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Il bel libro di Carlo Cellamare Città fai-da-te (Donzelli, 2019), nel quale vengono presentate criticamente esperienze di autorganizzazione urbana nel contesto romano, sullo sfondo di una più generale riflessione sui movimenti di riappropriazione dei luoghi e degli spazi della città, invita innanzitutto ad uno sguardo paziente, a non affrettare i giudizi, a pensare prima di parlare (e di scrivere). È un invito che provo a seguire, pensando che prima di tutto, per poter commentare adeguatamente il testo, bisognerebbe conoscere davvero, e bene, le pratiche di autorganizzazione che racconta. Bisognerebbe essere stati al “giardino del Castruccio”, che come il susino di Bertold Brecht è un fazzoletto di terra soffocato dagli edifici, gestito da genitori volenterosi che cercano un po’ di spazio per far giocare i propri figli. Bisognerebbe guardare Roma “così lontana, così vicina” dalle finestre della biblioteca nel parco della Collina della Pace a Borgata Finocchio. Bisognerebbe aver frequentato la palestra occupata e gestita da SCuP all’Appio Tuscolano. Per non dire delle case occupate di Metropoliz o di Porto Fluviale, delle difficili iniziative culturali e sociali a Torre Spaccata o a Tor Bella Monaca, ma anche delle esperienze più note e di maggiore successo come il Teatro Valle Occupato, punto di riferimenti a scala urbana e oggi Fondazione.
Carlo Cellamare c’è stato, conosce queste esperienze da vicino, ha incontrato le persone che ne sono protagoniste, l’umanità che anima i luoghi e che vive o che vi sopravvive, qualche volta ai margini. Ha conosciuto le molte motivazioni che hanno spinto uomini e donne, ragazzi e anziani, italiani e stranieri a occupare appartamenti e immobili, ad autogestire giardini, a prendersi cura dello spazio pubblico, a promuovere imprese e inventare lavori, a fare teatro o cinema. Cellamare sa, e lo racconta con lucidità, che nelle traiettorie individuali e collettive, nei loro intrecci complessi e multiformi, si agitano “forme di vita” assai diverse, progetti di vita e progetti politici (p. 99 e sgg). Il desiderio e il bisogno spesso convivono in una soglia indistinguibile, in un processo in cui il bisogno può diventare desiderio, e il desiderio nutrirsi del bisogno.
Per tutte queste ragioni, il libro di Carlo Cellamare andrebbe inteso innanzitutto come una mappa di possibilità. Non come una guida turistica, attenzione. Il capitalismo mangia l’anima e, come racconta efficacemente Cellamare, molte delle storie di autorganizzazione urbana potrebbero facilmente essere fagocitate nella logica del capitale, del mercato, dell’innovazione sociale che si fa impresa. Qualcuna lo è stata, generando divisioni e conflitti. Dunque, come suggerito da Cellamare, la ricognizione delle storie romane (“Tra antagonismo e cittadinanza”) andrebbe intesa come una mappa che indica come accoppiare luoghi e strumenti, spazi e pratiche. Come definire “piattaforme del cambiamento”, con tutte le cautele e i distinguo del caso.
Da questo punto di vista il libro è esemplare, e per me convincente. Non si esime dal riconoscere i rischi, le contraddizioni, le ambiguità delle pratiche raccontate. Per quanto l’autore stia certamente dalla parte delle persone e delle esperienze che narra, per quanto faccia una scelta di campo decisa di chi non solo le conosce, ma in più di un caso vi partecipa direttamente, non le mitizza e non ne fornisce una immagine eroica e agiografica. Cellamare propone infatti di “confrontarsi con le pratiche” (legali e illegali) come condensati di possibili esercizi del pensiero, ma anche come campi d’azione concreta (p. 31). Si tratta di una postura per me decisiva. Prossima alle esperienze, ben radicata nelle pratiche, ma non vittima dell’ideologia, di una retorica che è spesso utilizzata anche nelle forme di auto-rappresentazione delle esperienze antagoniste e che talvolta mi appare insopportabile. Cellamare sa che i nodi cruciali (il rapporto con le istituzioni e la politica, la tentazione dell’impresa e del mercato, il rischio di supplire al ruolo degli attori pubblici) sono tutti sul tavolo, e sono ben presenti anche nelle riflessioni dei protagonisti più avvertiti.
I rischi, dunque. Il primo, il più evidente e il più pericoloso, è che la città fai-da-te offra i servizi che dovrebbero essere prodotti dall’attore pubblico, dallo Stato, dal Comune. In più momenti Cellamare denuncia questo rischio, associato alle retoriche dell’innovazione sociale. Certamente molte delle esperienze antagoniste narrate nel libro scelgono una interlocuzione conflittuale con le istituzioni; tuttavia, come giustamente si osserva, se le istituzioni non funzionano, e talora esplicitamente delegano alla società autorganizzata quanto starebbe in capo a loro, non si può aspettare. Allora costruire una offerta culturale autogestita, presidiare gli spazi collettivi in quartieri nei quali la presenza della criminalità inaridisce la vita, prendersi cura di giardini e parchi è un modo per poter vivere meglio, in quel luogo, in quel contesto, in quella congiuntura. Dunque, se da una parte possiamo affermare che il rischio di supplire al ruolo del pubblico è presente e incombe su molte esperienze autorganizzate, dall’altra dobbiamo dire che, laddove tali esperienze si facciano carico non solo di se stesse, ma del contesto più generale entro cui operano esse “sono” pubblico, producono “il pubblico”.
Tuttavia, le esperienze narrate da Cellamare sono così diverse che si fatica a comprendere a quali condizioni sia davvero possibile per le pratiche autorganizzate “farsi pubblico”. Da una parte, molte delle storie appaiono vicende di gruppi, più o meno piccoli, più o meno chiusi, che guardano innanzitutto a se stessi, alla propria sopravvivenza (messa a rischio anche dalla condizione di illegalità nella quale spesso versano). Il problema è come garantire la continuità nel tempo, come radicare le esperienze (siano esse quelle delle occupazioni abusive o quelle della autoproduzione culturale o di servizi). In questo senso, paradossalmente, i protagonisti delle storie, soprattutto coloro che le hanno avviate o guidate, sembrano correre il rischio dell’autoimmunizzazione, della definizione di sé a partire dal conflitto di identità con l’altro (il Comune, ma qualche volta anche il quartiere e i suoi abitanti). Il grado di effettiva apertura, intesa come permeabilità e porosità dei luoghi, delle pratiche, delle forme di condivisione, mi sembra essere la vera condizione alla quale l’antagonismo può contribuire a ridefinire la cittadinanza, il suo senso, le sue regole e i suoi limiti.
A Milano, così diversa da Roma, come ricorda opportunamente Cellamare, questo rischio di chiusura è ben visibile, anche nelle esperienze più creative e apparentemente più aperte. Il collettivo di Macao, asserragliato nelle palazzine liberty del macello oggi dismesso, fronteggia, dall’altra parte della circonvallazione, uno dei quartieri più complicati di Milano, il Molise Calvairate. Eppure, esperienze, pratiche e persone, divise da poche decine di metri, si ignorano deliberatamente. Come è possibile dunque “fare cittadinanza” se non si assume, dalla propria parte, “da parte a parte” e senza alcuna pretesa di incarnare il “bene comune” o l’interesse pubblico, una prospettiva generale? Se non ci si fa carico di chi è altro da noi, ma come noi, forse più di noi, è vittima delle ingiustizie e delle diseguaglianze?
Naturalmente, questo argomento non può essere mobilitato nei confronti di coloro che nelle storie antagoniste sono entrati per bisogno. Non riguarda l’occupante abusivo che, come Cellamare testimonia, dichiara che se avesse avuto la possibilità di accedere alla casa pubblica non avrebbe mai nemmeno pensato di occuparne una. Ma può invece diventare un terreno decisivo se l’istanza che muove è (e si autodefinisce) politica. Cellamare non lo fa, ma io mi sento di richiamare qui quanto quasi quarant’anni fa scriveva Alberto Melucci sulle pratiche di movimento nelle città, sul nesso tra movimento e produzione di identità, sulla natura dei conflitti che questi movimenti sono in grado di mettere in campo, dentro una crisi irreversibile delle forme tradizionali di intermediazione e rappresentanza che già allora era evidente. Che rapporto abbiano le storie di autorganizzazione urbana di Città fai-da-te con la politica è dunque problema complesso, che implicherebbe anche il venire in chiaro della nozione di politica e delle sue pratiche.
La politica, dunque, vera croce delle esperienze narrate nel libro e in fondo anche del quadro di riferimenti mobilitato dal testo di Cellamare. Nel capitolo conclusivo del libro l’autore ricapitola la sua lettura delle storie di autorganizzazione osservando che quest’ultima non è un’anomalia, ma un fatto strutturale del processo di riorganizzazione delle relazioni tra città e società. Ed è un fatto strutturale perché il pubblico ha per molti aspetti abdicato, per scarsità di risorse, burocratizzazione, mancanza di visione, assenza di intermediazione politica. È un fatto strutturale perché la politica è in una crisi terribile, forse irreversibile. In assenza di meccanismi efficaci di rappresentanza, a fronte dell’impoverimento della sfera pubblica, a valle della aridità delle pratiche di democrazia locale, ascrivere una pratica sociale alla “politica” appare quanto meno rischioso. Qui si gioca la vera partita difficile, di cui Cellamare è pienamente consapevole, tanto che scrive: «Il nodo problematico è quindi piuttosto se, dentro tale carattere strutturale dell’organizzazione, si dà spazio (e in che modo) al riconoscimento delle pratiche ordinarie esistenti e delle intenzionalità politiche che costituiscono spazi di autonomia, o se i condizionamenti conseguenti alle pressioni della società neoliberista e all’arretramento del welfare diventano prevalenti» (p. 150). La stessa autorganizzazione, dunque, può avere segno diverso; può facilmente piegarsi alla logica del mercato, come l’economia dello sharing e delle piattaforme dimostra ogni giorno.
Si tratta dunque di intensificare la politicizzazione di queste esperienze? Cellamare sembra crederlo, tanto che dichiara esplicitamente che «la politica, l’idea di città e la cultura politica costituiscono la discriminante» (p. 151). Io non ne sono sicuro. Forse, più che di politicizzazione, bisognerebbe parlare di socializzazione, ossia di strategie, pratiche e dispositivi (agiti sia dai protagonisti/antagonisti, sia dalle istituzioni) che permettano di aprire queste esperienze ad altre forme di vita, ad altri bisogni e ad altri desideri. Perdendo identità e purezza, ma anche lasciandosi maggiormente contaminare, in un gioco tra istituzionalizzazione e autonomia che deve essere lasciato aperto.
Mi piacerebbe immaginare non tanto un coordinamento tra le esperienze e le pratiche (sempre terribilmente difficile, come Cellamare ricorda e forse francamente inutile), quanto la costituzione, locale e contestuale, di nuovi assemblaggi tra pratiche di diversa natura (la gestione dello spazio verde e l’occupazione del teatro abbandonato; ma anche la storica polisportiva di quartiere e forse perfino l’oratorio…). Lavorando sulla soglia legale/illegale attraverso una rinegoziazione continua, accettando la necessità di introdurre logiche di mercato e manageriali nel momento in cui si intende mettere a valore quanto si fa, ma anche garantire un (buon) lavoro a tante e a tanti. Lavorando istituzionalmente non tanto per “sanare”, quanto per riconoscere: rappresentazione prima e oltre la rappresentanza. Mi rendo conto delle difficoltà di una prospettiva di questa natura, che sembra impoverire la carica antagonistica delle storie. Tuttavia, la risocializzazione, la costruzione di nuovi assemblaggi locali non può che essere l’altra faccia di una piena assunzione di responsabilità dell’azione pubblica, soprattutto nei confronti dei più fragili, dei più poveri, dei più deboli, degli ultimi. Uomini e donne che difficilmente troveremo a fare teatro nei centri sociali, anche se magari per disperazione occupano abusivamente un appartamento pubblico. Uomini e donne per i quali la moralità del welfare chiede un impegno diretto, politiche adeguate di sostegno al reddito, una casa.
Più stato e più società, più istituzione e più autorganizzazione. La separazione tra i poli di queste coppie ha portato ad una condizione nella quale ogni alleanza appare difficile e le diverse solitudini la fanno da padrone. Sono certo che il libro di Carlo Cellamare possa essere una fertile sollecitazione a pensare in questa direzione e più in generale a immaginare le relazioni tra pratiche sociali, istituzioni e politica nella città che viene.
Gabriele Pasqui
N.d.C. Gabriele Pasqui, professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. Attualmente è responsabile scientifico del progetto di ricerca sulle Fragilità territoriali.
Tra le sue pubblicazioni: Territori: progettare lo sviluppo. Teorie, strumenti, esperienze (Carocci, 2005); Progetto, governo, società: ripensare le politiche territoriali (F. Angeli, 2005); con Pier Carlo Palermo, Ripensando sviluppo e governo del territorio. Critiche e proposte (Maggioli, 2008); con Simonetta Armondi e Paola Briata, Qualità dell'abitare e nuovi spazi pubblici. Esperienze di rigenerazione urbana a Cinisello Balsamo (Maggioli, 2008); con un contributo di Marianna Giraudi e Anna Moro, Città, popolazioni, politiche (Jaca Book, 2008); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli (a cura di), In movimento: confini, popolazioni e politiche nel territorio milanese (F. Angeli, 2008); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno: interpretazioni e prospettive (Recs, 2010); con Arturo Lanzani, L'Italia al futuro: città e paesaggi, economie e società (F. Angeli, 2011); con Matteo Bolocan Goldstein e Silvia Botti (a cura di), Nord Ovest Milano. Uno studio geografico operativo (Electa, 2011); (a cura di), Piani strategici per le città del Mezzogiorno. Interpretazioni e prospettive (Nuova Grafica Fiorentina, 2011); con Alessandro Balducci e Valeria Fedeli, Strategic Planning for Contemporary Urban Regions. City of Cities: a Project for Milan (Ashgate, 2011); Urbanistica oggi. Piccolo lessico critico (Donzelli, 2017); con Paola Briata e Valeria Fedeli (a cura di), Le agende urbane delle città italiane, secondo rapporto sulle città di Urban@it (Il Mulino, 2017); La città, i saperi, le pratiche (Donzelli, 2018), con Carlo Sini, Perché gli alberi non rispondono. Lo spazio urbano e i destini dell’abitare (Jaca Book, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Pensare e fare urbanistica, oggi (26 febbraio 2016); Come parlare di urbanistica oggi (8 giugno 2017); I confini: pratiche quotidiane e cittadinanza (11 gennaio 2019).
Sui libri di Gabriele Pasqui, v.: Maurizio Carta, Nuovi paradigmi per una diversa urbanistica (17 gennaio 2019); Domenico Patassini, Urbanistica per una città plurale (18 luglio 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 21 FEBBRAIO 2020 |