Lodovico Meneghetti  
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DISCORSI DI PIAZZA E DI BELLEZZA


A partire dal libro di M. Romano e dal commento di A. Villani



Lodovico Meneghetti


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Il libro di Marco Romano, La piazza europea (Marsilio, 2015), ha mosso un importante commento di Andrea Villani sul tema dell'arte e della bellezza urbana: chi decide se e dove ci sia? Esiste o no un qualche appiglio condiviso per giudicare? Oggettività o soggettività-sensibilità individuale e di gruppo culturale?… Questi i quesiti del lungo e assai argomentato articolo che, insieme al testo di Romano, mi ha convinto a illustrare per "Città Bene Comune" la mia posizione attuale che, in futuro, potrebbe evolversi riguardo al problema del progetto. 

 

Discussione sulla definizione di bellezza 

Quasi sempre la discussione ricorre quando qualcuno vuol costruire accanto a un'architettura del passato  connotata da caratteri universalmente ritenuti degni di conservazione. Uno degli ultimi casi risuonanti fino all'assordamento è stato l'ampliamento dell'hotel Santa Chiara a Venezia (ormai finito e rifinito). Anzi è un intero edificio nuovo appiccicato al vecchio che ha generato dispute senza capo né coda. Ognuno diceva la sua senza ritegno. L'equivoco perdura. Non sembrava nemmeno scontata la negazione della soluzione mimetica - fare architettura "in stile" (benché, visti certi esempi di arrogante disinteresse, succeda  talvolta di rimpiangere le intelligenti contraffazioni…). Il linguaggio non può che rappresentare il nostro tempo. Ma non possiamo fissare le parole "giuste". A questa stregua s'impone la ragione della sensibilità, una sensibilità acquisita attraverso l'esercizio, il movimento di tutti i sensi che approda a identificare i due campi estremi della realtà formale, quello della bellezza e quello della bruttezza, inframmezzati dal terreno accidentato dell'ambiguità e dell'inganno, o dell'illusione. La completezza e ricchezza delle sensazioni significano alta preparazione a impiegare un superiore linguaggio contemporaneo dell'arte, dell'architettura, della musica e così via, tanto da permettere a chi lo possiede di avvicinarsi umilmente e benevolmente al "glorioso retaggio". Allora la scelta si configura liberamente nel rifiuto inoppugnabile dell'insulsaggine di "è una questione di gusti". Come possiamo spiegare tale sensibilità? Non possiamo: essa è un'attribuzione spontanea, intrinseca, sottratta a pressioni dall'esterno; imposta dalla dotazione sensoriale personale sorretta dalla conoscenza indipendente, cioè libera da schemi del tipo - come (discutibilmente) nella lingua - "vince l'uso, vince la consuetudine". Ancora una volta dichiaro di detestare lo slogan "è bello ciò che piace", peggiorato magari dalla battuta senza senso "non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace".

È verissima falsità (ossimoro dovuto) che il buon senso sia dote sicura della gente, dell'"uomo della strada" insieme alla capacità, per questo, di distinguere l'utile dal dannoso e il bello dal brutto. La distruzione della bellezza e coerenza del territorio italiano è avvenuta con la silenziosa acquiescenza, spesso l'irosa spinta delle popolazioni di città, di coste marine, fluviali e lacustri, di monti e colline. Ce ne offre un'interpretazione o, meglio, una triste ragione James Hillman, psicoterapeuta sostenitore dell'associazione fra psicologia ed ecologia. Mi sento così aderente alla sua filosofia che l'ho chiamato a testimoniare in diverse occasioni. "Il Grande Represso, il tabù di oggi è la bellezza […]. Oggi siamo inconsci della bellezza. Siamo antiestetici, anestetizzati, psichicamente ottusi". Vince la bruttezza titanica, la vera nemica che "ha odore, ha sapore, colpisce gli occhi, le membrane, i globi ovulari, le dita" (Politica della bellezza, Moretti & Vitali, Bergamo 1999, p. 67). Non resta che la rabbia, ai pochi disponibili a mobilitarsi davanti alla distruzione del paesaggio e dei luoghi storici. Essa, per Hillman, è uno degli echi del mondo che danno al nostro corpo e al nostro spirito informazioni su come essere, su cosa accettare e cosa detestare. Insomma, la capacità di distinguere, come l'orafo, l'oro vero dal falso attraverso le sei prove a cui lo sottopone.

 

Non fu da sola la bellezza delle piazze italiane 

La domanda preliminare che mi pongo è: quando e fino a quando vige nella sua costituzione materiale e sociale uno spazio denominato "piazza"? La parola è antica. In greco πλ?τεια sostantivale da πλατ?ς  "largo, ampio, vasto". L'agorà era assai ampia. Secondo Camillo Sitte (1889) nel Medioevo e nel Rinascimento le piazze urbane avevano una fervida e pratica utilizzazione per lo svolgimento della vita pubblica, e presentavano una stretta concordanza con gli edifici circostanti. Mentre oggi - scriveva - servono tutt'al più come posteggi di veicoli e perdono sovente ogni collegamento artistico coi fabbricati.

A mio parere il momento della fine dovrebbe retrocedere nel tempo. La piazza italiana vivente una straordinaria completezza d'architettura e di socialità culmina nel Medioevo e muore alla fine del Trecento o al principio del Quattrocento, salvo rari sprazzi di vitalità nei secoli successivi: nelle parti popolari della città, ma si tratterà di strada piuttosto che di piazza, e non esisterà affatto il senso di πλατ?ς. Oppure sarà una città eccezionale, Venezia, che esibirà i suoi campi e campielli. 

Poteva essere uno slargo, come una lacerazione del tessuto di stradette e case fittissimo, un chiarore desiderato e trovato dalla comunità. Per esempio, a Gubbio, non il magnifico alto terrazzamento prospiciente il Palazzo dei Consoli, ma, appena lì sotto, la piazzetta della Chiesa di San Giovanni Battista. Oppure, come il Campo di Siena o la Piazza del Popolo a Todi, era spazio appunto vasto, conchiuso dalle cortine edilizie, in ogni caso fortemente progettato: perlomeno nel significato di un concerto della popolazione per una comune scelta, diremmo ora "urbanistica". Uno spazio altamente organizzato e certamente identificato dalle singole persone, dai gruppi sociali, dall'insieme della cittadinanza quale luogo riassuntivo della città intera, quasi fosse esso la città intera.

Il fondamento della piazza posava su determinati contenuti sociali. È infatti per la mancanza di questi che oggi non la possediamo, anche laddove esiste uno spazio congruo, persino antico, persistito uguale. In primo luogo il recinto di case, talora interrotto solo dalla Chiesa o dal Palazzo Comunale, era intensamente abitato: vi risiedevano numerose persone che vi entravano e ne uscivano da e verso lo spazio comunitario. Le finestre "abitate" erano occhiuta costante presenza. Al livello del lastricato si aprivano miriadi di attività, magari collegate con gli alloggi superiori, artigianato, commerci, trasporti, e ancora stanze per persone... o per animali. C'era andirivieni, incrocio, incontro, conoscenza: gente di lì e gente di altri quartieri contrade sestieri. Si facevano affari, contratti chiacchiere. Non sto mitizzando, penso a cosa abbiamo perduto: la possibilità di praticare rapporti sociali in uno spazio pubblico riconosciuto, appagante e affabile perché intimamente tuo, percepito da tutta la comunità come massima espressione di ricchezza funzionale e infine di bellezza

Del resto si dispiegavano quei rapporti non tanto perché esisteva la piazza quanto perché di essi abbisognava una specifica formazione economico-sociale che nel contempo li determinava, non poteva farne a meno. La piazza (discorso simile varrebbe per la strada storica), benché non loro causa diretta, diventava però spazio urbano e architettonico, socioeconomico ed estetico che li favoriva, ne assicurava il sostegno e lo scenario. Inoltre spazio simbolico, direbbe Marc Augé. In definitiva la comunità, come non poteva rinunciare a quei rapporti, non poteva rinunciare a quel coerente contesto fisico. Oggi non possiamo o non sappiamo praticare rapporti sociali umanizzati e umanizzanti perché la società è costituita in un modo che non solo non li favorisce ma li rifiuta o li umilia se nascenti. Spazio necessario quello di allora, fortemente voluto dalla comunità perché sentiva che gli avrebbe aumentato le occasioni di espandere se stessa, non solo sul piano economico. 

Nell'immaginabile itinerario attraverso le piazze italiane quale potrebbe rappresentare il punto di snodo, anzi di frattura? Emerge un luogo emblematico, la Piazza Pio II Piccolomini di Pienza (potrei considerarla oppostamente alla Piazza del Mercato di Lucca, altrimenti emblematica). Uno spazio urbanistico-architettonico di grande bellezza, dimostrativo del contrario rispetto alla vera piazza, il modello medievale che ho descritto. Il popolo abitante è sparito. Mancavano quei contenuti, quel modo di esistere sociale funzionale estetico del recinto e della πλ?τεια. Palazzo Comunale, Palazzo Vescovile, Cattedrale, Palazzo Piccolomini: Bernardo Rossellino colloca oggetti architettonici nello spazio, li giustappone con raffinata sapienza, li fa dialogare senza troppa familiarità nel loro consistere di massa-volume e composizione architettonica; istituisce un luogo insigne dei poteri che sembrano trarre forza e accentuare superiorità proprio dall'armonia numerica di rapporti calcolati sul filo d'equilibrio fra reale e irreale. (L'ispirazione dello spazio metafisico di Giorgio De Chirico retrocede nella storia fin qui?).  È la piazza in cui non si abitava, si andava per funzioni religiose o civili, per necessità di richieste e di suppliche ai poteri, forse preoccupati e intimiditi...

Ancor oggi si va in piazza forse disperatamente. A Milano Piazza del Duomo è non-piazza per eccellenza. Singole persone e piccoli gruppi vi si ammassano, nei fine settimana è una folla. Provengono dalle periferie, dal circondario, dalle città prossime (non parlo dei turisti, di giapponesi e quanti altri?). Nessuno abita il sito. Tutti sono estranei, tutto lo spazio e tutti gli edifici sono stranieri. Nemmeno i capannelli di immigrati riescono a  portare un segno nuovo, anzi antico. Restano seduti sui gradini del sagrato, qualche parola dentro il gruppo, forestieri, come tutti gli altri. Dal punto di vista adottato in questo commento tutte le piazze esistenti sarebbero spazio perduto e non più ritrovato. Anche la veneziana Piazza San Marco è non-piazza per eccellenza, proprio come la milanese; anzi, l'appartenenza e la frequentazione sono ancor meno riferibili a un qualche residuo di sentimento personale e collettivo della città. "Abitata", posseduta da cittadini comuni, non i potenti procuratori e i loro subordinati, non lo è stata mai. Figurarsi ora che la città antica sta proseguendo verso un completo deserto umano… Mi domando: tuttavia la grande differenza di architettura urbana, o semplicemente la bellezza architettonica di Piazza San Marco e la mediocrità di Piazza del Duomo (la facciata della chiesa è muta, anzi il post-gotico ottocentesco, soprastante alla maniera cinquecentesca tebaldiana, emette suoni falsi, inoltre accompagnati dai versacci del fascistico Arengario) non ammetterebbero una possibilità? Ossia, l'architettura urbana delimitante gli spazi pubblici potrebbe trovare oggi una peculiare capacità di influenzare le occasioni di concordanza sociale, di pensamento collettivo in un contesto di ripopolamento? O è vero che ormai le persone devono rassegnarsi a praticare come piazza deprivata di antichi valori, falsità locale che separa invece di unire, gli spazi interni dell'ipermercato con il loro silente, indifferente e brutto contorno?

I centri commerciali, gli aeroporti, i grandi parcheggi e così via con i non-luoghi (Non-lieux in Marc Augé): non è nuova la loro raffigurazione come occasioni di socializzazione, luoghi d'oggi dove la gente s'incontra, dialoga, vive... la vita. È vero il contrario. Lì il cittadino si deve accontentare di recitare la propria parte, ultra-individualistica, nel gioco della compra. Manca tutto ciò che contraddistingueva la vita di relazione; soprattutto gli manca la condivisione con la comunità del desiderio e ritrovamento dello spazio comune. Lì forse vige la denaturazione psicologica e biologica dell'uomo della metropoli, come prevedeva Willy Hellpach nel 1935 (Mensch und Volk der Grosstadt - L'uomo della metropoli, Comunità, Milano 1960).

Eppure… eppure dovremmo egualmente (saper) progettare per, dapprima, recuperare e, poi, realizzare piazze e strade tradizionali, vale a dire spazi incentrati sulla ricostituzione all'aperto del senso di limite, cortina, chiostro, del sentimento di agorà. Ricordando che le piazze e le strade storiche maggiormente vitali furono quelle che insieme a funzioni commerciali, culturali, di servizio pubblico presentavano in larga misura abitazioni. Da tali spazi, se dotati delle destinazioni consolidate dall'uso storico, non per questo conseguiranno direttamente un rapporto comunitario e l'affabilità tra le persone, ma l'andirivieni e l'incontro obbligato in un contesto non solo funzionale ma estetico potranno aprire una falla nella loro solitudine e inserire un soffio di benestare nel cervello e nel cuore. È quello che può succedere quando si vive lo spazio ancora ricco di risorse di una delle sopravvissute magnifiche piazze o strade d'Italia e d'Europa.

L'edilizia autoritaria dei grattacieli dritti e storti, quella delle stecche lunghe e troppo alte o dei cubetti sparpagliati, l'urbanistica degli ingiusti quartieri "aperti" decisa dal disegno della rendita fondiaria: tutto questo ha contribuito a decretare la morte dello spazio-vita, complici i progettisti di turno, coerentemente - vien da dire - succubi. Allora, anche se il centro commerciale chiama irresistibilmente a sé, proviamo egualmente a riscoprire, benché svuotate dei contenuti comunitari, le strade di case, le piazze a recinto dimenticate, ossia gli ambienti vitali ereditati senza la vita. Assumiamoli come fondamento di una nuova speranza per la ricostituzione sociale ed estetica del moderno. Come cittadino darei un occhio perché l'urbanistica e l'architettura mi dessero in cambio di quei falsificatori tanti Campi di Siena e tante Piazze di Vigevano.

Lodovico Meneghetti

 

 

N.d.C. - Lodovico Meneghetti, già professore ordinario di Urbanistica, ha diretto il Dipartimento di Progettazione dell'architettura del Politecnico di Milano e contribuito a fondare l'Archivio Piero Bottoni. 

Tra i suoi libri: Architettura e paesaggio: memoria e pensieri (Unicopli, 2000); La partecipazione in urbanistica e architettura: scritti e interviste (Unicopli, 2003); Parole in rete (Clup, 2005); L'opinione contraria (Clup, 2006); Musica & architettura (Ogni uomo è tutti gli uomini, 2008); Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura (Maggioli, 2008); Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose (Maggioli, 2010);  con G. Consonni e G. Tonon (a cura di), Piero Bottoni: opera completa (Fabbri 1990).

Per Città Bene Comune ha scritto: Dov'è la bellezza di Milano? Le regole urbanistiche, un valore di civiltà (24 giugno 2015); Casa, lavoro, cittadinanza. Il nodo irrisolto dell'immigrazione nelle città italiane (16 dicembre 2015); Casa, lavoro, cittadinanza. Seconda parte (17 febbraio 2016); Città metropolitana, policentrismo, paesaggio. Tre imprescindibili aspetti di un nuovo piano (14 luglio 2016).

Oltre al commento di Andrea Villani a cui si fa riferimento nel testo - Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016) -, sul libro di Marco Romano (La piazza europea, Marsilio, 2015), v. anche: Paolo Colarossi, Fare piazze (10 marzo 2016) e Franco Mancuso, Identità e cittadinanza nelle piazze d'Europa(2 settembre 2016); 

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


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26 GENNAIO 2017

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di dibattito sulla città, il territorio e la cultura del progetto urbano e territoriale

a cura di Renzo Riboldazzi

con la collaborazione di Elena Bertani e Oriana Codispoti

 cittabenecomune@casadellacultura.it

 

 

Gli incontri 

2013: programma/present.

2014: programma/present.

2015: programma/present.

2016: programma/present.

 

 

Interventi, commenti, letture

2015: online/pubblicazione

2016: online/pubblicazione

2017:

P. C. Palermo, Non è solo questione di principi, ma di pratiche, commento a: G. Becattini, La coscienza dei luoghi (Donzelli, 2015).

G. Consonni, Museo e paesaggio: un'alleanza da rinsaldare, commento a: A. Emiliani, Il paesaggio italiano (Minerva, 2016)