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Il testo La Via della Seta bolognese, di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi (Minerva 2019), non è solo lo spaccato della storia di una città in uno specifico periodo storico. È soprattutto un esempio di politica economica urbana molto efficace che mette in luce, oggi che ce ne siamo dimenticati, quanto la “geografia” – ovvero la collocazione di una città in un determinato territorio – possa contribuire al suo sviluppo economico e sociale. Ma soprattutto fa emergere quanto intraprendenza, innovazione e lungimiranza pubblica siano doti fondamentali senza cui è improbabile che una società prosperi nel lungo periodo.
Verso la metà del 1300 alcuni artigiani dediti alla lavorazione della seta furono costretti per ragioni politiche ad abbandonare Lucca e si disseminarono in varie zone dell’Italia settentrionale. A Bologna – ci raccontano Bottino e Foschi – non solo furono ben accolti, ma la città favorì l’insediamento e lo sviluppo delle loro attività, avendo intravisto che la produzione della seta avrebbe potuto arricchirne l’economia. Nello stesso periodo anche molti lavoranti della lana si trasferirono a Bologna, attratti dalla ricchezza della città che, molto frequentata da stranieri (studenti, ma non solo), appariva un mercato ricco e in continua espansione. Anche a questi, con una lungimiranza che oggi fatichiamo a ritrovare nel nostro Paese, fu riservato lo stesso trattamento. Insomma, persone, competenze, tecniche venute da altrove furono intelligentemente integrate nel contesto economico e sociale per rendere più vitale e florida la città.
Il volume si occupa specificatamente dell’industria della seta: gli autori ne ripercorrono la storia dalla sua prima importazione dalla Cina (intorno al 200 a.c.) focalizzandosi sul suo sviluppo nella città felsinea. Ma la cosa che mi pare più rilevante di questo lavoro – quella per cui ho deciso di scriverne in questa rubrica – è l’illustrazione delle politiche messe in atto dalle autorità cittadine per facilitare l’insediarsi di questa produzione e l’ambiente innovativo che quegli artigiani trovarono in questa città. A chi, costretto a fuggire da Lucca, immigrava a Bologna con l’intenzione di costituire un’impresa il Comune – da sempre accogliente verso chi immigrava in città e intraprendeva attività economiche e commerciali – garantiva in dono un “tiratorium” (ambiente adatto ad asciugare il prodotto finito) e due telai. Offriva, in uso gratuito per otto anni, la casa e la bottega. Concedeva un mutuo a zero interesse per cinque anni: 50 lire bolognesi che dovevano servire per le spese di impianto, l’acquisto dei materiali necessari, il mantenimento della famiglia. Infine, cosa non secondaria, concedeva la cittadinanza e l’esenzione delle imposte per quindici anni.
Come si può constatare si trattò di una politica articolata e complessa, che anni prima era stata sperimentata nei riguardi degli operatori della lana veronesi, anche se – secondo gli autori nel volume – “di gran lunga più importante per la città fu la migrazione lucchese della seta”, come per altro sembrano testimoniare, seppur con qualche dubbio, alcune tracce lasciate nella toponomastica cittadina (per esempio, via Capo di Lucca). L’ottica delle autorità comunali non fu solo quella di espandere le attività economiche della città, ma soprattutto quella di acquisire e sviluppare nuove tecnologie. Su quest’ aspetto gli autori insistono molto e mettono anche in evidenza che se da una parte i setaioli trasferivano nuove conoscenze, dall’altra la stessa produzione poté godere di innovazioni tecnologiche che ne aumentarono notevolmente la resa. È qui che il legame tra produzione e infrastrutturazione urbana e territoriale (e dunque lungimiranza pubblica) si fa più stringente perché queste innovazioni erano legate alle vie d’acqua. È infatti proprio la struttura dei canali bolognesi a fare da acceleratore alla produzione della seta. Bologna e il suo territorio, infatti, erano solcati da una vera e propria rete di vie d’acqua che permetteva ai bolognesi di raggiungere il mare: “proprio dall’acqua il mondo di quei tempi prese la forza di riattivare il commercio e l’economia, applicando il proprio ingegno nel costruire canali in sostituzione alle strade (…). La Via della Seta bolognese – scrivono Bottino e Foschi – fu quindi soprattutto una via d’acqua, attraverso quei canali che lo spirito imprenditoriale della città aveva costruito partendo dal Reno: il canale di Reno, il canale Navile, il Po”. L’imbarcazione maggiormente utilizzata per il trasporto lungo questi canali era il “burchiello” che veniva trainato da un cavallo che seguiva un sentiero parallelo al canale stesso. Per comprendere l’importanza del trasporto via acqua si noti che, nello stesso periodo, un “biroccio” trainato da un cavallo lungo le strade non solo impiegava più tempo ma poteva trasportare solo 15 quintali di merce contro i 90 del “burchiello”. E tutto un mondo di trattorie, di posti di sosta, ecc. si organizza lungo questi percorsi dando quasi vita a una civiltà parallela.
Per la nascente industria della seta bolognese, tuttavia, i canali non furono soltanto una via di comunicazione efficiente sul piano del costo e rispetto alla possibilità, attraverso Venezia, di raggiungere i più importanti mercati europei. È da questi, infatti, che scaturisce una rilevante innovazione tecnologica volta allo sfruttamento della forza dell’acqua come forza motrice per muovere i filatoi. Infatti, “in questa città – osservano gli autori – si conosceva da secoli l’uso dell’acqua dei canali di Reno e di Savena per muovere i mulini da grano” e trasferendo questo sistema alla produzione della seta si ottenne un grande risparmio di forza lavoro e un aumento della velocità di lavorazione. Insomma, un importantissimo aumento della produttività che fece lievitare il benessere collettivo. Fino alla fine del Trecento le “ruote idrauliche” erano collocate lungo il percorso dei canali, ma il Comune, per aumentare il potenziale produttivo, concesse per fini industriali la derivazione dell’acqua dai canali. Ciò avveniva attraverso le “chiaviche”, condotti con portata d’acqua modesta ma tale da sviluppare la “forza motrice” necessaria e sufficiente per la nascente industria della seta. Tali condotti sotterranei vennero indirizzati nelle cantine degli edifici industriali dove erano collocati i macchinari che la forza delle acque faceva così muovere e lavorare attraverso le ruote idrauliche. Sulla base di questa prima innovazione se ne svilupparono altre, come l’organizzazione dell’edificio industriale, l’uso di “rocchelle” per la torsione del filo, e altre ancora su cui non è necessario soffermarsi. Tutte attività che liberavano mano d’opera che attivava nuovi filatoi in un processo di crescita continua che ancor oggi avrebbe molto da insegnarci.
Oltre che praticare l’accoglienza delle nuove attività produttive e investire in infrastrutture innovative, il Comune di Bologna mise in atto provvedimenti per difendere questa industria, per esempio, attraverso il controllo del mercato dei bozzoli. Ed è grazie a questa pluralità di azioni pubbliche che quella della seta bolognese diventò in un tempo relativamente breve una delle principali industrie della città rifornendo i mercati internazionali. Alla fine del ‘600 erano presenti a Bologna più di 300 impianti che impiegavano più di 25.000 “uomini, donne, bambini e zitelle” (si tenga conto che gli abitanti di Bologna nel periodo non supervano i 60.000).
Come si è fatto cenno all’inizio, questo testo pare importante perché riesce a cogliere e ad evidenziare alcuni aspetti importanti di politica economica urbana, sia sul piano strettamente economico sia su quello che potremmo chiamare della costruzione di un ambiente tecnologico e sociale adatto allo sviluppo. Gli autori sottolineano a più riprese l’importanza della moltiplicazione delle conoscenze attraverso lo scambio tra popolazioni con culture e tradizioni differenti, con esperienze produttive nuove, con tecnologie prima sconosciute. Si trattò, in altri termini, di un processo di costruzione di un ambiente favorevole allo sviluppo economico fondato sull’innovazione, non soltanto sulla ripetitività di approcci già sperimentati. Soprattutto si trattò di un processo in cui l’immigrazione non venne considerata una forma di invasione, una possibile sottrazione di benessere collettivo, ma come una risorsa dalle enormi potenzialità. Ciò che – a giudizio di chi scrive – appare di grande rilievo non è dunque solo la capacità di accoglienza, ma anche la volontà di favorire i nuovi arrivati nel momento in cui si adoperano per creare nuove attività.
Bologna diventa un centro d’innovazione. La seta bolognese esplode a livello mondiale, del mondo di allora, sia con i veli leggerissimi sia con i tessuti di maggior consistenza. Quello bolognese fu un prodotto ricercato nelle grandi piazze di Parigi, di Amsterdam, ecc., dalla nobiltà e dalla borghesia dell’epoca e diventò un elemento di distinzione (molto più di quella di Lucca da cui prende le mosse). Il libro di Pier Luigi Bottino e Paola Foschi è, tenendo conto della materia che affronta, accattivante e leggero. Le numerose illustrazioni che lo arricchiscono e lo rendono prezioso aiutano le parole a rendere viva la narrazione. Ma soprattutto, questo libro ci insegna che è nell’integrazione, nell’innovazione e nell’investimento pubblico che si trova la ricetta della prosperità.
Francesco Indovina
N.d.C. - Francesco Indovina, già professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica all'Università IUAV di Venezia, dal 2003 insegna alla Scuola di Architettura di Alghero (Università degli Studi di Sassari). Da sempre è fautore di un approccio interdisciplinare agli studi sulla città e il territorio coniugato a un saldo impegno civile. È autore di numerose pubblicazioni e ha fondato e diretto i periodici "Archivio di studi urbani e regionali" e "Economia urbana" (già "Oltre il Ponte"); dirige inoltre la collana di Studi urbani e regionali edita da FrancoAngeli.
Per Città Bene Comune ha scritto: Si può essere "contro" l'urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione "antifragile": problema aperto (23 giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e politica (24 novembre 2017); Non tutte le colpe sono dell'urbanistica (14 settembre 2018); Che si torni a riflettere sulla rendita (8 febbraio 2019); Un giardino delle muse per capire la città (4 ottobre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 20 MARZO 2020 |
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