È dedicato “a tutti i senza nome che giacciono sul fondo del Mediterraneo: bambini, donne, uomini”. Ed è scritto da quattro urbanisti che evidentemente sentono forte la necessità di un impegno diretto volto a imprimere un cambiamento di rotta a quella cultura del respingimento e della chiusura che sembra oramai connotare la società europea. Stiamo parlando di La città e l’accoglienza di Ilaria Agostini, Giovanni Attili, Lidia Decandia ed Enzo Scandurra (manifestolibri, 2017, 111 pagine, 16 Euro). Un libro che pare un appello non solo a quanti si occupano di progetto della città e del territorio, ma ai politici e agli amministratori che le governano e, più in generale, a quella significativa parte della cosiddetta società civile che nei flussi migratori, ma diciamolo meglio, in quella massa di disperati che invadono le città e i territori europei vedono solo e soprattutto pericoli: per loro stessi, per i loro figli e le loro famiglie, per le comunità a cui appartengono.
Quello degli autori è prima di tutto un gesto di civiltà e di umanità verso quei “milioni di persone in fuga con il solo fardello della memoria da cancellare al più presto e la speranza di una vita migliore” (E.S., p. 14). Una fuga disumana che, a dispetto delle aspettative, si è troppo spesso tradotta – e continua purtroppo a tradursi – in una rincorsa verso l’abbraccio con la morte, tanto da far affermare a papa Francesco che quella a cui stiamo assistendo è la “catastrofe umanitaria più grave dalla Seconda guerra mondiale” (E.S., p. 13). Un gesto di civiltà e umanità condotto con le armi spuntate della cultura, eppure un atto necessario, indispensabile non tanto per alleggerire le coscienze dei singoli quanto per provare a riportare una situazione tragica – che ha perfino dell’incredibile se rapportata all’ordinarietà della vita nel Vecchio continente – almeno nell’alveo della ragionevolezza. Già perché la cultura su cui si fonda la civiltà europea parla d’altro e l’Europa – è la tesi di Scandurra – potrebbe vincere l’immane sfida che ha di fronte “se solo ascoltasse la propria memoria, se ricordasse la voce dei suoi Padri: Shakespeare, Goethe, Leopardi, Rousseau, Hugo, Baudelaire, Picasso” (p. 16).
Ma parla d’altro soprattutto la storia delle città europee, quella di lungo periodo che ancora oggi troviamo riflessa nelle loro forme fisiche, quella delle loro comunità. È qui che sta l’altro punto di forza del libro. Nel ricordarci che quella della città europea non è solo una storia di chiusure, mura o confini ma, piuttosto, di “continua relazione e di scambio con l’alterità, in nome di qualcosa di più grande che ci accomuna e ci tiene insieme” (L.D., p. 38). Nel richiamare alla memoria il fatto che “la stessa identità, che caratterizza molte delle nostre città, sia proprio il frutto di un groviglio complesso di relazioni fra componenti etniche diverse” (L.D., p. 48) così profonde da riverberarsi nelle architetture o negli spazi pubblici che abbiamo ereditato dal passato e che tuttora sentiamo nostri e ammiriamo. Che quella dell’accoglienza, dell’ospitalità, della cura dei più deboli, dei più poveri o dei malati è una storia che viene da lontano nei secoli, le cui matrici religiose si intrecciano a quelle civili al punto da configurarsi – in certi momenti e seppur con i significativi slittamenti di senso – in un vanto per quelle comunità che le praticavano. Lo testimoniano ancor oggi le mirabili fabbriche nate nei secoli per questi scopi incastonate nei tessuti storici delle nostre città, ma anche le lingue europee in cui – come nel caso del termine ospite in italiano – “resta memoria del costume che nel mondo antico rendeva ‘uguali’ chi offriva rifugio e chi invece ne richiedeva” (I.A., p. 69). Nell’obbligarci, infine, a tornare a riflettere sul “significato più profondo dell’essere città” (G.A., p. 107).
È qui che anche l’urbanistica – disciplina di cui la nostra società sembra voler fare volentieri a meno – può forse tornare a giocare un ruolo di primo piano. Riappropriandosi, così com’è stato spesso nel Novecento, della propria natura etica e politica. Tornando a farsi portatrice di valori culturali e civili universali, non di interessi particolari. Ma al tempo stesso radicando il proprio operato nel terreno del reale e rinunciando a quelle illusorie ambizioni demiurgiche e totalizzanti che ne hanno frequentemente contraddistinto l’azione, finendo col delegittimarla, col disinnescarne la carica ideale.
Milano, 6 luglio 2017 Renzo Riboldazzi