Sara Marzullo  
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VIVERE E LAVORARE ALLA SHAKESPEARE & COMPANY


Al chilometro zero di Parigi



Sara Marzullo


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È in una sera di fine giugno che Julia mi invita a cenare con gli altri tumbleweed nell'appartamento che un tempo era stato di George Whitman. Da un po' a questa parte lo hanno messo a disposizione dello staff e dei ragazzi che dormono tra i libri, perché abbiano un posto dove cucinare; in questa stagione il tramonto arriva tardissimo e fuori dalla finestra Notre Dame è splendida come sono splendide le cose che non paiono mai vere.

Sotto il tavolo c'è Aggie, la gatta chiamata come Agatha Christie che un giorno è apparsa nella sezione dei gialli e che ha finito per essere adottata dalla libreria; se questa non fosse un'immagine davvero troppo stucchevole, direi che chiunque qui si sente come quel gatto: una volta che impari a muoverti in mezzo a quegli scaffali, andarsene diventa difficile.

George Whitman ha fondato la sua libreria al chilometro zero di Parigi: tutte le strade, come nei proverbi, partono e arrivano qui, in un palazzo di qualche piano, con le porte di legno pitturato di verde e le insegne con l'altro Whitman, quello delle foglie d'erba, e Shakespeare. Era il 1951 e questo posto si chiamava in un altro modo, Le Mistral. Solo nel 1964, nel quattrocentesimo anniversario dalla nascita del bardo inglese, Whitman avrebbe pagato tributo al poeta e alla libraia più famosa di Parigi, Sylvia Beach che con la sua Shakespeare and Company (situata poco distante da qui, in Rue de l'Odeon 12) aveva dato rifugio degli scrittori della lost generation.

Grazie a Sylvia, insomma, quella generazione era stata un po' meno perduta: Hemingway l'aveva inserita nel suo Festa mobile, Fitzgerald aveva passato qui i suoi giorni parigini e senza di lei Joyce non avrebbe pubblicato il suo Ulisse. Poi era arrivato il 1941 e la libreria si era arresa all'arrivo dell'occupazione nazista, ma la sua storia era lontana dall'essere conclusa.

Servono dieci anni e un sognatore: Parigi viene liberata nel 1945, Hemingway torna a sedersi al Ritz e gli americani ad affollare le strade del quartiere latino. Tra di loro c'è un ragazzo nato nel 1913 in New Jersey, che risponde al nome di George Whitman.

Dopo la laurea in giornalismo nel 1935, Whitman, negli anni della Grande Depressione,  decide di partire per l'America del Sud con pochi soldi e uno zaino. In tasca ha solo 40 dollari: vive di espedienti, dorme dove capita e, se può, si fa ospitare dalla gente del posto; in uno stato febbrile - un po' come accadde a Joseph Beuys - ha un'illuminazione: questa gentilezza, i gesti generosi e liberi, queste cose sono il senso della vita. Tornato negli Stati Uniti, lo scoppio della seconda guerra mondiale lo obbliga a partire per la Groenlandia: a fine missione, George saluta la sua fidanzata eschimese e ricomincia a viaggiare, stavolta per l'Europa. Nel 1946 è a Parigi.

Ha una sorella a New York: Mary studia alla Columbia e racconta al ragazzo che frequenta le avventure di George in Sud America; i due, pensa, si piacerebbero. Quel ragazzo è Lawrence Ferlinghetti e si dà il caso che stia per partire anche lui per Parigi, così Mary Whitman lo saluta e gli lascia l'indirizzo del fratello: Hotel de Suez, Boulevard Saint-Michel. La stanza è poco più che un loculo che George ha già provveduto a riempire di libri, vendendone ogni tanto qualcuno agli studenti americani in città; questo il fondale su cui i due instaurano un'amicizia indissolubile (Ferlinghetti fonderà poi la City Light Bookstore di San Francisco, la sorella oltreoceano della Shakespeare).

Finalmente nel 1951 George riesce a realizzare il suo sogno: comprarsi i locali di Rue de la Bucherie 37 e trasformarli in una precaria e ambiziosa libreria. Se per farlo è costretto a dormire su un divano ricavato da una finestra rotta, non è importante: questo posto, decide, sarà un'isola felice in cui sono in vigore le regole della condivisione e il comunitarismo. Questa, dice, è la mia utopia socialista mascherata da libreria. Qui le persone potranno essere accolte come lui era stato accolto nei suoi viaggi in Sud America: per adesso può cedere solo il divano, ma la sua mitologia è già in costruzione.

Quello che nel diciassettesimo secolo era un monastero, La Maison du Mustier, con Whitman torna alla sua antica funzione: "sono solo un frate che tiene accesa una luce di notte", diceva di se stesso. La sua missione è sempre stata quella di creare un posto dove le persone si sentissero accolte, leggessero qualche libro, condividessero con lui spazi, le parole, le idee. Lo scrive sopra una porta al primo piano: "Be not inhospitable to strangers lest they be angels in disguise".

George Whitman non ha scritto molto, ma il suo miglior libro è la Shakespeare and Company, ogni stanza un capitolo diverso, ogni cliente, amico, scrittore, un diverso personaggio. C'è qualcosa di impossibilmente romantico in un'affermazione del genere, nella pretesa di un negozio di libri di essere un'utopia socialista (un ruolo non senza conseguenze durante gli anni della guerra fredda), un posto per scrittori, innamorati, studenti che non possono permettersi di comprare libri e allora si riparano dal freddo e dal mondo nella biblioteca del primo piano, eppure è così, la Shakespeare and Company di Parigi è esattamente quella luce nella notte che George Whitman si preoccupava di tenere accesa, è casa per chiunque si sia fermato per un po' nelle sue stanze. Prendete il gatto, Aggie, per esempio. E prendete i venti, trentamila ragazzi che vi hanno soggiornato: in cambio di un paio di ore di lavoro, con il compito di leggere un libro al giorno e di produrre una pagina di biografia prima di andarsene, studenti, scrittori ancora sconosciuti (Dave Eggers, Ethan Hawke, Ian Rankin, per nominarne solo tre, hanno soggiornato qui da ragazzi), idealisti e viaggiatori di ogni sorta hanno trovato un letto in cui riposare, in mezzo ai libri e alle storie.

Nessuna possibilità di prenotazione, bisognava (e bisogna) presentarsi lì e sperare di fare una buona impressione a George; una volta aveva permesso a un ragazzo di restare un paio di settimane solo perché aveva l'aspetto di uno scrittore: il ragazzo stava semplicemente cercando un libro sugli scaffali, ma rifiutare un'offerta di Whitman non è mai stata cosa facile. Oggi è Sylvia Beach Whitman, la figlia di George, a continuare la missione del padre: quasi ogni giorno c'è qualcuno che chiede di essere ospitato e raramente i letti della biblioteca al primo piano restano vuoti.

In sessantacinque anni l'archivio dei tumbleweed - chiamati così, perché volano nel vento, come i semi delle erbe spontanee - è cresciuto a dismisura, le biografie si sono sommate, i ragazzi che un tempo abitavano queste stanze sono andati via, hanno messo le radici altrove oppure sono tornati a lavorare qui, hanno portato i figli, i nuovi fidanzati. Almeno uno di loro si è innamorato in mezzo a queste stanze: Nathan e Karolina si sono conosciuti quando lei lavorava qui e lui era un tumbleweed di San Francisco; oggi sono sposati e il libro di poesie di Nathan, Joy of the Capital, è stato presentato al piano terra di Rue de la Bucherie. Ma centinaia di altre storie restano intrappolate tra queste pareti, in attesa di essere raccontate: A History of the Rag and Bone Shop of the Heart, la prima biografia della libreria prova a farlo.

Il volume, curato dalla stessa Shakespeare and Company, è appena stato pubblicato: una ricollezione di lettere di George Whitman, biografie di tumbleweed e una selezione di fotografie private che, decennio dopo decennio, raccontano quanto radicale, romantico e politico possa essere il lavoro di librai (sull'argomento: Jorge Carrión ha scritto un bel saggio, Librerie, pubblicato lo scorso anno da Garzanti).

Come quando nel 1966 Whitman fu obbligato a chiudere l'esercizio, forse perché privo di licenze adeguate, forse perché temibile ritrovo comunista inviso alla CIA; il Don Chisciotte del quartiere latino continuò imperterrito a ospitare tumbleweed nel suo hotel particolarissimo, accettando di mandare alla prefettura i profili di ciascuno di loro: "ama la poesia e il rumore della pioggia", spiffera riguardo a una ragazza americana; alla fine, nel 1968, la prefettura si arrende e gli concede di riprendere a lavorare.

Aperto tutti i giorni, dal lunedì alla domenica, dalle 10 di mattina alle undici di sera, questa libreria non ha mai mancato un giorno di apertura, tranne per il funerale di George: da quando non c'è più è compito della figlia Sylvia a illuminare queste stanze, con la sua luce angelica e sensuale, una specie di sirena che richiama gli scrittori e fa innamorare tutti di sé.

Ho lavorato qua per tre mesi quest'estate e poi sono tornata da tumbleweed, perché certe cose bisogna farle bene, ovvero: sentimentalmente. Nei mesi ho conosciuto ragazzi che avevano lasciato il lavoro per viaggiare attraverso l'Europa, australiani che sapevano parlare indonesiano perché è l'unica altra lingua che gli avevano insegnato al liceo, un ragazzo di New Orleans che si pagava le spese scrivendo poesie su commissione, ragazzi che trascorrevano il gap year prima di iniziare il college, parigini che miglioravano il loro inglese durante le vacanze estive.

È vero che la composizione di gran parte delle persone che orbitano quotidianamente attorno a questa libreria è piuttosto omogenea: una nicchia di anglofoni iperistruiti, diciottenni che possono permettersi di passare qualche mese lontano da casa, parigini acquisiti con uno spiccato gusto per la letteratura di qualità, turisti che preferirebbero definirsi viaggiatori. Eppure a una seconda occhiata si capisce come questa sia una seconda casa per molti, frequentata da regulars non sempre amati, persone sole, studenti confusi e solitari innamorati: la Shakespeare and Company è un posto dove sentirsi meno isolati, più compresi, e, se non contiene il mondo, è disposta ad accogliere il mondo.

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03 FEBBRAIO 2017

 

 

 

 

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