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ADDIO A VITTORIO GREGOTTI


Ci ha lasciato un maestro dell'architettura



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Ieri ci ha lasciato un amico della Casa della Cultura. All’età di 92 anni si è spento a Milano Vittorio Gregotti, maestro dell’architettura italiana. Architetto, urbanista, designer, saggista e docente universitario, Gregotti è stato un raffinato e intelligente protagonista della cultura architettonica italiana dal secondo dopoguerra – quando inizia la sua attività professionale con Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino (“un terzetto – ricorda Meneghetti – che operò per un nuovo senso e utilità sociale della modernità in architettura e urbanistica”) – fino ai giorni nostri.

Nato a Novara nel 1927, laureatosi al Politecnico di Milano, allievo di Ernesto N. Rogers, Gregotti si forma nell'humus della modernità architettonica e urbanistica, anche incontrando alcuni dei suoi esponenti principali (Gropius, Van de Velde, Le Corbusier, Mies Van der Rohe). Poi affronta – ci ricorda Pierluigi Panza nell’edizione online del “Corriere” di ieri – il postmoderno, schierandosi “dall’altra parte della barricata, con l’amico Umberto Eco a fare da tramite tra il mondo dell’impegno a sinistra e quello della fine dei grandi récit, del disimpegno postideologico, dell’affermarsi dell’immagine e dell’ermeneutica sulla ragione, della riduzione del disegno industriale (e poi dell’architettura) a fatto “di moda”, esercizio stilistico, merce di consumo, brand” (P. Panza, “Corriere della Sera” online, 15 marzo 2020). Infine approda agli anni della globalizzazione la cui cultura “solo economica e supertecnica – scrive lo stesso Gregotti nel 2017 – sembra nei nostri anni fatale e vincente, con la deformazione mercantile che la alimenta, per mezzo di una travolgente comunicazione persuasiva immateriale, le dipendenze dal sistema dei poteri finanziari, con il tramonto dell’era industriale e delle relative organizzazioni sociali e culturali” (V. Gregotti, “Corriere della Sera”, 2 marzo 2020. Un sentiero accidentato che Gregotti – Accademico di San Luca dal 1976 (dopo aver curato la Biennale di Venezia dell’anno precedente) e di Brera dal 1995 – ha percorso semplicemente facendo l’architetto senza mai dimenticare la dimensione civile di questo mestiere che ha instancabilmente praticato con gli strumenti del progetto, della riflessione critica, dell’insegnamento.

Tra gli anni cinquanta e la prima decade del nuovo millennio, ha disegnato – soprattutto con lo studio Gregotti Associati, fondato nel 1974 con Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui e Bruno Viganò e chiuso nel 2017 perché ebbe a dire lui stesso «l’architettura non interessa più a nessuno» – opere di architettura in Italia e nel mondo misurandosi con il tema della residenza (a Novara, Milano, Venezia, Berlino); dell’università (a Palermo, Milano, Napoli e Arcavacata in Calabria); delle grandi infrastrutture sportive (a Barcellona, Genova, Nîmes e Marrākesh); di musei e centri culturali (a Bergamo, Orosei, Firenze, Lisbona), del teatro (a Milano con il Teatro degli Arcimboldi e a Aix-en-Provence con il Teatro dell’Opera), dell’architettura religiosa (a Bergamo). Ha praticato il progetto urbano disegnando quartieri (il controverso Zen a Palermo; la Bicocca a Milano, l’area di Pujiang, Shanghai) e intere città: il suo piano regolatore per Torino è forse uno dei più noti. Progetti che insieme a moltissimi altri –impossibile citarli tutti – abbiamo rivisto qualche anno fa in una grande mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano che celebrava i suoi novant’anni di età e sessanta di carriera.

Gregotti ha poi diretto periodici rilevanti nel dibattito architettonico e urbanistico italiano ("Rassegna" e "Casabella"), pubblicato decine di articoli (nelle riviste specializzate e nell’ambito di una quarantennale collaborazione con il “Corriere della Sera"), curato e scritto moltissimi libri avventurandosi nella riflessione critica su tutte le scale del progetto e su molte altre forme di espressione artistica. Tra questi, ricordiamo: Il territorio dell'architettura (Feltrinelli, 1966); Orientamenti nuovi nell'architettura italiana (Electa, 1969); Il disegno del prodotto industriale (Electa, 1982), Questioni di architettura (Einaudi, 1986); Cinque dialoghi necessari (Electa, 1990); Dentro l'architettura (Bollati Boringhieri, 1991); La città visibile (Einaudi, 1993); Le scarpe di Van Gogh (Einaudi, 1994); Recinto di fabbrica (Bollati Boringhieri, 1996); Racconti di architettura (Skira, 1998); Identità e crisi dell’architettura europea (Einaudi, 1999); Diciassette lettere sull'architettura (Laterza, 2000); Sulle orme di Palladio (Laterza, 2000); Architettura, tecnica, finalità (Laterza, 2002); L'architettura del realismo critico (Laterza, 2004); Autobiografia del XX secolo (Skira, 2005); L'architettura nell'epoca dell'incessante (Laterza, 2006); Contro la fine dell'architettura (Einaudi, 2008); Tre forme di architettura mancata (Einaudi, 2010); L'architettura di Cézanne (Skira, 2011); Architettura e postmetropoli (Einaudi, 2011); Incertezze e simulazioni (Skira, 2012); Il sublime al tempo del contemporaneo (Einaudi, 2013); Il possibile necessario (Bompiani 2014); Viaggio nell'idea di bellezza (Arel, 2014); Quando il moderno non era uno stile (Archinto, 2018).

Infine, Vittorio Gregotti ha insegnato nelle università di Palermo, Venezia, al Politecnico di Milano e, per brevi periodi, anche in Giappone, Stati Uniti, Argentina, Brasile e Regno Unito. Agli studenti suggeriva ciò che lui stesso intendeva praticare ovvero che non è così necessario essere originali o avere un linguaggio particolarmente espressivo ma che bisogna saper fare tesoro del contesto. Insisteva sull’importanza della cura del particolare, della politica come visione della società e dunque dell’architettura e della città. E soprattutto consigliava di non fare rumore. “Regola principale per chi si mette a progettare – aveva sostenuto nel 2014 con gli studenti della OC International Summer School del Politecnico di Milano – è fare silenzio intorno, per essere attenti e quindi più capaci di vedere il piccolo tra le cose”.


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16 MARZO 2020