Guido Borelli  
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LEFEBVRE E L'EQUIVOCO DELLA PARTECIPAZIONE


Note sulle recenti riedizioni dei libri di Henri Lefebvre



Guido Borelli


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Le recenti (e coraggiose) iniziative editoriali di Ombre corte e di Pgreco hanno riproposto tre libri scritti da Henri Lefebvre sui temi dell'urbanizzazione e dello spazio, sottraendoli a un oblio che durava all'incirca quaranta anni. Nel 2014 Ombre corte ha riportato nelle librerie il "classico" Le droit à la ville, originariamente scritto da Lefebvre nel 1967 e pubblicato nel 1968, in contemporanea ai moti del maggio francese. Il libro fu tradotto in italiano nel 1970 dall'editore veneziano Marsilio. All'inizio del 2018 Ombre corte ha replicato, pubblicando la traduzione di Espace et politique (suivi de) Le droit à la ville, uscito in Francia nel 1972, tradotto e pubblicato in italiano nel 1976 dalla casa editrice Moizzi e noto sia in Francia, sia in Italia come: Le droit à la ville II / Il diritto alla città II. Ancora più temerariamente, a metà del 2018 l'editore Pgreco ha ripubblicato (in copia anastatica), l'opus magnum (più di quattrocento pagine) della produzione "spazialista" di Lefebvre: La production de l'éspace, uscita in Francia nel 1974 e tradotta nel 1978 in Italia in due volumi sempre dalla casa editrice Moizzi. Si tratta di opere - soprattutto nel caso de La produzione dello spazio - da molto tempo non più disponibili presso le case editrici e difficilmente reperibili.

La rinnovata attenzione che queste iniziative hanno suscitato nel nostro paese è una buona occasione per considerare brevemente - e specificamente in ambito italiano - alcune questioni riguardanti: (i) la conoscenza della vita e dell'opera di un autore la cui rilevanza scientifica e intellettuale è oggettivamente sottovalutata e spesso misconosciuta; (ii) la ricezione passata e presente (in Italia) del pensiero lefebvriano all'interno dei diversi ambiti in cui le sue tesi hanno iniziato a (ri)circolare; (iii) certi limiti ed eccessi nell'appropriazione recente delle argomentazioni lefebvriane. Ho privilegiato questo approccio che, rispetto all'aggiungere una ulteriore recensione alle ottime e numerose già disponibili sul web, intende mettere l'autore al centro della riflessione. Per questo motivo, i riferimenti che farò alla vita e all'opera di Lefebvre sono necessariamente limitati e funzionali ai tre punti su elencati.

 

1. Henri Lefebvre: L'œuvre de l'homme c'est lui-même

Nel suo libro sui Pirenei francesi (Lefebvre era nato nel 1901 a Hagetmau, nelle Landes), egli riporta un dialogo immaginario con Olivier, un interlocutore che gli pone alcuni quesiti. Alla domanda se lui si reputasse un filosofo, Lefebvre rispose: "non esattamente". Richiesto, allora, se si considerasse un sociologo, la risposta fu: "non più". Se Olivier gli avesse invece domandato se lui fosse un marxista, la risposta sarebbe sicuramente stata affermativa: "certamente: l'ultimo vero marxista!".

Lefebvre fu indubbiamente molte cose: conducente di taxi nella Parigi degli anni Venti, amico (polemico) dei surrealisti (fu André Breton che lo introdusse alla lettura dei testi di Marx) e simpatizzante con i dadaisti (in particolare con Tristan Tzara) negli anni seguenti la fine del primo conflitto mondiale; animatore della rivista Philosophies insieme a Friedmann, Morhange e Polizer alla fine degli anni Venti, professore di filosofia nei licei negli anni Trenta, partigiano nel Sud della Francia durante la resistenza all'occupazione nazista, direttore di programmi radiofonici a Radio Toulouse, mâitre de recherche al CNRS dalla fine degli anni Quaranta all'inizio dei Sessanta, compagno di bevute di Debord e dei situazionisti parigini negli anni Cinquanta-Sessanta, professore di sociologia alle Università di Strasburgo e di Nanterre, quest'ultima epicentro delle rivolte sessantottine. Lefebvre fu tutte queste cose, ma prima di tutto fu un marxista convinto. Il suo marxismo si fondava sugli scritti giovanili di Marx, di Hegel e di Lenin che, insieme all'amico di tutta una vita, il filosofo e traduttore Norbert Guterman, egli aveva tradotto dal tedesco al francese tra la fine degli anni Venti (Lefebvre si era iscritto al Partito Comunista Francese, PCF, nel 1928) e l'inizio della seconda guerra mondiale. Il marxismo di Lefebvre era molto lontano da quello dogmatico e strutturalista professato dal PCF e questa fu la principale ragione che rese costantemente problematici i suoi rapporti con il partito, sino alla sua fuoriuscita dal PCF ("da sinistra", tenne a precisare Lefebvre nella sua biografia intitolata La somme et le reste), avvenuta nel 1958. Per Lefebvre e Guterman, uno dei limiti più dannosi delle interpretazioni ortodosse marxiste consisteva nell'irriducibile economicismo attraverso il quale era rappresentato il pensiero di Marx. A differenza del grigiore staliniano che contagiava l'apparato comunista francese, il marxismo di Lefebvre era, gioioso, disalienante, emancipatorio e festivo.

I grandi interessi che hanno occupato Lefebvre nel corso dei novanta anni della sua prolifica vita (i primi scritti risalgono agli anni Venti, gli ultimi sono del 1990, un anno prima della sua morte), hanno ruotato intorno alla critica della vita quotidiana, di cui si è occupato per tutta la vita scrivendo sei libri (se si considerano come primo volume La coscience mystifiée, scritto nel 1936 insieme a Norbert Guteman e come ultimo, Éléments de rythmanalyse, scritto con la sua terza moglie, Catherine Régulier e pubblicato postumo nel 1992). La sociologia (rurale prima e urbana dopo) fu un altro dei suoi grandi interessi a partire dagli anni Cinquanta, prima come ricercatore al CNRS e poi chiamato (all'età di sessanta anni!) come mâitre de conference all'Università. Infine, dalla seconda metà degli anni Settanta si interessò alla costruzione di una teoria dello Stato. Perennemente assillato da problemi economici, Lefebvre scrisse negli anni Quaranta-Cinquanta libri su Descartes, Nietzsche, Rabelais, Musset e Diderot, diede alle stampe tre lavori teatrali brevi, un volume sulla pittura di Édouard Pignon, un romanzo intitolato Le mauvais temps (scritto sotto il nome di Henriette Valet, sua prima moglie) e un libro geografico-turistico sull'amata Germania (a cura dal fotografo Martin Hurlimann). Tra tutte queste cose, egli trovò il tempo di occuparsi anche di sessuologia, della Comune di Parigi del 1871 e della critica dell'urbanistica di Le Corbusier a Pessac.

L'eterogeneità di una simile produzione desta sconcerto, soprattutto se non si è disposti a riconoscere di trovarsi di fronte a un intellettuale trasgressivo, irrequieto e di difficile classificazione sulla base delle tradizionali categorie scientifico-disciplinari. Lefebvre fu innanzitutto un filosofo e, più precisamente, un filosofo marxista che, a un certo punto del proprio percorso di ricerca, approdò alla sociologia perché ne riconosceva in nuce le potenzialità per affrontare alcuni dilemmi della vita quotidiana nella modernità. Per Lefebvre la sociologia affermava la praxis come metodo per intervenire su questioni che la filosofia metteva in luce senza tuttavia offrire strumenti empirici di approccio concreto. Parafrasando la celebre undicesima tesi su Feuerbach di Marx: "I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo", Lefebvre affermava che: "occuparsi del quotidiano significa cambiarlo". Secondo Lefebvre, per cambiare il mondo moderno è necessario "non solo mantenere alcuni dei concetti essenziali di Marx, ma anche aggiungerne dei nuovi: il quotidiano, il tempo e lo spazio sociale, la tendenza verso un modo di produzione orientato dallo stato". Lo scopo ultimo di Lefebvre è fornire le basi per un processo di trasformazione sociale (che non esclude il rivoluzionario), rivolto al raggiungimento dell'uomo totale. Si tratta di un obiettivo politico che trascende la lotta di classe e di un concetto che pone nuove sfide all'esegesi marxiana. L'originalità e l'attualità di Lefebvre consistono proprio nel mettere in discussione il dogma marxista dello sfruttamento della forza lavoro, anteponendogli la reificazione del quotidiano che rende la vita mediocre, soffocante e banale. Per Lefebvre anche la migliore delle rivoluzioni produttive possibili non avrebbe mai potuto risolvere i problemi del quotidiano: l'unica rivoluzione per cui valeva la pena di impegnarsi sarebbe stata quella che avrebbe garantito le condizioni per la realizzazione permanente della soggettività. L'uomo totale lefebvriano è un individuo capace di riconciliare il pensiero e l'azione, la mente e il corpo, vivendo la propria esistenza come un'œuvre, come un fatto artistico che richiede un grande investimento di riconciliazione tra il corpo e la mente. "L'œuvre de l'homme, c'est lui-même", ripeteva spesso Lefebvre: esattamente il contrario di ciò che è il risultato un lavoro alienante, con i suoi produit frutto di gesti ripetitivi.

 

2. Lefebvre e l'Italia

Il destino italiano di Lefebvre è quantomeno curioso, soprattutto per quanto riguarda le sue opere. Nonostante lo stretto legame che lo legava al nostro paese (va detto qui di sfuggita che egli conosceva molto bene l'Italia - letteralmente adorava Venezia e la Toscana - e intratteneva proficue relazioni con numerosi intellettuali e politici italiani), è fuori discussione che dall'inizio degli anni Ottanta egli sia stato completamente dimenticato. I suoi libri sono scomparsi dagli scaffali delle librerie lasciando spazio prima alle opere del (da lui) detestato Althusser e, successivamente, alle star mondiali della cosiddetta French Theory: Foucault, Derrida, Baudrillard (che fu allievo di Lefebvre), Deleuze, Guattari, Lyotard, ecc. Anche nel firmamento della sociologia, Castells (anche lui inizialmente assistente di Lefebvre a Nanterre) ha certamente ricevuto un'attenzione ben superiore. In quegli anni, la casa editrice Dedalo, ultima rimasta sul fronte italiano degli editori lefebvriani, ritenne non più conveniente (e, forse, scientificamente non più rilevante) proporre la traduzione del terzo volume de La critique de la vie quotidienne (uscito in Francia nel 1981), dopo aver pubblicato il primo e il secondo tomo.

In Italia, gli scritti filosofici di Lefebvre sono stati quasi del tutto ignorati: pochissime sono le traduzioni o i saggi a questi dedicati. Come teorico marxista, invece, i suoi lavori più importanti - Il materialismo dialettico, La libertà marxista, La sociologia di Marx, Abbandonare Marx? e la traduzione del best seller Le Marxisme pubblicato a partire dal 1948 in numerose ristampe per le edizioni Que sais-je? - sono stati puntualmente tradotti in italiano. Tuttavia, nonostante Lefebvre conoscesse molto bene la situazione politica italiana (fu amico di Togliatti, con il quale si intratteneva spesso a pranzo nelle trattorie romane durante i suoi viaggi in Italia) e nonostante la sua dichiarata ammirazione per il marxismo italiano, secondo lui assai meno dogmatico e settario di quello francese, la sua produzione letteraria marxista ebbe scarso seguito in Italia, ampiamente surclassata dallo strutturalismo althusseriano, che a quei tempi - parlo degli anni Sessanta e Settanta - era de rigueur nei circoli filosofici del marxismo ortodosso italiano.

Una buona attenzione editoriale hanno riscosso anche i suoi scritti "spazialisti", tutti tradotti tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta con grande tempestività rispetto alle edizioni originali francesi: Il diritto alla città, La rivoluzione urbana, Il marxismo e la città, Spazio e politica (Il diritto alla città II), La produzione dello spazio. Controversa è, invece, la questione della ricezione italiana di questi scritti. Ilaria Agostini e Enzo Scandurra hanno recentemente scritto, nel loro libro intitolato Miserie e splendori dell'urbanistica, che "il libro Il diritto alla città divenne nel Sessantotto una specie di bibbia per gli urbanisti". Va tuttavia rilevato che, nonostante oggi si dia per scontato che le opere di Lefebvre abbiano esercitato - al tempo della loro uscita in lingua italiana - una profonda influenza su urbanisti, architetti, sociologi e politologi, le prove concrete per sostenere tale affermazione sono difficili da trovare. È certamente vero che l'Italia, insieme ai paesi di lingua spagnola, è stata tra i primi a tradurre Lefebvre, tuttavia, le citazioni alle sue opere che possiamo trovare nella letteratura scientifica di quel periodo nei settori dell'urbanistica, dell'architettura, della sociologia e della scienza politica sono davvero poca cosa. Sul versante della sociologia politica, l'operaismo italiano di Antonio Negri, Rainero Panzeri e Mario Tronti, riferimenti intellettuali dei gruppi dei Quaderni rossi e di Classe Operaia, si collocava molto distante dalle teorie spaziali di Lefebvre e dalla loro attenzione alla vita quotidiana piuttosto che ai processi di soggettivazione della classe operaia. I gruppi attivi tra gli anni Sessanta e Settanta nel campo del radical design - ho in mente Archizoom, Sturm, Superstudio, UFO e, in particolare il lavoro di Ettore Sottsass - sono imbevuti di cultura beat, hippie e orientaleggiante, di figurativismo pop e non hanno prestato particolare attenzione agli scritti di Lefebvre. Gli urbanisti impegnati, attivi in modo particolare intorno alla rivista Archivio di Studi Urbani e Regionali, hanno fatto più volentieri riferimento ai concetti althusseriani di struttura, riproposti in chiave di lotte urbane da Manuel Castells (che nel suo La question urbaine, pubblicato nel 1972, definì Le droit à la ville un "libriccino polemico"). Nel 1974 il sociologo Giuliano Della Pergola diede alle stampe un libro intitolato: Diritto alla città e lotte urbane, senza praticamente citare il testo di Lefebvre. La rivista Spazio e Società, fondata nel 1975 grazie all'attivismo di Riccardo Mariani (che curò la collana degli scritti lefebvriani per l'editore Moizzi), originariamente fu pensata come traduzione italiana della rivista Espaces e Sociétés, fondata da Lefebvre e Anatole Kopp nel 1970. Sotto questa veste la rivista ebbe però vita breve: pubblicò solamente quattro numeri tra il 1975 e il 1976. Con il numero 3 e con l'avvento di Giancarlo De Carlo nella redazione, la rivista modificò radicalmente l'impostazione originaria voluta da Mariani e, nel 1978, sotto la direzione di De Carlo (che, come segno di discontinuità, azzerò la precedente numerazione della rivista e recise ogni legame con l'edizione omonima francese), i contenuti di Spazio e Società divennero principalmente attenti alle questioni di progettazione architettonica.

A questo punto, è istruttivo osservare come assai diversa sia stata la ricezione storico-intellettuale di Lefebvre nei paesi anglosassoni. Questi lo hanno diffusamente scoperto (solo) all'inizio degli anni Novanta, quando la casa editrice Blackwell, nel 1991, tradusse in inglese (curata del situazionista Donald Nicholson-Smith e con un afterword di David Harvey) La production de l'éspace. Da allora le tesi lefebvriane hanno rapidamente iniziato a circolare tra i paesi di lingua anglofona, dando vita a una corrente di studi e di studiosi tuttora molto attiva e prolifica, che ha realizzato importanti monografie dedicate al filosofo e sociologo francese. I ricercatori italiani che oggi intendono approfondire (e aggiornare) il lavoro di/su Lefebvre, lo possono fare principalmente su questi lavori e - naturalmente - imparando a leggere gli originali (per fortuna ancora in circolazione) in lingua francese. Il ritardo con cui gli anglosassoni hanno scoperto Lefebvre non deve sorprenderci più di tanto, se si considera quanto la filosofia di matrice anglo-americana risulti impregnata dalle correnti analitiche e pragmatiste, il che - soprattutto in Gran Bretagna - ha tenuto gli studiosi anglosassoni ben alla larga dagli eccessi della French Theory e dalle sue manifestazioni antecedenti. Lefebvre, pur non essendo in alcun modo arruolabile in quella vague intellettuale, era pur sempre, agli occhi dei filosofi albionici, un "pensatore francese", se non addirittura un modern eccentric French.

Ritornando in Italia, a complicare ulteriormente la questione della ricezione e dell'accessibilità all'autore, ci si è messo di mezzo anche lo stile di scrittura di Lefebvre, che può risultare a molti studiosi quanto di più lontano ci possa essere rispetto un trattato scientifico scritto con l'intenzione di farsi leggere attraverso una prosa chiara e comprensibile. Spesso gli scritti di Lefebvre sono assai distanti da tutto ciò. Mancano, inoltre, di ciò che, nel pomposo linguaggio accademico, è indicato come: "apparato bibliografico di riferimento". Leggere Lefebvre è simile alla soluzione di un complicato puzzle: nei suoi libri alcuni concetti sono introdotti, chiariti o semplicemente ripresi solo centinaia di pagine dopo, se non addirittura in altri libri. Al riguardo, va notato che Lefebvre, in genere non scriveva i propri libri ma li dettava alle typiste di turno, con le quali spesso intratteneva delle histoire tendre (le donne sono state la passione di tutta la sua lunga vita). Per questo motivo, molti dei suoi scritti presentano un tono colloquiale, talvolta solipsistico. Il sociologo americano Harvey Molotch, nella sua recensione alla traduzione inglese de La production de l'espace, pure prodigandosi in elogi per i contenuti del libro, non perdona questa attitudine: "Lefebvre scrive densamente, con digressioni e allusioni gratuite ad altri studiosi, con frasi misteriose e con uno sviluppo inconsistente e disorganizzato dei contenuti. Lefebvre scrive in modo terribile!". Allo stesso modo, Leonardo Ricci nella sua prefazione alla prima edizione italiana de La produzione dello spazio, con l'intento di indicare al lettore i segnali disseminati da Lefebvre nel testo, in realtà lo ha intimorito e demotivato: "Introdursi o procedere nel libro di Lefebvre è un po' come introdursi a procedere nel labirinto. Chi non ha il filo di Arianna è perduto". Ricci aveva in questo modo sentenziato che approcciare il pensiero di Lefebvre equivaleva al rischio di perdersi o, quantomeno, di dover risolvere dei complicati enigmi. Dopo questo verdetto, nessuno (in Italia) trovò più il tempo, la voglia e l'interesse per cercare il filo di Arianna.

 

3. Un equivoco da evitare: "Je n'aime pas le mot participation, je préfère parler d'intervention"

Passati molti anni, alcuni autori e editori hanno iniziato a riprendere esplicitamente i testi dell'opera "spazialista" lefebvriana, riportandola all'attenzione degli studiosi e ravvivando la discussione sul pensiero del filosofo e sociologo francese. Questa spinta non poteva che provenire dal mondo anglosassone. Il geografo marxista David Harvey, attraverso le traduzioni dei libri Città ribelli, nel 2013 e con Il capitalismo contro il diritto alla città, nel 2016, ha ripreso esplicitamente il concetto di "diritto alla città", rendendolo (nuovamente) familiare ai lettori di lingua italiana.

In più, a sostenere questa ripresa di interesse sul diritto alla città, non è estraneo il ruolo di amplificazione mediatico-politica esercitato dalle Conferenze Mondiali dell'ONU (il riferimento è alla Conferenza Habitat III, tenutasi a Quito nell'Ottobre del 2016, che prevedeva una sessione dedicata al diritto alla città) e dai numerosi social forum e movimenti urbani spuntati come funghi in varie parti del mondo. Tutto questo affastellarsi di iniziative ha fatto del concetto di "diritto alla città" un manifesto e un programma politico per affermare principi e rivendicazioni molto diversi tra loro (p. es.: l'autodeterminazione delle scelte abitative degli emigranti e dei richiedenti asilo, ma anche la salvaguardia del patrimonio storico-culturale urbano, il rispetto delle differenze di genere, ma anche la lotta alla gentrification, i diritti dei LGBTQIAPK, ma anche gli impegni istituzionali che i governi urbani "socialisti" dovrebbero assumere).

Abbiamo finalmente trovato - cinquant'anni dopo - il filo di Arianna?

Sotto questo riguardo, il "diritto alla città" funziona efficacemente come uno slogan capace di esprimere implicitamente tutte le variegate istanze portate da una pluralità di attori urbani che, per ragioni anche molto differenti tra loro, confliggono con le forme monocratiche (e più o meno istituzionalizzate e democratiche) di esercizio del potere decisionale. In termini generali, "diritto alla città" coinciderebbe, secondo numerosi followers lefebvriani dell'ultima ora, con "diritto alla partecipazione", portando nuova linfa alle retoriche partecipative e all'organizzazione dei processi di mobilitazione "dal basso".

In realtà, Lefebvre aveva in mente ben altro e ben di più. Per questo motivo, non sono completamente sicuro che egli si troverebbe a proprio agio con buona parte dell'esegesi contemporanea riservatagli. Soprattutto in merito alla partecipazione, Lefebvre è molto esplicito. Così si esprimeva nel 1978 sul numero 18 de La nouvelle revue socialiste: "non mi piace la parola "partecipazione". Preferisco parlare di "intervento", vale a dire dell'irruzione diretta e autonoma - violenta se necessario - di persone al di fuori della scena tradizionale della cosiddetta democrazia, per regolare i propri affari". Idem sentire nei confronti dell'advocacy planning e di tutte le sue derivate in chiave di "facilitazione di processo". Così Lefebvre nel 1974 ne La production de l'espace, riferendosi alle vicende raccontate nel 1972 da Robert Goodman in Oltre il piano: "se non sono interessati, le parti in causa, gli utenti a parlare, chi può farlo in vece loro? Nessun esperto, nessuno specialista, nessuna competenza può o ha il diritto di farlo. In quale veste? Con quali concetti? Con quale linguaggio? In che modo il suo intervento può differenziarsi da quello degli architetti, dei "promotori" o dei politici? Ammettere un simile ruolo, una tale funzione, significherebbe accettare il feticismo della comunicazione, dello scambio sostituito all'uso! O l'esperto lavora per proprio conto, o si sottomette alle esigenze dei poteri burocratici, finanziari e politici. Se si scontra con questi poteri in nome degli interessati, si rovina con le proprie mani".

Lefebvre ha sempre sospettato che l'idea di partecipazione contenesse una letale tendenza riformista: una delle possibili derivate del socialismo statale. In uno scritto del 1966, pubblicato sul primo numero della rivista Autogestion, Lefebvre cita esplicitamente la Critica del Programma di Gotha di Marx del 1875 per ribadire il proprio rifiuto categorico e assoluto nei confronti di qualsiasi forma di riformismo di stampo lassalliano. Il riformismo, per Lefebvre è il principale responsabile della mortificazione della spontaneità che è - invece - il primo livello di intervento delle masse che si mobilitano: "energia pura da orientare, da incanalare nelle esigenze della conoscenza politica e non da annientare proprio perché "spontanea"". Per Lefebvre, l'invenzione della spontaneità moderna nasce con le vicende Comune di Parigi (da qui possiamo meglio comprendere il senso del precedente riferimento all'"irruzione diretta e autonoma - violenta se necessario - delle persone"), con l'irruzione festiva delle persone che si riappropriano degli spazi di Parigi e ne trasformano le pratiche d'uso. Per Lefebvre la spontaneità è sempre rivoluzionaria e si realizza attraverso l'autogestione: "uno sforzo degli individui - là dove è oggettivamente possibile - per riprendere in mano l'organizzazione della quotidianità e per appropriarsi della vita sociale, mettendo fine al divario tra il dominio tecnologico del mondo esteriore e la stagnazione dei rapporti pratici, tra la potenza sulla natura materiale e la miseria della natura umana". Per Lefebvre, il percorso dell'autogestione conduce alla realizzazione dell'uomo totale: disalienato, ludico e padrone della propria soggettività.

Ma - prosegue Lefebvre - l'autogestione introduce fatalmente una contraddizione insolubile con lo Stato: "come potere restrittivo, eretto al di sopra della società intera, per imprigionare e fagocitare la razionalità delle pratiche sociali (…) l'autogestione getta benzina sul fuoco delle contraddizioni dello Stato e, in particolare, sulla contraddizione suprema, esprimibile solamente in termini generali, filosofici, tra la ragione di Stato e la ragione umana, nella fattispecie: la libertà". Lefebvre è convinto che, per affermarsi, l'autogestione debba affrontare e risolvere delle contraddizioni ampie e profondamente strutturate. Per risolvere questo dilemma, egli utilizza in modo folgorante un aforisma maoista: quello secondo il quale, nello studio di qualsiasi processo complesso che contenga più di una contraddizione, è necessario ricercare la contraddizione principale. Determinata questa, è poi facile risolvere tutti i problemi. In prima battuta Lefebvre indirizzò le proprie attenzioni sul funzionamento dei mercati e sulla inerente contraddizione tra il valore d'uso e il valore di scambio nelle pratiche sociali. L'autogestione deve quindi coincidere con una critica radicale e decisiva nei confronti dell'esistente, "dal mondo delle merci, al potere del denaro, sino al potere dello Stato". Per prevenire le critiche prevedibili, Lefebvre nelle conclusioni del saggio su Autogestion aggiunge che l'autogestione non è solamente un ideale, ma un'esperienza possibile ogniqualvolta se ne presenti l'occasione propizia (poco dopo, nel volume L'irruption de Nanterre au sommet, contemporaneo ai moti del maggio '68, egli avrà modo di approfondire la portata e i limiti di questa ipotesi). Parimenti, l'autogestione non è un'ideologia, ma piuttosto una forma di conoscenza teorica molto dégagée, un passo importante verso la scienza della libertà. Infine, l'autogestione non è un'utopia, ma una apertura verso il possibile, "potrà anche essere solo la semplice parte di una strategia politica più articolata, ma sarà comunque l'elemento essenziale senza il quale tutto il resto non conterebbe nulla (…) L'autogestione mostra il cammino pratico per cambiare la vita, che rimane la parola d'ordine, lo scopo e il senso di una rivoluzione".

A partire da queste intuizioni, Lefebvre affinò la convinzione che tra l'avanzata mondiale del capitalismo e i processi di urbanizzazione vi fosse un'intima connessione, quindi, se l'urbanizzazione capitalista era profondamente radicata ed essenziale per la riproduzione del capitale, ne conseguiva che la produzione di forme alternative di urbanizzazione era per forza indispensabile per qualsiasi rivoluzione che si ponesse l'obiettivo di cambiare la vita. È qui - all'incrocio tra la vita quotidiana e la mondializzazione dell'urbano - che Lefebvre matura compiutamente quello che Ira Katznelson ha definito "il momento urbano".

Secondo Stuart Schrader, a maturare questa convinzione in Lefebvre contribuì una pubblicazione maoista del 1965, scritta dal ministro della difesa cinese Lin Piao e intitolata: Viva la vittoriosa guerra di popolo! In quell'opuscolo, il numero due del Partito Comunista Cinese auspicava l'istituzione di aree rurali di base rivoluzionarie per "l'accerchiamento delle città da parte delle campagne". Per Lin Piao, se si considerava l'intero globo terreste, appariva evidente che mentre l'America del Nord e l'Europa occidentale potevano essere definite "le città del mondo", l'Asia, l'Africa e l'America Latina costituivano "le aree rurali del mondo". In questa bipartizione - sempre secondo Lin Piao - il movimento rivoluzionario era trattenuto dal capitalismo nordamericano ed europeo, mentre cresceva con forza in Asia, in Africa e in America Latina. Sotto questo riguardo, la questione della rivoluzione mondiale poteva essere efficacemente risolta attraverso l'accerchiamento delle città da parte delle aree rurali. L'ipotesi di un pianeta diviso in aree urbane e aree rurali, così come proposta da Lin Piao, non entusiasmò particolarmente Lefebvre: per il filosofo francese l'obiettivo di arrestare il processo di imborghesimento reazionario delle città del mondo in nome del socialismo rurale era fuorviante, se non impossibile. L'ipotesi di mobilitare guerriglieri contadini alla testa dell'assalto ai centri urbani appariva antiquata e finanche grottesca. Tuttavia, una volta riconosciuto questo limite, Lefebvre fece comunque proprio il concetto maoista di "città mondiale" e lo rielaborò (qualche decennio prima di Saskia Sassen) in modo originale per indicare una strategia di rivoluzione urbana non più centrata sulla città e sul conflitto città-campagna, ma sulle caratteristiche relazionali dell'urbano, che iniziò a considerare nei termini di un processo di "mondializzazione dell'urbano". La citazione maoista rivela la genealogia intellettuale del concetto di "urbano" che Lefebvre iniziò a utilizzare per descrivere il cambiamento di pensiero prodotto dalla condizione urbana che si stava rapidamente consolidando.

Ne La produzione dello spazio Lefebvre chiarisce definitivamente che il momento urbano inaugura un'era di transizione nella quale il capitalismo di cui Marx aveva scritto nel Capitale inizia ad apparire come un artefatto storico. La tradizionale nozione di rivoluzione socialista, concentrata sul possesso dei mezzi di produzione, si dimostrava incoerente rispetto ai processi di urbanizzazione in corso. Ciò che allora si imponeva era un radicale spostamento degli obiettivi, individuando come priorità di azione le pratiche attraverso le quali la vita umana avrebbe potuto auto-organizzarsi all'interno di nuovi spazi sociali. Nella nozione di "diritto alla città" è presente una sollecitazione alla mobilitazione politica finalizzata a consentire l'accesso agli opposti: l'individualità e l'associazione, la privacy e l'abitare insieme. È inoltre presente il concetto di "diritto all'opera" - termine secondo alcuni ripreso dalla vita activa di Hanna Arendt - inteso come capacitazione della società urbana di partecipare alla (e di fruire in modo attivo della) costruzione della città.

Ora, la questione che si intende sollevare è la seguente: cosa ha che fare tutto questo con la sterminata produzione letteraria (articoli scientifici, tesi di laurea), con i convegni e i seminari che continuano a essere dedicati alla partecipazione pubblica e alla democrazia deliberativa - o, nelle versioni più mainstream, alla rigenerazione urbana e/o all'innovazione sociale - con l'intento di restituire ai residenti il "potere decisionale"? Per Lefebvre, come abbiamo visto, il coinvolgimento dei cittadini nella risoluzione dei problemi urbani aveva senso solo se coincidente con l'intento di cambiare radicalmente la vita quotidiana, e con essa, l'intera società. Messa così, mi sembra evidente che questa pretesa ecceda ampiamente sia buona parte delle rivendicazioni presenti nella galassia partecipazionista, sia la totalità delle concessioni che le istituzioni e le élite economiche e tecnocratiche sono disposte a elargire per dare un "tocco democratico" all'esercizio del proprio potere decisionale. Secondo Jean-Pierre Garnier, in queste condizioni è logico che i ricercatori che oggigiorno partecipano alla costruzione dell'ennesima versione della "partecipazione" si guardino bene, nelle loro elucubrazioni, di fare riferimento alla posizione di Lefebvre, tranne che per falsificarla. Perciò - prosegue Garnier (il corsivo è mio) - l'importante è fare sì che "la partecipazione cittadina non provochi eccessi incontrollati. Da qui il ricorso a un gran numero di ricercatori in scienze sociali per aiutare chi prende le decisioni nel compito di "modernizzare l'azione di Stato". Ovvero, non potendo porre fine alla "crisi di rappresentanza" patita dalla "democrazia di mercato" (o parlamentarismo capitalista) fino al livello locale, essi ideano o perfezionano un sistema di democrazia locale in cui la partecipazione non degeneri in una sovversione delle istituzioni rappresentative". Tutto ciò ha evidentemente ben poco a che fare con il programma lefebvriano che - all'interno di un quadro d'azione così angusto - non può che essere considerato eccessivo, irrealizzabile, irresponsabile, "populista", quando non addirittura socialmente pericoloso.

Tuttavia, la corretta interpretazione del pensiero di Lefebvre non fa che mettere in evidenza il limite fatale di gran parte della logorrea partecipazionista: l'assoluta mancanza di una teoria spaziale socialista da contrapporre all'egemonia dello spazio capitalista. La riflessione sullo spazio da parte delle teorie partecipazioniste è - non a caso - limitatissima. Manca totalmente un'analisi seria e approfondita sull'enorme portata della dimensione spaziale del dominio capitalista. Per Lefebvre la partecipazione dovrebbe riprendere le tesi avanzate da Lenin a proposito del movimento operaio nascente: trasformare un movimento spontaneo in una forza cosciente e organizzata. Uno dei compiti della partecipazione dovrebbe perciò essere quello di "dare impulso a tutti quei movimenti di utenti o di cittadini che non hanno ancora trovato un'espressione né un linguaggio propri, e molto spesso sono rinchiusi all'interno di ambiti talmente ristretti che sfugge loro il significato politico delle proprie azioni". L'insegnamento di Lefebvre ci dice che una società che si trasforma in direzione del socialismo non può accettare lo spazio prodotto dal capitalismo. Accettarlo significa legittimare la struttura sociale, economica e politica esistente. Significa andare dritti verso il fallimento.

Guido Borelli

 

 

N.d.C. - Guido Borelli è professore associato di Sociologia dell'ambiente e del territorio all'Università IUAV di Venezia e docente alla Venice International University. Ha insegnato all'Università Statale di Milano, all'Università di Cagliari e all'Università del Piemonte Orientale. È vice-coordinatore del programma di dottorato in Pianificazione e Politiche pubbliche del territorio. I suoi interessi di studio e di ricerca sono rivolti in particolare alla politica economica urbana, agli approcci marxisti in ambito urbano e alla vita quotidiana.

Tra i suoi libri recenti: Immagini di città. Processi spaziali e interpretazioni sociologiche (Bruno Mondadori, 2012); La politica economica urbana. Teorie e modi di governance (Carocci, 2012); La comunità spaesata (Contrasto, 2015). Negli ultimi anni ha pubblicato numerosi saggi sullo studio della vita quotidiana nel Nordest italiano e sulla vita e l'opera del filosofo francese Henri Lefebvre.

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.

 


© RIPRODUZIONE RISERVATA

24 GENNAIO 2019

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
Oriana Codispoti

cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
locandina/presentazione
sintesi video/testo integrale

2018: Cesare de Seta
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:
2019: programma/present.

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019:

M. Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica, commento a: G. Pasqui, Urbanistica oggi (Donzelli, 2017)

G. Pasqui, I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza, commento a: L. Gaeta, La civiltà dei confini (Carocci, 2018)

 

 

 

 

 

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