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Il sapore liquido di certe battaglie ambientaliste svanisce presto, così presto che non fa in tempo a solidificarsi in una storia che insegni qualcosa, a meno che qualcuno, generoso, non si prenda la briga di scrivere costruendo, così, ‘memoria’ a favore di tutti. Questo ha fatto Piero Lacorazza nel suo libro Il miglior attacco è la difesa. Costituzione, territorio, petrolio (People, 2019), rimettendo in fila i fatti di una vicenda dolorosa, quella delle trivelle che nel 2016 ha tenuto banco in Italia fino al referendum. Forse ce ne siamo già dimenticati perché oggi tutto evapora in un nanosecondo. Ma Lacorazza, che ci ha messo un pezzo della sua vita politica e personale in quella battaglia, ci fa comprendere, in primis, che le battaglie giuste vanno sempre fatte senza cedere a compromessi al ribasso, costi quel che costi (a lui è costata uno stop alla sua carriera politica). E questo è al tempo stesso un merito e una lezione che apprendiamo e che ognuno si può portare nella sua nicchia disciplinare, nella sua storia di cittadino, di lavoratore, di politico.
La questione spinosa sulla quale si focalizza il libro è il petrolio e tutto il suo girone opaco e infernale di interessi, finanza, speculazioni, miserie e sguardi corti. Il petrolio, si sa, è tema divisivo perché tutti hanno paura che il suo esaurirsi ci faccia precipitare nel medioevo dei carretti, abbandonando le comodità, il benessere e tutto ciò che oggi ci fa vivere la vita esagerata che viviamo, tutta basata su plastica e petrolio, alias petrolio. La Basilicata porta su di sé le cicatrici di tutto ciò essendo il più grande giacimento su terraferma in Europa. Lacorazza racconta, con la puntualità di un esperto di cronaca, i fatti che si sono succeduti, i protagonisti, quelli che hanno tirato su la mano per salvare l’Italia dallo sfascio ambientale, ma che poi l’hanno messa in tasca quando si trattava di confermare quel voto nel momento decisivo, quando c’era da votare persino contro il proprio partito che nel frattempo si era involato altrove. Il lettore si trova a passeggiare tra le aule del Consiglio regionale lucano, le commissioni parlamentari, le stanze della politica europea a Bruxelles, gli incontri, le telefonate, le email, le rivendicazioni, i bracci di ferro, le decisioni di tribunali e corti di giustizia… fino ad arrivare al giorno del referendum che sappiamo non aver prodotto gli effetti che la natura si aspettava da noi. In questo percorso, Piero Lacorazza svela documenti che avevamo già scordato e ricorda le parole con le quali – ahinoi – le grandi istituzioni pretendevano di dirci quale fosse il modo migliore di stare al mondo. Un esempio per tutti, la lettera della Bce del 2011 che incoraggiava il governo a fare certe cose che, a rileggerle ora, continuano ad apparirci imbarazzanti dal punto di vista ecologico, come chiedere che un governo nazionale si adoperasse il più possibile per migliorare “la capacità di assecondare le esigenze delle imprese”. In base a quale statuto o principio la politica dovrebbe ‘assecondare’ le esigenze delle imprese? E quali esigenze? Tutte? E al di là degli effetti?
Quella missiva fece scuola, dettò una linea, mise a tacere le ragioni della natura, azzittì pure gli urbanisti, impressionò l’immaginario politico di tutti, imponendosi all’attenzione con un peso gigantesco al punto da non dare spazio al dibattito, ad altre possibilità. Messe così, le ragioni dell’ambiente rimangono il solito ‘di cui’ rispetto alle ‘nobili' ragioni finanziarie ed economiche, ancor più delle imprese private. Ricordiamo che nel passato, a furia di 'assecondare', abbiamo avuto disastri ambientali come Eternit a Casale Monferrato o Ilva a Taranto e ci siamo messi sulle spalle decine di Siti di interesse nazionale ad altissimo rischio sanitario che non sappiamo come fare a bonificare e che uccidono migliaia di persone. La questione ecologico-sanitaria oggi è ancora enorme e rimane un nervo scoperto della politica italiana. Secondo l’autore quel che è accaduto con la vicenda delle trivelle ha trovato sponda facile in un momento politico italiano nel quale, tra governo Monti e governo Renzi, si stavano distruggendo i corpi intermedi delle province, interrompendo il flusso di ragionamento politico dal basso (i Comuni) verso l’alto (le Regioni e lo Stato). In questo black-out si sono inseriti gli interessi delle aziende, della finanza, della speculazione che hanno cercato di fare man bassa e posizionarsi là dove sarebbe diventato poi difficile andarsene: la Val d’Agri, il Mar Adriatico, la Padania del petrolio. All’orizzonte il solito imbarazzante problema delle concessioni che lacera da anni questo Paese il quale, come anestetizzato, non ha mai generato degli anticorpi per correggere una storia che continua ad avvitarsi su se stessa. Prima le autostrade, poi le TV, poi l’uso del suolo e ora i giacimenti di petrolio. È sempre un tira e molla tra politica, concessione (che poi è uno degli atti con cui si 'asseconda') e interessi finanziari che ricattano la politica facendosi scudo con i posti di lavoro o manomettendo i concetti di libertà fino a far capitolare le istituzioni che alla fine cedono allo sfruttamento delle risorse sempre esauribili e sempre non rinnovabili. I cittadini entrano in fibrillazione perché questo Paese ha bisogno di lavoro e non sa raccontare ai suoi abitanti che il lavoro potrebbe esistere senza distruggere l’ambiente, ma anzi prendendosene cura. Se i suoi abitanti non sanno, stiamo certi che non chiedono. Se i loro rappresentanti non sanno o non capiscono, non si oppongono alle richieste delle big company… e così tutto torna al punto di partenza: con un nulla di fatto. I comuni, piccoli e ricattabili, non hanno armi per fare qualcosa di concreto e tutto si aggiusta distribuendo un po' di royalties che danno lustro all’urbanistica e al welfare del paese (su questo Lacorazza poteva dirci qualcosa di più delle mie intuizioni che si reggono su cronache giornalistiche). Tanti di questi giri e capogiri si trovano nel libro. Ma la questione di cultura ecologica, che poi secondo me è la vera falla del sistema politico e civile di allora e di oggi, nel libro scivola via senza lo spessore che mi sarei aspettato di trovare nella ricostruzione di una vicenda politica che aveva i piedi immersi nel petrolio, icona eccellente dell’inquinamento ambientale. Questo è un punto un po’ debole della narrazione di Lacorazza, secondo me. Ne ho parlato con lui a lungo, con franchezza, condividendo questa assenza che va a confermare un sospetto che, personalmente, nutro da tempo ma che, qui e ora, voglio tramutare in uno slancio positivo da cui ripartire più equipaggiati. In fondo i libri che accendono il dubbio sono sempre preziosi.
La politica, anche quella più battagliera sulle questioni ambientali, alla fine non ha costruito gli strumenti culturali di natura ecologica per condurre le battaglie che doveva vincere e che invece, spesso, ha perso. Se leggete il libro di Lacorazza avendo in tasca una laurea in legge o scienze politiche o una militanza politica tradizionale, fatta di procedure, norme e cavilli, voi non vedrete difetti nel cristallo delle sue pagine. La cronaca politica scorre fluida e apprezzerete, come ho apprezzato io stesso, il susseguirsi dei fatti assieme alla apprezzabile vicenda umana di Piero. Ma se voi rileggete il libro con in tasca una laurea in scienze ambientali o in climatologia quelle pagine, quelle stesse pagine, vi sembreranno vuote di quei contenuti importanti che sono le ragioni ecologiche, quelle che ti fanno vedere le cose in un altro modo, con un’altra urgenza. Cosa voglio dire. Da tanto tempo, con tante battaglie ambientali alle spalle (prima tra tutte quella ventennale sul consumo di suolo), noto che c’è un punto di interruzione nel flusso del racconto politico che è dovuto proprio alla mancanza di approfondita conoscenza di cosa è la natura come fatto in sé, senza interpretazioni politiche. Oggi, invece, occorrerebbe una maggiore padronanza degli argomenti ecologici per poter dare piena cittadinanza politica alla stessa questione ecologica. L'importanza vitale che hanno le risorse naturali necessita di solidi argomenti per sostenere le battaglie politiche. La natura è un fatto scientifico e non una opinione politica o una procedura giuridica interpretabile. Oggi, invece, il racconto politico scorre facendosi poche domande sulla natura e quindi non riesce a farsi vettore delle sue ragioni verso i cittadini. La politica torna alle sue abitudini e cerca prima di tutto un compromesso, una mediazione, spesso rinunciando a sapere cosa è il suolo, quali sono i veri danni ecologici in Val d’Agri e così via. Qui sta una falla strutturale che continua a far imbarcare acqua alla nave Italia, guidata da comandanti per la maggior parte non ben informati dei temi ecologici (diciamo così). Dobbiamo mettere mano presto a quella falla. La questione del petrolio in Basilicata non può essere una vicenda di pura grammatica procedurale o, secondo me, non doveva essere solo questo. Forse poteva anche esserlo. Ma quel che doveva far scattare nella politica era la consapevolezza della sua impreparazione ecologica e, quindi, la rincorsa ad attrezzarsi per poter reagire non con le sole armi del diritto, come Lacorazza racconta, ma (anche) con le armi degli argomenti ecologici. Forse così le cose avrebbero potuto andare in un altro modo.
Chissà come sarebbe finita la storia. Non lo sapremo mai. Pensate se la consapevolezza ecologica di quella storia avesse contagiato una parte politica al punto da farle accarezzare con convinzione e vigore l’idea di una transizione ecologica vera che dal sud risaliva al nord contagiando tutta la penisola. Che bello. Pensate che messaggio potente sarebbe stato un moto politico che, davanti alle trivelle in Val d’Agri, rispondeva con una politica regionale car-free. Che schiaffo, che lezione sarebbe stata per l’Italia. Ma questa cosa non è successa e non è certo colpa di Lacorazza. Piero, tuttavia, nel suo resoconto, pur scarno di certi argomenti, ci dà una preziosissima chiave di lettura che attiene l’urgenza di cambiare modo di fare politica a partire dalla formazione ecologica di chi vuole fare il sindaco o il governatore o il deputato. Si deve conoscere la Costituzione, certo, ma anche lo statuto della natura. Lo impone la crisi ecologica che stiamo attraversando. In qualche modo, leggendo in filigrana il libro, questi buchi vengono fuori. Possiamo prendere il libro come una specie di confessione involontaria di chi ha lottato come un matto (bravo!) ma senza usare gli strumenti delle tesi ambientali come si poteva (e doveva) fare. Di chi ha usato l’aiuto dell’accademico costituzionalista (bravo!), ma non si è domandato se poteva essere vincente anche l’aiuto del ricercatore in climatologia o in energetica o in urbanistica. Inconsapevolmente, Lacorazza ci lascia un racconto poroso che apre le porte a un dibattito il cui obiettivo deve essere quello di riempire quei pori vuoti da troppo tempo. Credo che quella di Alex Langer rimanga la lezione più attuale perché lui, che sintetizzava bene le due posizioni – ecologica e amministrativo/politica –, avrebbe forse fatto una simile osservazione leggendo questa narrazione e forse ne avrebbe tratto l'auspicio di dare alla politica la stampella mancante per camminare nella giusta direzione. Teniamoci dunque stretta la vicenda di Piero e della Basilicata. Impariamo dalle cadute e non mettiamoci nelle condizioni di compierle di nuovo. La sfida ecologica è quella che dobbiamo affrontare per non rimanere come ‘Re nudi’ che neppure sanno di esserlo.
Paolo Pileri
N.d.C. - Paolo Pileri, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica al Politecnico di Milano, è tra gli ideatori e animatori del progetto Vento: proposta di dorsale cicloturistica tra Venezia e Torino considerata parte integrante del sistema nazionale della ciclabilità turistica. Cura la rubrica 'Piano Terra' della rivista "Altreconomia".
Tra i suoi libri: Interpretare l'ambiente (Alinea, 2002); Compensazione ecologica preventiva (Carocci, 2007); con E. Granata, Amor loci: suolo, ambiente, cultura civile (Cortina, 2012); con A. Giacomel e D. Giudici, Vento: la rivoluzione leggera a colpi di pedale e paesaggio (Corraini, 2015); Che cosa c'è sotto: il suolo, i suoi segreti, le ragioni per difenderlo (Altreconomia, 2015 e 2016); 100 parole per salvare il suolo (Altreconomia, 2018); con A. Giacomel, D. Giudici, R. Moscarelli, C. Munno e F. Bianchi, Ciclabili e cammini per narrare territori. Arte design e bellezza dilatano il progetto di infrastrutture leggere (Ediciclo 2018).
Per Città Bene Comune ha scritto: Laudato si': una sfida (anche) per l'urbanistica (2 dicembre 2015); Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); La finanza etica fa bene anche alle città (3 novembre 2017); L'urbanistica deve parlare a tutti (21 settembre 2018); Udite, udite: gli alberi salvano le città! (9 novembre 2018); Contrastare il fascismo con l'urbanistica (21 marzo 2019); L’ossessione di difendere il suolo (e non solo) (25 ottobre 2019).
Sui libri di Paolo Pileri, v.: Bernardo De Bernardinis, Per una nuova cultura del suolo (28 ottobre 2016); Roberto Balzani, Suolo bene comune? Lo sia anche il linguaggio (12 ottobre 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 31 GENNAIO 2020 |