabili dal punto di vista della tutela degli interessi collettivi e dei beni comuni.
La Cecla ignora anche la natura stessa della disciplina, geneticamente disponibile a essere fecondata da altre scienze: come l'antropologia, di cui l'autore sottolinea i benefici effetti taumaturgici che avrebbe sulla pianificazione e, di conseguenza, sulla città, il territorio, la società.
Ma soprattutto finge di dimenticare che in realtà le trasformazioni urbane e territoriali sono, soprattutto in questi ultimi decenni, ampiamente determinate da ragioni e forze economico-finanziare indifferenti a qualsiasi ragionevole scelta pianificatoria. A qualsiasi proposito politico-amministrativo. A qualsiasi esigenza sociale. Forze che rispondono prevalentemente a propri interessi di natura economica spesso in totale spregio di quelli generali. Forze rispetto alle quali l'urbanistica è stata uno dei pochi argini.
Da questo punto di vista, immaginare che questa 'desueta e inutile disciplina - testuali parole - [debba essere] radicalmente rasa al suolo per essere rimessa in sesto' (pp. 13-14) appare quasi assurdo. A parte la rozzezza dell'espressione, vien da chiedersi se davvero un insieme di saperi così vasto e articolato quale è quello di qualsiasi disciplina moderna, per quanto sgangherato e fallimentare sia, possa essere 'raso al suolo'. Non riusciamo neppure a immaginare che cosa potrebbe significare la stessa espressione applicata alla medicina, all'economia o alla fisica. Ogni scienza nel suo evolversi compie, com'è naturale che sia, errori anche gravi. Ma è proprio riconoscendo questi errori e contestualizzandoli che può avvenire un cambiamento di rotta, un aggiustamento tale da condurre ad avanzamenti migliorativi o almeno percepiti come tali in quel particolare momento storico. La stessa urbanistica moderna ha avuto nel Novecento, al suo interno, i suoi profeti della tabula rasa, chi ha negato in toto la cultura del progetto urbano che veniva dai secoli precedenti, chi ha demonizzato saperi diffusi insiti nelle forme della città e, di generazione in generazione, nei sentimenti dei cittadini, con risultati che oggi consideriamo pessimi o almeno poco convincenti da diverse prospettive. Rinunciare all'urbanistica - alle sue regole, ai suoi piani, alla cultura di cui è frutto e a quella che esprime o potrebbe esprimere - non farebbe che alimentare quella che lo stesso La Cecla considera l'illusione 'della natura autoregolante del neoliberismo, del capitalismo dei consumi e dell'immobiliare' (p. 67). Significherebbe abbandonare la città e il territorio a loro stessi in balia del più forte economicamente e politicamente, con grave pregiudizio di quell'idea di cittadinanza - forse obsoleta e tuttavia così necessaria - che vorrebbe uguaglianza e pari opportunità per tutti i cittadini.
Insomma, nel libro di La Cecla sembriamo scorgere una certa ansia giustizialista che è funzionale nel far cogliere errori e storture del nostro modo - nostro in senso sociale, non disciplinare - di costruire, trasformare e praticare l'ambiente in cui viviamo, ma che appare inadatta - perché poco circostanziata - a dimostrare la necessità di pratiche di progetto e governo del territorio che sperimentino approcci più attenti ai contesti fisici e sociali, più equi, assai meno impattanti dal punto di vista ambientale.
Non si tratta, intendiamoci, di una difesa d'ufficio di una disciplina e della sua storia che - lo abbiamo detto e lo ripetiamo - ha dimostrato carenze e fragilità che La Cecla evidenzia benissimo, seppur con letture a tratti oltre misura riduttive e talvolta perfino sorprendenti. Come quando - per inciso - afferma che 'le periferie sono il pensiero sbagliato di un'urbanistica che ha mitizzato la condizione operaia e le ha negato però il centro delle città' (p. 72) o quando sostiene che è con il Movimento moderno 'che l'urbanistica perde l'attenzione per i fatti umani, per l'esperienza vissuta' (pp. 38-39). Si tratta al contrario di riconoscere onestamente quali di questi limiti siano attribuibili a questa disciplina e quali no. Solo così, separando il grano dal loglio, ammettendo da un lato la necessità di strumenti e pratiche tali da consentire a una società civile e responsabile di determinare consapevolmente il futuro del territorio (senza che ciò vada a scapito dei singoli, delle future generazioni, delle altre comunità e del mondo vegetale e animale), dall'altro che le regole, anche quelle urbanistiche, sono una condizione essenziale della vita delle comunità, allora forse scopriremo che dovremmo essere 'pro' (e non 'contro') l'Urbanistica.
Renzo Riboldazzi
Renzo Riboldazzi (Novara, 1966) insegna Cultura del Progetto urbano alla Scuola di Architettura Urbanistica e Ingegneria delle Costruzioni del Politecnico di Milano.
Sul libro di Franco La Cecla, leggi anche il commento critico di Francesco Indovina, pubblicato in questa rubrica il 20 ottobre scorso con il titolo Si può essere 'contro' l'urbanistica? , e quello di Salvatore Settis, intitolato Cieca invettiva o manifesto per una nuova urbanistica? del 17 novembre.
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