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Intervista e traduzione di Giuseppe Schillaci
Nel documentario « L’Afrique vue par Ryszard Kapuscinski », andato in onda il 4 marzo 2015 sul canale franco-tedesco Arte, la regista Olga Prud’homme Farges raccoglie l’ultima testimonianza dello scrittore polacco prima della sua scomparsa (avvenuta il 23 gennaio 2007). Il film attraversa il continente africano della decolonizzazione, restituendoci un appassionante ritratto di Kapuscinski. Ho incontrato Olga Prud’homme Farges a Parigi, dove vive e lavora come regista e produttrice indipendente di film documentari (http://www.kolam.fr).
Come hai avuto l’idea di girare un documentario su Kapuscinski?
Sono d’origine polacca e ho sempre avuto voglia di fare un film su un soggetto polacco. Così, anche se non si tratta di un film sulla Polonia, quello su Kapuscinski è un documentario legato a questa mia necessità. Penso inoltre che lo sguardo sull’Africa di un polacco come Kapuscinski sia ancora più interessante per un pubblico “occidentale”, ovvero legato alle vecchie nazioni colonizzatrici. La Polonia, in effetti, non è mai stata una potenza coloniale; al contrario, è stata essa stessa colonizzata dai Russi e dai Tedeschi, per diversi secoli. Mi è sembrato interessante, dunque, fare un documentario sull’Africa della decolonizzazione dal punto di vista di un europeo, il cui Paese sia stato a sua volta colonizzato. E poi l’incontro coi libri di Kapuscinski è stato determinante; sono stata subito affascinata dalla sua scrittura.
Qual è il libro di Kapuscinski che preferisci?
Non posso citare soltanto un libro, perché ciascuno è diverso dall’altro. È questa varietà la forza dello scrittore Kapuscinski. C’è comunque un libro che mi ha molto colpito: “Lo scià”, opera che racconta sotto forma di flash fotografici la caduta dello scià d’Iran, libro molto originale e insolito, che il mio film non menziona perché tiene conto soltanto dei viaggi di Kapuscinski in Africa.
È dunque “Ebano” il libro a cui mi sono più avvicinata per realizzare il film, perché è l’opera che tratta delle “avventure africane” di Kapuscinski. Ma nel mio film chiamo in causa anche altri libri sull’Africa, come “Il Negus” su Hailié Salassié, o ancora “Da una guerra all’altra”, che racconta la sua esperienza nella Guerra d’Angola.
Hai scelto di raccontare il Kapuscinski scrittore o il Kapuscinski giornalista?
Non ho davvero potuto distinguere l’uno dall’altro. Se Kapuscinski non fosse stato giornalista, forse sarebbe stato uno scrittore meno interessante. Non ho potuto, né voluto scegliere tra l’uno e l’altro, e questo non è stato facile da accettare per il produttore e per la televisione, che invece amano mettere delle etichette sui loro prodotti. Fortunatamente, le persone che hanno seguito il mio progetto sono persone preparate, che hanno avuto esperienze nel settore dell’editoria e che sono dunque sensibili ai documentari in cui si ha a che fare con scrittori. Ho potuto dunque, con la complicità di Mary Stephen, la montatrice del film che è una grande amante di letteratura, fare un film fedele a Kapuscinski, ovvero a un personaggio la cui figura di scrittore è imprescindibile da quella di giornalista, e viceversa.
D’altronde, lo scrittore letterario Kapuscinski nasce dalla frustrazione per la scrittura giornalistica, e lo afferma lui stesso nel film, quando dice: “redigevo i dispacci scrupolosamente, perché quello era il mio lavoro. Allo stesso tempo, raccoglievo materiali per i miei futuri libri. Mi rendevo conto che mi trovavo in un posto unico e che, limitandomi soltanto a redigere i miei dispacci, avrei perso una massa formidabile d’informazioni, e anche di strati interi di cultura. La lingua della stampa era troppo povera. Così, annotavo le miei impressioni, le mie osservazioni. Dopo, il tempo m’avrebbe permesso di purificare il testo”.
Dunque questo film racconta anche come sia nato lo scrittore dal giornalista e come la scrittura, la letteratura stessa, sia divenuta, a un certo momento della sua vita, alla fine degli anni Settanta, l’ultimo rifugio contro le disillusioni del reporter di guerra che Kapuscinski era stato.
Perché l’Africa? Cosa rappresentava questo continente per lui?
Ho scelto di limitare il mio film all’Africa perché ho considerato che tutto quello che c’era da raccontare su questo vasto continente era sufficiente per un film di un’ora. Ma poi: sono stata davvero io a fare questa scelta? Nel senso che il mio film è nato da una lunga intervista di otto ore con Kapuscinski, l’ultima prima della sua scomparsa. In queste otto ore, lui ha essenzialmente parlato dell’Africa. Io avevo preparato molte domande sulla caduta dello scià in Iran, per esempio, sulla dissoluzione dell’impero sovietico o ancora sui suoi viaggi in America Latina; ma lui rispondeva in modo lapidario a queste domande e tornava sempre ai suoi ricordi dell’Africa. Perché? Penso che sia stato il posto che l’ha impressionato di più, e oggettivamente è il luogo dove ha passato la maggior parte del tempo e su cui ha scritto di più. Penso dunque che sia il continente col quale Kapuscinski abbia avuto più empatia e risonanza con sé stesso. Come se fosse stato affascinato, soggiogato da quei paesaggi e da quei popoli. Forse s’è fatto ammaliare da qualche “marabù” di una tribù africana, chissà… . Ma c’è anche un’altra ragione per cui ho voluto concentrare il mio film in Africa: perché le persone che non conoscono Kapuscinski possano avvicinarsi, almeno, alla storia africana. La storia dell’Africa, infatti, la si conosce poco o male. Parlo ad esempio della Francia, dove c’è stata e c’è ancora una sorta di amnesia sull’Africa, a causa del nostro passato colonialista.
Da liceale ero appassionata di storia, ma nei miei libri di liceo non c’era nulla sull’Africa; è stato soltanto leggendo i libri di Kapuscinski che ho cominciato a capirne qualcosa. É anche questa scoperta di un continente, attraverso gli occhi di Kapuscinski, che ho voluto coindividere col pubblico del mio film.
Infine, poche persone al mondo hanno vissuto da vicino, e per così tanto tempo, la storia tumultuosa ed eccezionale dell’Africa della de-colonizzazione. Chi altro può dire: “il Ghana di Nkhruma, c’ero; il Congo di Lumuba, c’ero; la Tanzania di Nyerere, c’ero; l’Etiopia di Négus, c’ero; Zanzibar durante il colpo di stato d’Okello, c’ero; il Nigeria, la Repubblica Centraficana, l’Angola, nel 1975… “. Kapuscinski è stato dappertutto, ovunque accadesse qualcosa; è stato dappertutto perché era un rompiscatole, e anche per una semplice ragione: la Polonia era un Paese povero, e quindi non aveva i mezzi di mandare diversi inviati in ognuno di quei Paesi, e inviava sempre lo stesso, Kapuscinski appunto, che doveva coprire tutti i diversi conflitti. E così soltanto Kapuscinski ha potuto avere una visione d’insieme di un intero continente in tumulto; è stato lui il filo conduttore del mio film sulla decolonizzazione africana, un po’ come un attore che ci porta dentro una storia.
Un ricordo delle riprese con Kapuscinski.
Abbiamo girato a sessioni di due ore ciascuna, al mattino, per una settimana, nel suo studio all’ultimo piano di un piccolo palazzo di Varsavia. Il suo studio mi faceva pensare alla grotta di un orso, un “orso intellettuale” con libri dappertutto, ai muri, sulle menzole, sui tavoli… dappertutto.
Che cosa hai capito della figura di Kapuscinski facendo questo film?
Il mio incontro con Kapuscinski e le otto ore d’intervista che ci ha concesso mi hanno confermato l’idea che mi ero fatta di lui leggendo i suoi libri: un uomo dolce, raffinato, posato, che crede solo a ciò che vede, che rispetta gli antichi, come Erodoto, suo « maitre à penser », che ama condividere, trasmettere il sapere, e che ha anche senso dell’umorismo, perché ci vuole un certo spirito per attraversare quei luoghi di conflitto e non restarne distrutti emotivamente.
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