Vanni Santoni  
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NUOVA STRANA EUROPA


Mondi inclassificabili e bizzarre metafisiche nella letteratura



Vanni Santoni


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Quando si passa da lettore a scrittore, molte cose nel nostro approccio alla lettura cambiano. Quando cominciai a scrivere seriamente, realizzai che la mia preparazione era piena di buchi, che questi buchi andavano tappati, ma anche che c'erano romanzi che sarebbero stati più utili di altri rispetto a quello che facevo o intendevo fare. A queste esigenze se ne aggiunse presto un'altra. Era necessario leggere anche i contemporanei, giacché se i classici ci danno le basi, non si può comunque fare a meno di provare a stimare quale forma potrà prendere in futuro il canone. La mia fascinazione si indirizzò così sulle opere che provavano a spostare il campo del romanzo, a segnare la via, a lanciare suggestioni per chi sarebbe venuto dopo.

I miei primi anni da lettore di contemporanea, essendo cresciuto con una dieta quasi esclusivamente medievale e ottocentesca, furono esaltanti: leggevo uno dietro l'altro romanzi come Pastorale americana di Roth, Meridiano di sangue di McCarthy, Beloved di Morrison, L'arcobaleno della gravità di Pynchon, Libra di DeLillo, Europe Central di Vollmann, Infinite Jest di Wallace, in uno stato di esaltazione crescente: il filone nordamericano sembrava infinito, e infinita sembrava la sua capacità di dettare legge. In realtà, dopo Wallace la sorgente andò ad assottigliarsi: c'è stato chi, come Franzen, ha alzato le mani in una resa (difficile non pensare che il suo ritorno al conservatorismo narrativo non sia stato un modo per evitare di confrontarsi con l'amico-nemesi DFW), ma anche quelli che hanno continuato a spingere, a conquistare nuovi territori - penso a Chabon, Díaz, Egan, Hemon, Lerner, Lethem… - lo hanno fatto da posizioni minoritarie, di consapevole debolezza. Ci eravamo, in effetti, già voltati tutti verso Roberto Bolaño. A causa sua, dei Detective selvaggi, di 2666, avevamo magari ripreso in mano pure Rayuela di Cortázar o i romanzi di Sabato e Onetti, ma poi? Letti anche i suoi libri minori, che fare, dove andare?

L'ultimo che sembrava avere la tecnica, l'esperienza, il genio, la preparazione e il respiro per ampliare il campo in modo significativo, W.G. Sebald, ce l'aveva portato via un incidente stradale proprio quando, con l'immenso Austerlitz, aveva mostrato di poterci guidare nel buio della letteratura ancora da farsi. Ma cosa avrebbe potuto scrivere ancora? Piango al pensiero, senza scherzi. Il romanzo, del resto, opera nel canone ma deve sempre sfondare verso  nuove direzioni, anche perché, parafrasando (e prendendo con le dovute molle) Weiwei, ''la tradizione è un readymade''. A volte, a fare tale passo, è riuscito qualcuno che non aveva la tecnica dei giganti, ma varcare quel limite significa arrivare comunque a sedersi al loro tavolo: l'interesse di scrittori ''alti'' come Carrère o Houllebecq per autori di genere un tempo considerati di serie B o C come Dick e Lovecraft è una delle tante testimonianze in tal senso.

Dalla Francia, accanto a simili testimonianze, arrivava ancora qualche sparso capolavoro, come Le particelle elementari dello stesso Houllebecq, quasi-capolavori che flirtavano con Pynchon come Le benevole di Littell, e grandi libri che erano promesse di possibili futuri capolavori come Zona di Énard, ma non parevano giungere nuove - chiamiamole così - indicazioni, almeno fino a oggi. Il libro a cui voglio arrivare è infatti Terminus Radioso di Antoine Volodine, appena pubblicato dalla casa editrice indipendente romana 66thand2nd, che non sarà forse un capolavoro assoluto (questo lo dirà il tempo), ma è certamente un libro importante, che sfonda con efficacia il muro tra ''genere'' e ''non genere'', e che di indicazioni, di tentativi di mappare territori nuovi, è pieno.

Prima di arrivarci, però, è opportuno spostarsi un po' più a est - anche più a est di Sebald. Negli ultimi anni, la ricerca di questo ''oltre'' narrativo mi aveva portato a identificare, come polo di innovazione ormai superiore a una narrativa nordamericana accartocciata su se stessa, l'area balcanico-slava. Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov, bulgaro, non aveva ambizioni massimaliste, ma mostrava una piena digestione dell'intera lezione modernista e postmodernista, e la capacità di metterla al servizio di una narrazione comunque fruibile (giacché di pari passo col problema di mappare nuovi territori vi è la questione del non diventare, per questo, illeggibili: di non finire allo ''sperimentare per sperimentare''); La giornata di un opriinik di Vladimir Sorokin, russo, riusciva a piegare le suggestioni di genere e le necessità della satira a un romanzo che risultava comunque letteratura ''alta''; Lázló Krasznahorkai, scoperto tardi (il suo capolavoro Satantango è rimasto inedito in Italia per tre decenni: arriverà in ottobre in libreria per Bompiani), continuava dall'Ungheria a portare novità e vigore; e anche il più interessante tra gli scrittori della nuova generazione americana, l'Alexandar Hemon del Progetto Lazarus, era in fin dei conti un bosniaco arrivato in America già adulto…

Tutti segnali importanti, che sono culminati nella scoperta della trilogia Abbacinante di Mircea Cartarescu, rumeno, e come Krasznahorkai più volte sfiorato dal Nobel. Ora, al di là del gusto e delle affinità personali, ciò che conta ed è veramente importante della trilogia (ma forse ''romanzo in tre volumi'' sarebbe più adatto) di Cartarescu è la sua capacità di spostare il campo d'azione della letteratura, attraverso un uso estremo, forse addirittura spregiudicato, della visione.

La visione, e non il sogno: è importante rimarcare come quelle di Abbacinante, che pure a volte usa anche suggestioni oniriche, siano visioni, caratterizzate come sono da una natura continuativa, mutante, ricorsiva, frattale, policrona (o atemporale), raggiante, costantemente tracimante nel campo delle categorie dello spirito. Visione, peraltro, non ridotta a evenienza possibile, come già tante volte era avvenuto in letteratura, ma elevata a asse e struttura del romanzo, a dispositivo tramite il quale digerire nuovamente, e ibridare, mitologia e autofiction, memoria e fantasia, storia (e sua satira), piani temporali alternativi, letture del mondo frutto di nuove discipline quali genetica, cosmologia, fisica quantistica.

Curiosamente, mentre stavo ancora assillando il prossimo con Cartarescu, mi capita tra le mani questo Terminus radioso di Antoine Volodine, scrittore sì francese ma di origini russe, già insegnante di russo, e che si è infine scelto, e per niente a caso, uno pseudonimo russo (Volodine, che ha studiato e insegnato anche portoghese, utilizza come Pessoa vari eteronimi: Elli Kronauer, Manuela Draeger, Lutz Bassmann, autori che a volte troviamo citati all'interno delle sue opere, come appartenenti alla corrente letteraria finzionale, ma di fatto fattasi reale per l'esistenza di Volodine stesso, del ''post-esotismo''). Lo avevo già incontrato. Avevo letto Undici sogni neri, firmato dall'eteronima Draeger e pubblicato in Italia nel 2013 da Clichy, e poi, in seguito alle parole entusiaste di un autore della mia collana, mi ero procurato anche Angeli minori, pubblicato non molto tempo fa dall'Orma. Entrambi mi erano piaciuti, ma non mi avevano fatto l'effetto di Terminus radioso, che per potenza, precisione e sicurezza di sé e del proprio discorso, ha tutta l'aria di essere uno di quei romanzi che costituiscono il compimento di un percorso e di una poetica.

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18 FEBBRAIO 2017

 

 

 

 

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