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Ci sono libri veramente contemporanei. Abitare la differenza. Il turista e il migrante (Donzelli, 2019) di Antonio di Campli è uno di quelli. Non solo per la ‘rilevanza’ della figura della mobilità e della centralità dell’abitare, raccontata da uno sguardo complice e situato tra le pieghe del quotidiano, ma anche contemporaneo nell’accezione agambeniana di scarto, di un non-perfetto allineamento. “Appartiene veramente al suo tempo – scrive Agamben –, colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (2008:9). Ed è proprio in questo scarto che il lavoro di Antonio di Campli si situa perché “capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo» (p. 9). Un tempo afferrato offrendo narrazioni delle trasformazioni di un territorio, dei suoi progetti ed una sorta di pluriversita’ di punti di enunciazione non fissati nel luogo e nella sua reificazione. Un libro ben scritto, con molteplici chiavi di interpretazione e diversi stili, impreziosito da una elegante, come sempre, prefazione di Cristina Bianchetti. Un libro che crea uno scarto spaziale e temporale ed apre, a mio avviso, una strada importante per il progetto urbano contemporaneo. Una strada tutta da tracciare ancora, nell’incertezza della disciplinarietà, della postura e della arroganza del progetto: la decolonialità, termine che non è un refuso ma è scelto coscientemente. Come nelle parole di Rachele Borghi (2020) “decolonializzare significa, allora, condividere pratiche di decolonialita’ e crearne collettivamente i territori […] si tratta di creare le condizioni perché punti di vista diversi possano moltiplicare i luoghi di enunciazione” (p.38-39). Abitare la differenza ci restituisce le immagini plurime di un luogo a partire dalle pratiche, dell’abitare in questo caso, nella loro radicale immanenza. Accanto e contro i dualismi rappresentativi della violenza epistemologica del progetto urbanistico europeo della modernità e dei suoi luoghi (pertanto coloniale) di Campli lascia emergere pratiche spaziali espressive, puntuali, localizzate che trovano la loro significanza e pertanto contemporaneità “nel sottrarsi alla trascendenza normativa implicita nella rappresentanza che viene avvertita come tradimento, cattura, violenza delle differenze esistenziali” (Bazzicalupo, 2019:75)
di Campli situa le figure della modernità del migrante e del turista non solo nello scenario del dibattito globale e transnazionale in una sorta di sociologia della mobilità ma ne traccia il loro ruolo di produzione dello spazio urbano in quanto “queste […] sono tra le forze più potenti di trasformazione delle citta e dei territori” (29) e pertanto in grado di mettere in crisi il discorso urbanistico dei luoghi e dei suoi palinsesti suggerendo che “i luoghi attraversati dl turismo e dalla migrazione transnazionale sono tra i contesti più favorevoli per indagare […] pratiche di negoziazione dello spazio, strategie di coabitazione tra più soggetti e collettivi” e pertanto geografie privilegiate per osservare “le pratiche dell’abitare nella differenza” (29). Immergendosi nella densità e nella viscosità della materialità degli spazi e dei corpi con le loro storie, traiettorie ed azioni, di Campli ci offre una serie di immagini plurime sul progetto senza centri ne periferie dove la mobilità, anche se non quella iperpolitica dell’attualità, trascende le categorie dominanti, ordinante e binarie del luogo e del progetto del luogo.
Abitare la differenza riflette su fenomeni spaziali “legati alla sovrapposizione tra pratiche del turismo e della migrazione, descritti attraverso concetti di predation, extrative tourism e remittance urbanism” (p.87) e riporta alle figure di “spazi annidati, spazi soglia, paesaggi colloidali” come “morfologiche, plastiche. Non strutturali. Ne metaforiche. Tantomeno funzionali” (p.12) ci ricorda Cristina Bianchetti nella prefazione e che “nel contempo catturano l’improvvisazione delle pratiche, i processi informali e gli imprevisti” (p.13). Abitare la differenza è un interessante riflessione attorno ad un tema caro a chi scrive per una serie di ragioni che, sinteticamente potrebbero essere riassunte con il divenire e specialmente il divenire-urbano nella sua pluralità, all’interno della quale convivono differenze, dove vivere insieme non è una scelta ma una dimensione inevitabile in cui corpi coesistono negli spazi segnati dai limiti materiali della città e del territorio.
Le dinamiche transnazionali delle migrazioni residenziali e turismo vengono osservate, portate alla luce dall’osservatorio privilegiato di Vilcabamba, un piccolo pueblo andino nel cantone di Loja nel sud dell’Ecuador. Qui luoghi eminentemente rurali e marginali vengono trasformati da pratiche spaziali derivate dai complessi processi di immigrazione e emigrazione che lo stesso autore definisce come “zone di contatto tra diversi soggetti, economie e desideri” (p. 31) che prendono forme, di pensiero e spaziali, “anti-conquista” (p. 31). Adottando i concetti “di extractive zone e remittance urbanism, produzione e predazione restituendo una rappresentazione spaziale dei modi in cui alcune pratiche migratorie e del turismo residenziale hanno riconfigurato Vilcabamba come una composizione di paesaggi estrattivi e paesaggi delle rimesse. Una zona di contatto tra più soggetti, immaginari ed economie” (p.84) spazialmente tenuti insieme da “un legante viscoso” (p.84).
I riferimenti che l’autore svela sono molteplici e certamente afferenti ad una dimensione necessariamente critica dell’urbanistica e del progetto con un tentativo di sprovincializzare ed espandere le geografie non solo della ricerca, ma delle stesse sue coordinate intellettuali. Alle letture spaziali e di derivazione geografico-territoriale degli assemblages, di Campli aggiunge ispirazioni antropologiche tratte da Viveros de Castro, dagli studi culturali con Eduard Glissant e l’immancabile e quanto mai necessario riferimento a Giles Deleuze a suggerire una mossa di “minorazione” (p.32). Non una rinuncia, una ritirata in altre discipline, modelli o pratiche, o geografie, ma al contrario come una tonalità di potenza, una etica che ricodifica, rielabora e sovverte le categorie chiave del progetto (interno/esterno, pubblico/privato, funzione/uso, ignoranza/conoscenza) indeterminandole non svuotandole ed appiattendole ma creando uno scisma una cesura nelle ecologie delle pratiche che costituiscono l’urbano liberandone potenzialità, alternandone le valenze ricentrando le relazioni con la diversità, con l’indistinto, con il complesso, con il meticcio esplorando divergenze e aprendo a possibili dissonanze.
Queste dissonanze, queste variazioni di tono sono strutturali nella costruzione del testo che ci viene offerto da di Campli attraverso “annidamenti ed attraversamenti” dove diverse narrazioni punti di vista si intrecciano a susseguirsi come “annidati” nel quale una serie di biografie offrono al lettore un punto di vista situato, grounded in qualche modo, presentando una serie di vite e corpi stranieri insediati in Vilcabamba che diventa per loro, “al tempo stesso accogliente e indifferente” (p.32) dove la loro vita “dipende dal mantenimento di una fragile linea di galleggiamento, da un equilibro, tra desideri, doveri, e realizzazioni”. Martha, Mauro, Annelick, Roshni e Zia Parker, Brian, Chandrigha e Mofwoofoo diventano le voci del territorio andino che si modifica e si trasforma. Sono vite annidate che tracciano e producono spazi quotidiani, spesso invisibili alle grandi narrazioni del progetto della modernità. Sono voci opache che si fanno spazio e tessono pratiche “in cui si sovrappongono immaginari e desideri provenienti da luoghi distanti” (p.33) risultato di “innumerevoli strategie individuali intese come opzioni all’interno di campi di possibilità, spinte da sentimenti, credenze e motivazioni che hanno in sé i caratteri del progetto e quelli della necessità (p.33).
Al centro del libro, il turismo residenziale, un termine che lo stesso autore sente problematico, ma al contempo fertile per identificare le tensioni “in cui si sovrappongono forme di mobilità orbitali tra più contesti, speculazioni economiche di breve periodo e la manifestazione di strategie dell’abitare che hanno a che fare con progetti di auto-realizzazione e di ricerca della buona vita” (p. 36). Queste traiettorie fatte di corpi e spazi, di pensieri e di pratiche, di desideri e di immaginari in Vilcabamba prendono le forme di “un progetto implicito, un progetto-palinsesto inteso come l’insieme di descrizioni territoriali, interpretazioni ed azioni di trasformazione esercitato da una trama composta da turisti-migranti, attivisti, eco-istituzioni, scuole, artigiani, intellettuali, artisti” che nonostante la loro disconnessione “producono azioni sostanzialmente coerenti” (p. 37). Processi che risignificano Vilcabamba come una periferia fatta di “spazi annidati, introversi, d’interni protetti collocati dentro paesaggi colloidali dove altri materiali urbani ed ecologie socio ambientali, si tengono insieme” (p.38) tenuti insieme e resi abitabili da “precisi dispositivi spaziali” che operano come “soglie” (p.38). Ed è qui che nell’analisi spaziale di questi territori colloidali che di Campli offre e sperimenta una quanto mai necessaria sprovincializzazione abbandonando la facile tentazione di adottare epistemologie proprie della modernità europea e della sua visione funzionalista e normativa del progetto, e lasciandosi affascinare da nuove epistemologie spaziali pluriversali: exractive zones (Gomes-Barriz), remittance urbanism (Lynn Lopez) e predation che, a parte quest’ultimo originato dal lavoro di Viveros de Castro ben tradotto in Italia, non sono ancora state catturate dalla accademia italiana, ne hanno visto una addomesticamento semantico, che ne riduca la loro forza interpretativa. In questa sorta di displacement epistemologico si trova a mio avviso la vera novità del lavoro di Antonio, anche se un po’ timidamente posso dire, Antonio traccia una vera necessaria riflessione metodologica ed etica situandola nell’orizzonte più ampio di una necessaria decolonizzazione dell’urbanistica (che per chi scrive è piu decoloniare) e dell’architettura capace di riappropriarsi di un pense autrement del territorio nelle pieghe della sua materialità, discorsi e pratiche. Elemento sul quale ritornerò sul finale di questo testo.
Ne Il luogo, i soggetti di Campli non solo situa e descrive brevemente il territorio di Vilcabamba nella sua evoluzione storico geografica ed economica, ma soprattutto evidenza i tratti di luogo di arrivo di flussi migratori provenienti da Europa e Stati Uniti (5200 abitanti nel 2017 con circa 1200 stranieri) e ne traccia in parte le diversità costituenti. Con la terminologia di “expressive expatriates” di Campli sottolinea che le varie tipologie di turisti residenziali insediatisi a Vilcabamba “rifiutano gli stili di vita e produttivi propri dei loro paesi d’origine cercando in particolare di eluderne i regimi di moralità attraverso la partecipazione a una cultura cosmopolita segnata da un individualismo espressivo ricercato prevalentemente attraverso pratiche neo-rurali e meditative” (p.47) dove “tentano di offrire di se rappresentazioni lontane da quella del turista tradizionale” (p.48) lavorando molto su comportamenti individuali “marcati da precisi modelli di auto-modellamento e ricerca di un etica del se che cerca di opporsi ai regimi dominanti del biopotere” (p.48).
In una sorta di auto-esclusione e ricerca dell’esotico, esoterico e dell’alternativo etico, l’expressive expatriate diventa una figura continuamente mobile nello spazio e attraverso scale diverse. In questa continua ricerca di nuovi paesaggi e modi di vivere “il mondo acquisisce una visione frammentata e la mobilita diventa non solo un mezzo per la loro riproduzione di uno stile di vita, ma una vera e propria pratica contro-egemonica”; questa dimensione specifica dell’alterità porta secondo di Campli alla definizione ed alla sperimentazione di una specifica sensibilità spaziale “un sentire interiore” che territorializza nella periferia andina “pratiche produttive e dell’abitare neo-rurali, attività meditative, protezione ecologica” importate dalla metropoli e diventano “idee fuori luogo” (p.50) diventano presto centrali alla produzione del territorio e della vita di Vilcabamba dove “la dialettica della liberazione e contestazione viene permanentemente rimessa in azione, dovendo periodicamente rinnovarsi attraverso la ricerca di spazi, luoghi e tempi diversi in una paradossale consonanza con la logica capitalista del consumo e della riproduzione” spostandosi dall’essere antagoniste diventando complici di un sistema di estrazione di valore capitalista. Le biografie di Mauro Galletta, veneziano taoista ex venditore di pesce, convertito all’agricoltura da quando a Vilcabamba e Brian O’Leary ex fisico astronauta della Nasa che insieme alla moglie a Vilcabamba ha creato Montesuenos, un centro educativo spirituale, ben rappresentano l’aporia del fatto che “più le controculture catturano il sentimento di alienazione e anomia del moderno, quanto più indirettamente servono il capitale” (p.51).
Il capitolo III sposta l’attenzione sulle trasformazioni spaziali e la modificazione del mercato edilizio e fondiario che avvengono a Vilcabamba che modificano il territorio e le attività agricole rurali (sia nella strategia di investimenti immobiliari e unità nel centro di Loja da affittare come residenze o spazi commerciali, sia nella versione di costruire seconde case a Vilcabamba ed affittarle a stranieri). Qui il testo si fa più concreto, e di Campli scende nella materialità dei processi di spazializzazione raccontando con dettagli i materiali, le tecniche e le forme che contornano le pratiche dell’abitare di questi spazi annidati, evidenziando la sovrapposizione di due tipologie di paesaggi: quelle delle rimesse che caratterizzano quei luoghi e spazi generati dall’investimento “di soggetti emigrati all’estero, giovani famiglie o pensionati […] nei loro territori di origine o in quelli di arrivo” (p.56) ed i “paesaggi della contro-cultura” intendendo quelle originate da “soggetti che esplicitamente, nelle pratiche dell’abitare e nei modi di costruire lo spazio richiamano alle atmosfere espresse dai movimenti socio-culturali di contestazione degli anni sessanta e settanta connotate da un marcato carattere anticonformistico” (p.56). Nel primo caso questi paesaggi di rimessa generano “luoghi del turismo di élite, insediamenti residenziali chiusi e protetti, localizzati in spazi rurali realizzati per raccogliere prevalentemente pensionati inattivi nordamericani” (p.57) che si intrecciano con processi di insediamento per turisti locali anche se a distanza in un processo “duale, luoghi per colonizzatori, e per indigeni” riproponendo quella matrice spaziale propria della colonialita’ (anche se di Campli non usa questo termine). Ma le rimesse, ci ricorda l’autore, generano anche una serie di investimenti in abitazioni e seconde case nelle zone più periferiche di Vilcabamba “talvolta incompleti, al tempo stesso introversi e vistosi. L’uso di colori accesi, elementi decorativi e di soluzioni architettoniche in voluta contrapposizione ai linguaggi della tradizione” (p.59) che continua a produrre frammentazione in un complesso exchange tra “turisti stranieri ed investitori con alto potere d’acquisto e migranti locali” (p.61) che contribuiscono a produrre un territorio di “transbordering space” (61) che riformulano confini spaziali e luoghi liminali che “raccontano una storia sulla relazione tra due mondi distinti, ma mutualmente costitutivi, quello dell’accumulazione e quello dell’aspirazione” (p.63). Dall’altro canto i “paesaggi della contro-cultura” che di Campli sovrappone con i paesaggi estrattivi che generano spazi dove “pratiche agricole, artigianali o meditative che ricalcano la spiritualità e le culture ancestrali locali (pp. 63-64) che a poca distanza dal centro di Vilcabamba vengono a costituirsi come insediamenti dispersi di “enclaves introverse” (p.64) che prendono forma di eco-villaggi mescolando “pratiche abitative, artigianali o legate alla produzione agricola biologica” (p.64) organizzati e prodotti da “pensionati attivi, hippies o migranti dal basso potere di acquisto” (p.66) emergenti dal declino delle economie rurali tradizionali e da pratiche che “recuperano linguaggi e tecnologie costruttive tradizionali indigene […] produzione di tessuti o stili propri della tradizione locale, la vendita di esperienze meditative d’ispirazione sciamanica che rievocano la spiritualità e le pratiche ancestrali locali […] corrispondono a diverse strategie di conversione dell’essere indigeno in valore di scambio (p. 67). Qui di Campli, anche se forse un po’ frettolosamente, chiama queste pratiche “estrattive” perché nel loro farsi spazio queste pratiche riducono le identità ad oggetto di scambio e relegano le soggettività indigene a “servizio dei turisti residenziali” (68), definendone un campo di conflitto. L’ambivalenza estrattiva funziona all'interno di quello che Anibal Quijano chiama “la matrice coloniale del potere” che riorganizza violentemente i territori perpetua continuamente drammatiche disuguaglianze sociali ed economiche limitando sovranità indigena e autonomia nazionale. Il riferimento al bellissimo lavoro, non tradotto in italiano, di Macarena Gómez-Barris (2017) è importante e necessario in quanto, metodologicamente, apre alla costruzione di palinsesti della vita che non dividono la natura dalla cultura, terreno in proprietà privata, ecologia dal vernacolare. La zona estrattiva globale, planetaria che Gómez-Barris evoca, e nella quale Vilcabamba si inserisce, delimita le temporalità della catastrofe planetaria attraverso l'universalizzazione del linguaggio del progetto. Aggrappandosi al concetto di extractive zone, Antonio sembra seguire i suggerimenti ‘decoloniali’ di Gómez-Barris catalogando la vita altrimenti e le forme di vita emergenti che diventano pratiche spaziali nella zona estrattiva. Insubordinanosi al modello dominante coloniale in quel tono, che sarà poi ‘minore’ con Deleuze, e ‘creolo’ con Glissant nel proseguo del testo, che rendeva i territori e i corpi estraibili con la violenza epistemologica delle categorie e fisica della violenza rappresentativa e invisibilizzava i desideri ed i modi di progetto nativi, ha tentato con i suoi spazi colloidali e viscosi ha reso visibile il conflitto spaziale di quelle forme di abitare senza normalizzarle.
Questi paesaggi di Campli, li definisce come colloidali: “un sistema di spazi introversi, nascosti, annidati, immersi in contesti rurali che non sono stati investiti dai processi di colonizzazione turistica e che conservano tratti propri degli spazi agricoli tradizionali” (p.68), sono viscosi “composti da una eterogeneità di situazioni proprie dello spazio rurale […] che configurano condizioni di opacità e densità capaci di assorbire al suo interno bolle introverse di varia natura” (p.69). A questi paesaggi, vista la natura introversa dell’abitare migrante, fatto di spazi interni, si aggiungono spazi soglia dove ci si pone “in una condizione liminale – di soglia – tra mondi discontinui […] d’interfaccia tra soggetti, economie e immaginari” (70) come il Parque Central principale teatro di messa in scena delle diverse identità di Vilcabamba, il Camino del Gringo ovvero quegli itinerari, quelle vie percorse quasi esclusivamente da viaggiatori indipendenti e turisti ed il Barrio 19, un quartiere virtuale di prevalenza hippie che diventano membrane e linee di forza per orientare pratiche ed alterità.
Forse un po’ di punto in bianco, forse con un cambio di ritmo narrativo, di Campli introduce poi il concetto di “zona di contatto” derivato dal lavoro di Mary Louise Pratt con l’obiettivo di “mettere in primo piano le dimensioni interattive degli incontri, i modi in cui i soggetti precedentemente separati dalle geografia e dalla storia intersecano le loro traiettorie di vita” (p.79) che in Vilcabamba assumono le forme, prendendo in prestito il “pensiero cannibale” di Viveros de Castro, “l’ambiguo rapporto tra l’innesto di nuove economie e pratiche produttive rurali ed artigianali importate da nuovi abitanti, e la contemporanea manifestazione di particolari pratiche predatorie di simboli, linguaggi, economie […] attraverso economie e pratiche di remittance urbanism in cui si opera un tentativo di intercettare le economie prodotte dai nuovi abitanti e di adozione dei loro simboli e prototipi abitativi” (p.79) in un processo di “produzione-predazione” (p.80) dove elementi della cultura locale rurale “vengono selezionati e messi in valore” (p.80) ma al contempo rappresentano resistenze che preda e trasforma tutte le alleanze locali con i turisti “tutti potenziali partner di un equivoco gioco del furto o del dono” dove “le varie forme di remittance urbanism, di speculazioni edilizie o economiche di breve periodo […] rappresentano […] l’accoppiamento tra l’innesco di forme intensive di produzione e la manifestazione di forme di resistenza verso l’altro, attraverso la manifestazione di strategie estensive e ramificate di predazione” (p.80), che “non produce niente. È cattura, assunzione, incorporazione” (p.82).
Riflettere da e attraverso Vilcabamba è riflettere sulla differenza o, altrimenti detto, su una “separazione relazionante” (p.84) e sulle sue possibilità nel definire modi di abitare nonché’ di portare alla luce “fenomeni di segmentazione spaziale, ri-articolazioni di pratiche di abitare e appropriazione di sapere tradizionali” (p.87). Ma non è da intendersi né un caso studio, ne un tentativo di convergenza tra particolarità e generalità tipico della versione eurocentrica della ricerca urbanistica. di Campli non procede ad una esoticizzazione della ricerca spaziale, offrendo letture altre, semplicemente fuori confine adottando categorie prestabilite, proprie, canoniche, ma intraprende una strada più impervia, anche se non ancora completamente. Si sprovincializza situando i suoi punti di esplorazione nei margini della ricerca urbana, in quei luoghi con quegli “oggetti spaziali prodotti da tale [locale] pensiero, e i mondi possibili che, attraverso tali oggetti, è possibile configurare” (p.88) ma senza produrre né una universalità né un semplice pensiero locale, situato nelle configurazioni dei diversi assemblaggi spaziali in atto. Sottolineando, come altri han fatto, la crisi della disciplina dell’urbanistica nella sua presa sul reale e sulla capacità di incidere sui processi di trasformazioni, suggerisce una nuova apertura “quella di costituirsi come teoria-pratica di una ‘decolonizzazione’ permanente del pensiero spaziale” (p.90). Un suggerimento che, anche se arriva un po’ troppo tardi nel testo e in parte con uno slippage semantico, permette a di Campli di aprire alla necessità di un nuovo registro, per me minore, non aggressivo, non autoritario “secondo il quale la descrizione delle condizioni di autodeterminazione ontologica dei luoghi studiati, prevale sulla riduzione del pensiero spaziale a dispositivo di ricognizione, classificazione, rappresentazione, espressione di giudizio, previsione” (p.92) aprendo verso un necessario comparative urbanism, già teorizzato ampliamente da Jenny Robinson (2011; 2015), non come semplice giustapposizione di aspetti simili, comprensibili, ma come differenze come ‘divenire, Un processo che di Campli suggerisce debba emergere “tra un’alleanza tra Deleuze e Glissant, ovvero tra le procedure della ‘minorazione’ e la ‘creolizzazione’” (p.98) ed abbandonare quell’arroganza coloniale fatta di “continue invenzioni di paradigmi, di pensieri maggiori con pretese di universalità” (p. 98) non “pensando lo spazio ‘come’ gli altri ma ‘con’ loro” (p.98).
Non potendo non condividere, questa gesture, mi si permetta una critica sul fatto che di Campli, utilizza il termine “decolonizzazione”, facendo riferimento a Deleuze e Glissant, operazione che, come detto è difficile da non supportare, ma appare chiaro qui più di ogni altro punto del testo, la necessità di spingersi oltre ancora, di non accontentarsi e, visto il richiamo alla connessione tra epistemologia e politica, adottando un approccio decoloniale. Qui, forse semplicistico e non scevro di critiche, è l’uso del termine ‘decolonizzazione’. Chi scrive, avrebbe preferito leggere e pertanto visto usare, un termine meno corrotto, meno inefficace in grado di far riferimento non al colonialismo come periodo storico ed alla sua relativa uscita, ma al suo presente: decoloniale o appunto, come ricorda Rachele Borghi “decolonializzante” quando dice che nonostante rimandi direttamente ad una postura anti-coloniale, ne trattiene lo sguardo eurocentrico che “esonera dal mantenere lo sguardo sull’oppressore che e in ognuno di noi” (2020:38). ll progetto urbano nelle sue visioni, categorie e prassi e duro a decolonizzarsi (basta vedere non solo la bianchezza e la provenienza dei curricula dei nostri corsi, ma anche a vedere come “colonialismo e la crisi ecologica abbiano una comune origine in una determinata forma di (non) abitare il mondo e dall’altro quella per cui se si vuole pensare ad un’ecologia politica davvero capace ciò che va fatto è concepire forme diverse dell’abitare” (Missisoli, 2020) non nella semplice varietà ma nella pluriversalita’.
La proposta di Antonio, fa eco a quella di Michele Lancione (2019) che, dal lato dell’antropologia, ha recentemente suggerito di “cercare un radical ‘housing radicale' all'interno delle pratiche quotidiane di abitare ai margini, dove questi ultimi sono intesi come un sito di resistenza piuttosto che un luogo di abnegazione” (p.3). Lancione invita i lettori a riformulare il dibattito e l'azione di "un'epistemologia femminista e decoloniale" (ibid) che comporta uno spostamento epistemologico della questione abitativa al fine di concentrarsi sulla precarietà come il sito in cui "una politica della vita" (ibid) " emerge da luoghi misteriosi, inabitabili” (p.3) come “abitare come differenza” (p.3). Ma anche nel lavoro di Giovanna Astolfo e di chi scrive che ha cercato di riflettere sull’abitare usando in termine ‘inhabitation’, non un registro concettuale alternativo alla ‘differenza’, ma la rappresentazione del nostro impegno con molteplici forme di vita che, non solo risiedono nella differenza, ma sviluppano anche forme di cura, riparazione e immaginazione, sostenere, condividere (Boano, Astoflo, 2020). Queste complementari costruzioni semantiche, condividono l'approccio vitalista e un'importante sfida ontologica: di pensare l'essere e il vivere insieme come divenire. Se questi approcci condividono l’essere incorniciati da una sensibilità Deleuziana ed offrono un necessario spostamento epistemologico per l’urbanistica, per concludere mi preme riflettere su un tema per me centrale nel lavoro di Antonio, ma che sfortunatamente sembra lasciare incompiuto: la svolta decolonizzante accennata, forse come idea per un nuovo progetto, da di Campli.
L’approccio potrebbe essere espanso con il lavoro di Escobar (2019) che incorpora la nozione di non-abitabilità all'interno di un quadro politico ecologico decoloniale, avvicinandosi in qualche modo alla chiamata di Lancione, ma supportando in modo più esplicito uno spostamento ontologico. Nei suoi scritti, non dissimili dai discorsi originati da Heidegger attraverso Lefebvre, l’abitare è inteso come essere nel mondo, come relazione. L'abitare è una condizione il cui aspetto fondamentale è la relazionalità. Tuttavia, le interazioni avvengono non solo tra gli umani, ma anche tra umani e non umani. Ecco la novità. L'essenza dell'abitare e l'unica condizione fondamentale per l'abitabilità della terra consistono nella "interdipendenza radicale di tutto ciò che esiste, il fatto indubitabile che tutto esiste perché tutto il resto, che nulla preesiste alle relazioni che la costituiscono" (p.132). Il contributo di Escobar è importante per due motivi. Primo, perché è decoloniale (Mignolo ed Escobar, 2010) incorniciato attraverso l'imperativo di ricollegare le città con la terra per renderle nuovamente abitabili. In secondo luogo, perché si impegna direttamente con l’ontologia che mantiene saldamente in vista la questione del patriarcato, il ruolo dei non umani e la molteplicità dei mondi, contribuendo in modo significativo alla riconfigurazione degli studi urbani (Cupples, 2019: 217) al di la di una versione antropocentrica. In Design for the Pluriverse (2018), il sociologo colombiano estende la sua critica alla civiltà moderna che vede come regime egemonico di verità costruito su binari (umano / non umano, cultura / natura, soggetto / oggetto, ragione / emozione). L'attuale crisi dell'abitabilità è generata proprio dalla separazione tra cultura e natura, natura e società, urbana e rurale, e in ultima analisi attribuita all'ascesa delle città al posto del modello dominante di civiltà coloniale "capitalista etero-patriarcale" (p. 133). Il patriarcato in particolare è il motivo principale dell'erosione della relazionalità (p. 137). L'unico modo per contrastare tale crisi è agire sull’abitare, intendendo il nostro modo di essere nel mondo. Escobar chiede una nuova nozione di umano, un nuovo modo di vivere che è relazionale, che si riferisce a tutte le forme di vita e a configurazioni socioculturali plurali che richiamano alla necessita di un pensiero immanente e affermativo che noi abbiamo chiamato inhabitation (Boano, Astoflo). L'adozione non è un semplice esercizio metaforico, né un determinismo semantico nei tradizionali temi globali della ricerca abitativa; significa invece uno stile di pensiero che è "orientato dalle relazioni spaziali, il modo in cui immaginiamo cosa pensare" (Colebrook, 2005: 190).
Per quelli che come chi scrive, lavorano in un territorio segnato dalle tensioni tra l’indagine sulla città informale, e la southern perspective intesa il punto di partenza per lo sviluppo di una critica del progetto, il libro di Antonio di Campli non solo è un toccasana nel panorama culturale italiano, ma si situa in una importante traiettoria per la produzione e lo sviluppo di un vocabolario teorico e concettuale filosoficamente e socialmente orientato a dare un senso a queste realtà. Parafrasando nuovamente, Rachele Borghi, è una grammatica necessaria. È contemporaneamente nello spazio creato dagli "incontri mancanti" (Boano, 2017) tra filosofia, architettura e progetto urbano che può emergere una rinnovata teoria critica di riflessione sulla e dalla città, indagando, criticamente sia la natura stessa della città stessa sia i modi di vita che la città consente in una continua riproposizione della questione urbana e del suo progetto. Paolo Missiroli, recentemente ci ammonisce dicendo che noi “non pensiamo in modo abbastanza decisivo l’abitare”.
Una lunga strada ci aspetta, abitare la differenza e “decoloniare” l’urbanistica. Antonio ci offre da Vilcabamba l’inizio di questo percorso, con il merito di “tenere insieme rivendicazioni ecologiche e forme di potere poiché si fonda sulla nozione di abitare. Decoloniare l’urbanistica passa obbligatoriamente nel ripensare ‘gli abitare’”. Di nuovo con Missiroli “migrante è chi cerca un nuovo abitare, ma si può abitare solo ciò che non è già da sempre disposto alla distruzione di uno sguardo “coloniale” sui territori”. Ma lo sguardo deve cambiare. L’urbanistica deve disertare lo sguardo dominante e accogliere la sfida di costruire nuove alleanze, indisciplinate e abilitanti, in grado cioè di produrre nuove soggettività e innescare azioni in grado di “mobilitare i propri privilegi e di prendersi il rischio” (Borghi, 2020:156) abitando quelli che Maria Lugones chiama “creative inhabitations of colonial differences” (2010)
Camillo Boano
Riferimenti bibliografici
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N.d.C. - Camillo Boano è professore ordinario presso il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche, Territorio del Politecnico di Torino e presso Development Planning Unit, University College of London, UK, dove svolge attività di ricerca sul complesso campo tra teoria critica e progettazione urbana, con particolare attenzione all’informalità, ai campi e le forme di displacement ed i conflitti. Attualmente sta lavorando a una serie di progetti di ricerca interconnessi in America Latina, Sud-Est asiatico e Medio Oriente sul tema dell’abitare e del divenire delle citta’.
Tra le sue pubblicazioni: The Ethics of a Potential Urbanism: Critical Encounters Between Giorgio Agamben and Architecture (Routledge, 2017), Urban Geopolitics. Rethinking Planning in Contested Cities (Routledge, 2018 con Jonathan Rokem) e Neoliberalism and Urban Development in Latin America: The Case of Santiago (Routledge, 2018 con Francisco Vergara-Perucich); con G. Astolfo (2020), Notes around hospitality as inhabitation. Engaging with the politics of care and refugees dwelling practices in the Italian urban context. Migration and Society; con R. Marten, T. Abrassart (2019) Urban Planning and Natural Hazard Governance. Oxford Research Encyclopedia of Natural Hazard Science. Oxford University Press. DOI: 10.1093/acrefore/9780199389407.013.347, p.1-24; (2019) From Exclusion to Inhabitation: Response to Gray Benjamin. Citizenship as Barrier and Opportunity for Ancient Greek and Modern Refugees. Humanities 8(125): 1-8.; con Perucich Vergara F. (2019) El Precio Por El Derecho A La Ciudad Ante El Auge De Campamentos En Chile. AUS [Arquitectura / Urbanismo / Sustentabilidad], (26), 51-57; con Perucich Vergara F. (2019), Una utopía regresiva para las ciudadescontemporáneas hacia el desarrollo in Arias, M. & Vergara-Perucich, F. (eds.). Desarrollos y subdesarrollos. Santiago de Chile: RIL Editores, pp. 159-172.; con Nettelblad, G. (2019) Infrastructures of reception: The spatial politics of refuge in Mannheim, Germany. Political Geography 71: 78–90.
N.b. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 03 APRILE 2020 |