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Dopo la lettura delle ottocento pagine de Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019) viene da dire solo “grazie” a Cristoforo Sergio Bertuglia e a Franco Vaio per aver scritto un libro necessario e ambizioso. Necessario perché c’è bisogno di un aggiornato trattato dei diversi aspetti del fenomeno urbano. Di solito se ne occupano diverse discipline – l’urbanistica, la sociologia, la scienza politica, la filosofia, la letteratura, la storia – ma qui tutti gli approcci, pur mantenendo la profondità disciplinare, sono sviluppati in una trattazione sistematica e affascinante. Le parti sono risolte in un tutto. Ambizioso perché applica prima di tutto a se stesso, oltre che alla città, l’idea di complessità, almeno nella sua versione più semplice: il sistema è qualcosa di più delle parti che lo compongono. Sarà per questo motivo, allora, che tutti gli apprezzamenti, già espressi in altre recensioni comparse in questa rubrica, risultano inadeguati o parziali. Perché c’è sempre un di più che li supera.
Potremmo dire che è un’Enciclopedia, ma questa è una parola spesso fraintesa. Come ci ricorda Gianfranco Dioguardi nella bella prefazione, perfino Diderot quando la introdusse nella cultura illuministica dovette spiegarne il senso perché era troppo innovativa. Oggi invece la sua banalizzazione genera un fraintendimento, perché smarrisce il significato originario di concatenazione delle scienze.
Potremmo dire che è un libro di testo, ma è davvero insolito se arriva prima della scienza che dovrebbe illustrare e della scuola nella quale dovrebbe essere adottato. E infatti nelle pagine conclusive gli autori riprendono e fanno propria la proposta di Dioguardi di una scuola e di una scienza della città, come una conoscenza integrale che superi la frammentazione disciplinare e la scissione tra cultura umanistica e cultura scientifica.
Potremmo dire che è un’opera compiuta, che chiude una trilogia iniziata dagli autori nel 2003 con il volume Non linearità, caos e complessità (seconda edizione riveduta e ampliata, 2007) e poi nel 2011 con un altro tomo, Complessità e modelli, per complessive oltre duemila pagine. Ma è anche un inizio nel senso dell’aforisma, citato nella prefazione, di Marcel Proust: “il bel libro è una conclusione per l’autore e un incitamento per il lettore”. Mi permetto, però, di adeguare l’aforisma al nostro caso, dicendo che è un incitamento anche per gli autori. Sergio Bertuglia lo considera il culmine della sua opera ma noi amici gli auguriamo di allietarci ancora con altri contributi, magari meno faticosi di questo. E a Franco Vaio auguro di portare avanti la ricerca fino a far cadere nel titolo la congiunzione, che sembra indicare una mera contiguità tra Il fenomeno urbano e la complessità, con l’ambizione di trovare invece un rapporto intrinseco tra i due termini. So che ci pensa già da studioso di fisica. La complessità in senso quantistico descrive la struttura subatomica mediante la funzione d’onda sottoposta al principio di indeterminazione di Heisenberg. In certe condizioni però questa fornisce gli «autovalori» che corrispondono alla descrizione deterministica dei fenomeni e soprattutto coincidono con i risultati degli esperimenti, altrimenti non sarebbe una teoria scientifica. Si può immaginare anche la città come una funzione d’onda, quindi con tutta la sua indeterminazione, ma anche con gli «autovalori» che quantificano i suoi fenomeni misurabili. Sarà questa la direzione della ricerca sulla complessità urbana? Sarebbe una teoria organica, per quanto aperta, a rappresentare tutta l’indeterminazione del fenomeno urbano. Ora, però, si affaccia un approccio radicalmente diverso con la scienza dei big data. L’intelligenza artificiale, infatti, consente di correlare una quantità enorme di dati per arrivare a caratterizzare i fenomeni, pur senza disporre di una teoria generale. Si presenta quindi un bivio epistemologico per la scienza della città, già prima di costituirsi come scienza: una teoria della complessità urbana oppure una complessità urbana senza teoria.
Potremmo dire che è un libro attuale perché espone con chiarezza e profondità le trasformazioni epocali che sono sotto i nostri occhi. Ma lo spirito critico degli autori mette in evidenza un altro aspetto della complessità: nei momenti di vorticoso cambiamento gli strumenti di analisi dei fenomeni vengono rapidamente superati dalle stesse mutazioni dei fenomeni. Oggi chi si occupa della città avverte l’inadeguatezza delle consuete categorie concettuali e l’esigenza di ripensare i fondamentali. A tal fine queste pagine propongono una rilettura creativa del grande pensiero urbano moderno, non per un ritorno agiografico al passato, ma per mettere alla prova della contemporaneità la forza concettuale dei classici. Così è un libro attuale proprio per la sua inattualità. Per il tentativo di cercare all’origine della teoria urbana le chiavi di interpretazione del futuro della città. È come il passo indietro del pittore che cerca uno sguardo complessivo sull’opera per decidere quale sviluppo dare alla sua creazione. E mi sembra che il movimento sia ben riuscito. In molti casi gli autori classici chiamati a testimoniare sulla crisi urbana di oggi forniscono intuizioni più penetranti rispetto alla corrente letteratura apologetica dell’innovazione. L’aspetto più lacerante delle attuali trasformazioni urbanistiche è la divaricazione tra la logica di sistema e la forma di vita. Ma nessun osservatore di oggi riesce a descriverla con la forza espressiva di un verso di Baudelaire scritto di fronte alle modernizzazioni di Haussmann: “La vecchia Parigi non è più: la forma di una città muta più rapidamente, ahimè, del cuore di un mortale”.
Se non si riscopre la forza concettuale dei classici si cade nella rete delle ideologie correnti e delle retoriche suadenti che si nascondono dietro il paravento del 'nuovismo'. Si sente dire spesso che siamo entrati nel secolo delle città. Le statistiche tanto gradite ai media annunciano che oltre la metà della popolazione mondiale abita già in città e raggiungerà la percentuale di 80% nel 2050, secondo le previsioni più accreditate. Come ha osservato Neil Brenner il vulnus di queste statistiche consiste nel quantificare gli abitanti della città contemporanea proprio mentre non si riesce più a definire il suo spazio di riferimento. Di fronte al dilagare dello sprawl non sappiamo più dire dove comincia e dove finisce. Tutto diventa urbano, ma nulla è più propriamente urbano. Sarà pure il secolo della città, ma intanto non sappiamo più neppure definirla nei suoi confini.
La vicenda della città assomiglia a quella della democrazia, la quale si è estesa in tutto il mondo ma si è anche banalizzata e ha smarrito le risorse rigenerative, risvegliando così gli spettri della demagogia e del totalitarismo da cui sembrava essersi liberata per sempre. Non bastano le procedure formali, occorre rinnovare le promesse della democrazia, questo fu l'ammonimento di Norberto Bobbio in uno dei suoi ultimi libri. Analogamente, su un muro di Roma è apparsa una scritta paradossale: "Basta fatti, vogliamo promesse". A prima vista mi è sembrata sbagliata; come ex-amministratore conosco il valore dei risultati e so quante soluzioni oggi si attendano i cittadini. Ma la retorica dei fatti nasconde molti inganni: risolve tutto un uomo solo, si risponde sempre a un'emergenza, sembra già stabilito e certo il da farsi. Non è cosi. Governare non significa promulgare un editto, ma aiutare i cittadini attivi che stanno già realizzando il cambiamento, che si danno il tempo necessario, che inventano insieme le soluzioni. La promessa è diventata una brutta parola nella politica mediatica. Ma è tempo di darci nuove promesse per realizzare i fatti che non abbiamo ancora immaginato. Il libro discute del come rinnovare due grandi promesse della città.
Prima, la promessa dell'equilibrio tra potenza e saggezza, tra la capacità di trasformazione e l'attitudine a regolarne gli esiti. È il tema originario della polis come eunomia fin da Solone. E in epoca moderna la scienza urbanistica nasce con il medesimo intento di creare l’equilibrio, di ritrovare la saggezza dopo le sciagure provocate dalla potenza della rivoluzione industriale. Forse oggi si è dimenticata questa virtù dell’urbanistica come sapere della saggezza. Proprio quando se ne sente più forte il bisogno. Viviamo un’epoca di massimo squilibrio della potenza: tra lo sviluppo economico e la sostenibilità del pianeta; tra la globalizzazione delle merci e della finanza e il respingimento in mare di bambini, donne e uomini; tra l'innovazione tecnologica e la mancanza di lavoro. Questi e altri grandi problemi sembrano astratti, irrisolvibili e lontani dal nostro potere di intervento. Eppure, nella città essi mettono i piedi per terra, entrano in contatto con la vita e suscitano le forze morali e sociali per il cambiamento.
Seconda, la promessa di regolare lo spazio e il tempo. La città come luogo che limita lo spazio per rendere commensurabili le relazioni temporali tra le persone. Questi due movimenti hanno sempre interagito creativamente nel formare lo spirito urbano. Non a caso l'archetipo più potente è costituito dalle mura, che nella città antica definivano l'identità ma si aprivano nelle porte allo scambio delle merci, alla ricezione delle notizie e all'incontro con lo straniero. Nella città postmoderna, però, si attua la profezia marxiana: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”. Le mura non esistono più come architetture rassicuranti, ma vengono introiettate e smaterializzate nell'organismo sociale, diventando perfino più laceranti nelle varie forme di vecchi e nuovi ghetti, di ossessioni securitarie, di smanie per recintare ogni cosa, di gentrification. Svanisce il confine e di conseguenza si divaricano i due movimenti di apertura e contenimento: tra glamour dell'innovazione e precarietà del lavoro, tra fantasmagoria della comunicazione e deprivazione culturale. L’interiorità sociale non si esprime più nel cuore del mortale di Baudelaire, ma si costituisce nello spazio chiuso dell’eterotopia di Foucault, per richiamare solo alcuni dei classici discussi nel libro. Infine, durante la lettura svettano in modo inaspettato due argomenti ormai dimenticati: la rendita urbana e la questione Fori. Potrebbero essere pubblicati in due libri autonomi, magari in una successiva edizione, ma si collocano bene anche qui. Sono due considerazioni inattuali che rendono ancora più attuale il libro, per la capacità critica del presente.
Sulla rendita gli autori scrivono un saggio storico-teorico, da Ricardo a Benevolo, come oggi è difficile trovare in un testo di urbanistica. Nel dopoguerra, quando era ancora un fenomeno settoriale e arretrato, la questione immobiliare divenne argomento delle lotte sociali, del dibattito parlamentare e perfino dell'arte, dal cinema di Francesco Rosi al romanzo di Italo Calvino. Per il tecnico urbanista costituiva non solo un decisivo argomento disciplinare, ma perfino una tappa della formazione etico-professionale. Gianni Agnelli proponeva di combattere la speculazione fondiaria perché provocava l’aumento degli affitti, la diminuzione dei redditi disponibili per i lavoratori e di conseguenza una maggiore conflittualità in fabbrica. Venti anni dopo molti grandi imprenditori (Benetton, Tronchetti Provera, Romiti ecc.) danno vita ai fondi immobiliari per utilizzare le rendite come margini per le rispettive ristrutturazioni aziendali e come via di fuga dalla competizione internazionale. La rendita è scomparsa dal discorso pubblico quando è diventata la forza indisturbata dello sviluppo territoriale e parte integrante della finanziarizzazione. La crisi economica globale è nata in città. Chi l'avrebbe detto che il turbo-capitalismo si sarebbe inceppato sul vecchio sogno piccolo borghese della casetta in proprietà. Che la bolla esplodesse proprio sui mutui immobiliari non era stato previsto a suo tempo, e neppure veramente compreso a posteriori. È sottovalutato il carattere sistemico assunto dalla rendita negli ultimi venti anni. Eppure non va disprezzata, è pur sempre una misura del valore della città. Esso è determinato soprattutto dalle decisioni pubbliche e dai comportamenti collettivi, ma viene acquisito immeritatamente e in una quota eccessiva dai proprietari. La bolla è esplosa da un decennio, ma molti rentiers ancora aspettano di poter ricominciare come prima. Invece la crisi sarebbe l'occasione per ripensare il modo di produzione dell'immobiliare almeno in due aspetti cruciali: la riconversione produttiva del settore, scoraggiando il gioco a monopoli e premiando le imprese innovative nella rigenerazione e nei servizi; il riparto del valore a favore della collettività. A tale ripensamento delle politiche pubbliche gli autori forniscono un prezioso contributo teorico.
Il progetto Fori è trattato al culmine di una sapiente analisi storica delle due capitali, Roma e Torino, che meriterebbe una discussione a se stante, oltre i limiti di questa recensione. Gli autori ricostruiscono il grande dibattito sull’area archeologica centrale, forse il più appassionante della Roma novecentesca. Ripensandoci oggi emerge un paradosso. Negli anni settanta si discuteva sull’integrale pedonalizzazione, ma era di difficile realizzazione per la delicatezza del sito e per la penuria infrastrutturale. Oggi, invece, non si discute più del progetto, proprio mentre sono maturate le sue condizioni di fattibilità, seppure in modo caotico e improvvisato. La realizzazione della metro C, ancora incerta e incompleta, apre una prospettiva concreta di eliminazione del trasporto di superficie. E intanto la regolazione della mobilità, con meri provvedimenti di segnaletica e senza interventi strutturali, ha già eliminato il traffico automobilistico. Ma il conformismo imperante oggi a Roma pretende di lasciare intonso uno stradone a sei corsie, largo come il Gra, anche se non svolge più alcuna funzione viabilistica. È come se nel cuore dell’archeologia romana si sentisse il bisogno di erigere per la memoria dei posteri un monumento alla motorizzazione novecentesca, che è stata una parentesi neppure molto significativa della lunga storia di quel luogo. Il libro di Bertuglia e Vaio è l’occasione per riaprire la discussione e prendere consapevolezza della possibilità di attuazione del progetto: eliminare lo stradone e recuperare la geometria e le connessioni urbane dell’area archeologica, reinterpretando la funzione antica dei Fori come piazze urbane, aperte alla vita quotidiana dei cittadini e allo stupore dei visitatori. E da questo capo della matassa si dovrebbe sbrogliare tutta la vicenda urbanistica romana. È una formidabile opportunità per conferire una forma urbis alla città metropolitana a partire dal sistema Fori-Appia, il grande triangolo paesaggistico-archeologico ancora integro, dal centro storico ai Castelli Romani, nonostante la secolare devastazione della campagna romana.
Roma non sarà mai davvero una città moderna finché non saprà rielaborare nella contemporaneità l’eredità dei Fori. Non sarà davvero città internazionale finché non avrà l’ambizione di proporre al mondo un senso nuovo della “città eterna”. Come in un percorso psicoanalitico la persona nuova emerge da una rielaborazione del proprio vissuto, così una città storica si apre all’avvenire riconoscendo la propria memoria.
Walter Tocci
N.d.C. – Walter Tocci si è laureato in Fisica e in Filosofia a La Sapienza Università di Roma. È stato vicesindaco di Roma dal 1993 al 2001. Eletto alla Camera dei Deputati nel 2001, al lavoro parlamentare ha affiancato un'intensa attività di studio, pubblicando libri e saggi su Roma e sulla scienza. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato. Dal 2013 al 2018 è stato senatore per il Partito Democratico, seguendo in particolare le tematiche della scuola e delle riforme istituzionali.
Tra i suoi libri: Roma che ne facciamo (Editori Riuniti, 1993); con G. Ligi, La piazza di Pietralata a Roma (Gangemi, 1998); Politica della scienza? (Ediesse, 2008); con I. Insolera e D. Morandi, Avanti c'è posto (Donzelli, 2008); Sulle orme del gambero (Donzelli, 2013); Non si piange su una città coloniale. Note sulla politica romana (GoWare, 2015); La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative (Donzelli, 2015).
Questo testo è stato letto dall’autore in occasione della presentazione del libro che si è tenuta a Roma, nella sede del CENSIS, l’11 novembre 2019.
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Roberto Tadei, Si può comprendere la complessità urbana? (31 maggio 2019).
N.B. I grassetti e le sottolineature nel testo sono nostri
R.R.
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