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Il libro di Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio – Il fenomeno urbano e la complessità. Concezioni sociologiche, antropologiche ed economiche di un sistema complesso territoriale (Bollati Boringhieri 2019) –, giustamente definito dal prefatore [Gianfranco Dioguardi] “un’enciclopedia”, mi fa pensare al labirinto del sapere scientifico, illuministicamente definito da Condillac come la capacità nuova che l’uomo moderno ha di «avanzare lentamente, esaminare con cura tutti i luoghi per cui passa, acquistarne una conoscenza così esatta da essere in grado di ritornare sui propri passi». L’enorme lavoro di scavo di Bertuglia e Vaio intende puntigliosamente unificare gl’innumerevoli pezzi teorici e storici delle scienze della città, compresovi accanto alla molteplicità dei fattori materiali il protagonismo dell’uomo, sotto una categoria epistemologica, che è insieme descrittiva e funzionale, la complessità. Se avessi potuto discutere con i due eminenti studiosi, avrei chiesto loro: è possibile comprendere l’unità di un organismo culturale vivente, senza porsi la domanda che Erwin Panowski si poneva dinanzi ad un’opera d’arte, quale ne sia il Kunstwollen, cioè fenomenologicamente la intenzionalità, il progetto profondo che fa tutt’uno con il suo essere ovvero, per dirla con il linguaggio di Aristotele, la sua entelecheia, l’impulso profondo che oggettivamente ne dirige lo sviluppo? In una parola, se vogliamo parlare della città come di un fenomeno unitario pur nella sua complessità, qual è il suo senso? [Per rispondere] mi permetto di riprendere alcune mie occasionali osservazioni di alcuni anni fa, in cui sostenevo che il senso della città è in ultima analisi la mediazione, il processo che integra termini diversi in unità senza annientarne le differenze.
La categoria della ‘complessità’, assunta come chiave di lettura del fenomeno città, si richiama, precisano gli autori, alla definizione di Edgar Morin, secondo cui la complessità è sistema, e il sistema è organizzazione che, garantendo «una certa solidarietà e una solidità relativa ai vari elementi o eventi» coinvolti, «garantisce al sistema una certa possibilità di durata nonostante le perturbazioni aleatorie. L’organizzazione trasforma, produce, connette, mantiene». Ora, va aggiunto, poiché l’organizzazione stessa comporta e produce antagonismo, se questo cresce oltre un certo limite, si diffonde disordine e il sistema va in crisi. A me sembra che, se ci si fermasse qui, si riconoscerebbe il carattere sistemico della città, ma non si comprenderebbe la specificità della sua sistemica, ciò per cui la città si caratterizza rispetto a tanti altri sistemi del mondo. L’architettura, come la medicina, è una materia nella quale è presente in maniera essenziale l’antropologia, lo studio dell’uomo. Come un medico non potrebbe essere tale, se non conoscesse l’uomo e non ne avesse cura, allo stesso modo l’architetto non potrebbe immaginare abitazioni e città se non conoscesse i destinatari di queste abitazioni e di queste città, se non avesse cura dell’uomo e della sua vita. La parola ‘cura’, lontano dal significato terapeutico, nel significato del somministrare i farmaci, è il termine latino che vuol dire ‘avere a cuore’. La città è quindi prima di tutto frutto di una cura, che comporta la dimensione del tempo. Ricorderei l’incisiva sentenza della grande scrittrice Margherita Yourcenar: «tempo grande scultore». Credo che mai come per la città valga questa considerazione. Se c’è un’opera d’arte che viene modellata dal tempo questa è la città, anzi per certi aspetti potremmo considerare la città come tempo che si spazializza, che si trasforma in spazio.
Se si guarda alla pur diversificatissima storia della città, ci si rende conto che la città ha esercitato comunque la funzione più sociale per eccellenza, la mediazione. Mediare, nel senso profondo e autentico della parola, è precisamente fare da medium, fare da trait d’union in un modo non passivo e debole ma attivo e forte. In tal senso la città diventa l’elemento attraverso il quale entrano in comunicazione sempre nuovi individui e gruppi umani diversi, anche anzi soprattutto di epoche diverse, riuscendo a conservarne le tracce nella propria forma. Il passato sopravvive nel presente e chiede la propria parte nella condivisione del destino della città. La funzione di mediazione è quella che io definirei, con un termine di Panowski, il Kunstwollen di una città, ossia l’ispirazione guida la quale fa sì che un oggetto diventi un’opera d’arte. Quando si parla di Kunstwollen, di ‘volontà d’arte’, o meglio ancora d’intenzionalità dell’opera (dove intentio è assunta nell’accezione fenomenologica), si parla non di un calcolato progetto, ma di una tendenza profonda che l’azione artistica in un determinato caso esprime, in modo non del tutto consapevole. L’atto creativo non è frutto di una pura e direi astratta coscienza, ma è la manifestazione, il prodursi, il realizzarsi di un modo profondo della personalità, in cui l’io trascende la semplice, immediata coscienza del particolare sé, e diventa un noi, una popolazione di soggettività che insieme costituiscono l’intelligenza essenziale della persona.
Il Kunstwollen della città inteso come mediazione è la condizione basilare affinché una struttura urbana funzioni. Una città infatti funziona quando si concretizza un complesso di relazioni forti tra soggetti diversi, sia singoli individui, sia tra culture ed etnie, addirittura tra vincitori e vinti. La città è un’enorme forza amalgamatrice, dove per amalgama non s’intende qualcosa di mescolato insieme confusamente, ma una realtà nuova la quale vive delle relazioni che in essa si sono generate tra le diversità. È evidente che queste relazioni non sono semplici convivenze, casuali o forzate, d’identità diverse. Nella città le diversità umane s’incontrano o si scontrano, ma infine hegelianamente si ‘ri-conoscono’, si aprono alla mediazione. La città è il luogo per conciliare le estraneità e i dissensi, per rendere possibile la comunicazione, insomma è il luogo dove i vari gruppi si rapportano e gli individui s’incontrano. La città è, per sua originaria essenza, il foyer della mediazione, senza di cui non esiste la società, che non è la famiglia, la tribù o il clan, ma la società civile. La città non è tanto l’urbs quanto la civitas, l’azione partecipativa dei cittadini ad una organizzazione secondo un ordine condiviso. In tal senso la città, nelle varie forme assunte nel tempo, da quella signorile e aristocratica a quella popolare e democratica, ha una tendenza pluralistica, costituisce associazione. Colui che vive la città è un civis, in quanto è un socius, un alleato di molti altri. La città, intesa come societas, non si basa tanto su un rapporto di familiarità o di empatia tra individui, quanto sul riconoscimento di un bene, di un interesse comune. La città è mediazione economica, culturale, politica.
Cosa s’intende più propriamente per città? Nella prima metà del XX secolo alcuni studiosi di biologia introdussero il concetto della Umwelt come del «fondamento vitale che sta al centro della comunicazione di significati dell’animale-uomo». In modo più generale, il termine si traduce come «universo soggettivo», e ben si distingue così dal concetto di ambiente. Mentre quest’ultimo è volgarmente inteso come un contenitore, quasi scatola entro cui il soggetto si troverebbe collocato e rinchiuso senza alcuna concreta relazione con essa, Umwelt, letteralmente «mondo che sta intorno», è invece il complesso rapporto vitale che si produce tra un individuo o una collettività ordinata e tutto ciò che avvolge l’uno o l’altra impregnandoli di sé. Nei primi decenni del 900 il biologo Jakob von Uexküll teorizzò, specificando meglio questo concetto, che ogni specie vivente, pur condividendo lo stesso ambiente con altre, ha una sua diversa Umwelt, e perciò esisterebbero tante Umwelten quante sono le specie. Altrettanto ogni individuo umano, rapportandosi all’ambiente, percepisce ciò che gli sta intorno in modo diverso secondo la sua specifica attrezzatura culturale. Tra l’uomo, in quanto esistenza storica, e ciò che lo circonda si crea un rapporto di complicatissimi scambi a tutti i livelli. Ciò che sta intorno al vivente umano è vivo come lui. L’individuo umano, scambiando con esso continuamente impulsi e richiami, tesse il mondo storico comune.
La città è la Umwelt, il luogo per eccellenza di siffatta tessitura. Sulla base di questa consapevolezza anche il concetto dell’abitare deve essere ripensato. «Abitare» deriva dal latino habeo, letteralmente possedere, stare con i piedi solidamente piantati su di un suolo. L’abitare allude alla necessaria stabilità dell’umano. Il verbo sottintende la radice stessa del suo significato più profondo, che è il «co-abitare», l’«abitar-con». L’abitare è la capacità di entrare in un rapporto di scambio stabile di umanità tra individui. La città è il luogo della più completa co-abitazione. La città perciò è una concretissima Welt, un vero e proprio mondo, e non un inerte contenitore. Se in senso sociologico la città è ‘mondo’, in termini fisici, avendo un complesso di fattezze sensibili, essa è un paesaggio, il paesaggio urbano. A questo punto sorgono due domande, che portano ad interrogarsi su cosa sia il paesaggio e quali siano i fattori che lo determinano. La risposta è meno semplice e immediata di quanto possa apparire al senso comune. A considerare attentamente, il paesaggio è innanzitutto un organismo vivo. Una complementarietà di presenze fisiche, culturalmente mediate e in quanto tali umane, nella loro solidale esistenza lo costituiscono. Evidentemente, le categorie fondamentali senza cui non potrebbe pensarsi un paesaggio sono le famose ‘intuizioni trascendentali» kantiane, lo spazio e il tempo, il cui «riempimento» in ogni caso sono un luogo e un momento.
È vero che lo spazio non ha significato se non diventa luogo, come dice Gregotti: se non viene segnato e contrassegnato dalla scelta dell’uomo. Ma è vero anche che è necessario un ulteriore passaggio qualificante perché il luogo si trasformi in un luogo ‘umano’. Anche gli animali, segnando il proprio territorio, si assegnano un luogo e lo abitano. Ma un luogo è umano quando lo spazio del paesaggio, della città, della folla mai ferma viene reso uno dal Kunstwollen, dalla comune volontà di darsi un forma. Insomma ogni città a modo suo obbedisce all’esigenza della forma, richiesta dal tempo. Si pensi alle città rinascimentali, espressioni della potenza dei borghesi, dai liberi artigiani ai grandi banchieri, centro di una vita fatta di scambi e traffici economici, e per contro si ricordi la città medievale, il cui Kunstwollen è esprimere la potenza dei signori della guerra, nella forma della difesa aggressiva, il castello fortificato. Il Kunstwollen di una città ha bisogno naturalmente di uno spazio dove esercitarsi, non in senso meramente fisico ma concretamente storico di paesaggio, animato da una volontà comune, espressione di una classe più matura che oggettivamente assuma la funzione di guida del popolo, elaborando progetti che interessino e rafforzino l’intera comunità, di cui essa si senta orgogliosamente e responsabilmente «egemone». La città è una Umwelt, un paesaggio entro cui si esercita un’esemplarità intellettuale e morale, che Gramsci chiamò appunto «egemonia». La mera potenza economica, senza primato intellettuale e morale, non è egemonia ma semplice dominio. L’egemonia è potenza di esercitare la mediazione sociale progressivamente orientata. Il semplice dominio economico è solo potere di sfruttamento.
Aldo Masullo
N.d.C. – Alla vigilia del 25 aprile è scomparso Aldo Masullo, professore emerito di Filosofia morale all’Università Federico II di Napoli e tra i più importanti filosofi del secondo novecento italiano. Lo ricordiamo pubblicando un suo contributo, che avevamo ricevuto qualche tempo fa, redatto in occasione della presentazione del libro di Cristoforo Sergio Bertuglia e Franco Vaio, curata da Bianca Petrella, tenutasi nell’aula magna del Dipartimento di Ingegneria dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, sede di Aversa, il 25 settembre 2019. Il testo, letto pubblicamente in quell’occasione in assenza dell’autore per un’improvvisa indisposizione, è qui pubblicato integralmente salvo l’incipit di seguito riportato: «Cara professoressa Bianca, Lei sa con quanto piacere avevo accettato il Suo invito alla presentazione del libro di Bertuglia e Vaio. Purtroppo alcuni fastidiosi inconvenienti fisici m’impediscono ora di uscire di casa. Mi scuso perciò della necessitata assenza».
Sul libro oggetto di questa riflessione, v. anche i commenti di Roberto Tadei (Si può comprendere la complessià urbana?, 31 maggio 2019) e Walter Tocci (La complessità dell’urbano e non solo, 24 gennaio 2020).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 01 MAGGIO 2020 |