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Da qualche tempo l’espressione ‘beni comuni’ è entrata nel linguaggio (politico) corrente ed è diventata un luogo comune. Possiamo individuare tre accezioni principali di beni comuni (seguendo, tra altri, Moroni 2015; Somaini 2015): beni di nessuno (perché non esiste un proprietario); beni di alcuni (di un gruppo di cittadini, ad esempio le proprietà collettive); beni a cui tutti dovrebbero avere accesso (perché considerati un diritto, ad esempio l’acqua). Il loro statuto incerto emerge da una letteratura recente favorevole e contraria. La letteratura economica non fa riferimento a questa tipologia di beni. È fondata, oltreché sui beni privati, sui beni pubblici, sui beni collettivi e sui beni demaniali, mentre i beni comuni sono al di fuori della logica di mercato e del diritto di proprietà.
I beni pubblici, sono i beni che soddisfano queste due condizioni: non rivalità nel consumo (il mio consumo del bene non diminuisce la disponibilità per gli altri cittadini della collettività); non possibilità di esclusione (non è tecnicamente possibile, o economicamente desiderabile, impedire a qualcuno il godimento di un bene). Tra i beni pubblici e i beni privati di mercato si ha una situazione opposta. Non esiste un mercato dei beni pubblici, non si possono vendere o comprare. I beni pubblici possono riguardare una collettività nazionale o locale (beni pubblici locali), o parti della società. Qualche esempio: la collettività dei naviganti nel caso del faro per la navigazione, la popolazione di un comune, nel caso di una piazza, dei giardini pubblici. Soprattutto, in questi mesi, emerge il fatto che la sanità è un bene pubblico.
I beni collettivi sono proprietà private a gestione collettiva, riguardano le risorse di una comunità: ad esempio i pascoli, i boschi, le aree di pesca utilizzati da gruppi formati da privati. I beni collettivi sono esposti al rischio dello sfruttamento eccessivo. Le regolazioni dell’uso influiscono sulla possibilità di mantenere o distruggere le risorse collettive. Il premio Nobel 2009 Elinor Ostrom ha evidenziato l’importanza dei beni collettivi ed i positivi risultati in termini di efficienza ed efficacia nel caso di gestione condivisa di risorse naturali comunque private, che possono evitare i problemi quali “la tragedia dei beni comuni”. È appena il caso di ricordare che il dibattito sulla legge n. 168/2017 in materia di domini collettivi ha fatto registrare il tentativo di avvicinare gli usi civici, definiti propriamente beni collettivi, ai beni comuni (Oliverio, 2018).
I beni demaniali dal punto di vista giuridico sono considerati beni pubblici, i beni patrimoniali degli enti pubblici territoriali. La distinzione tra demanio e patrimonio indisponibile degli enti territoriali non è chiara. Tuttavia, possiamo ricordare i seguenti tipi di demanio: marittimo (ad esempio il faro, le spiagge), idrico, militare, ferroviario, stradale, aeronautico. Il patrimonio di un ente pubblico può essere distinto in disponibile, può essere venduto, o indisponibile, non può essere venduto.
Rispetto alle definizioni sopra riportate è opportuno ricordare che: - i beni comuni possono generare sovrapposizioni e confusioni in parte riconducibili alla distorsione del termine commons che rinvia invece a beni collettivi; - i beni demaniali possono essere distinti in demanio naturale, legale, necessario e accidentale, ecc. (codice civile art. 822). Nel caso delle concessioni balneari siamo in presenza di costi pubblici (la difesa delle coste dall’erosione) e dell’utilizzo di privati, con affidamenti reiterati delle concessioni senza gara e con entrate scarse per lo Stato. Oggetto della demanialità possono essere solo i beni immobili. Dunque, in questa classificazione economica non c’è spazio per i beni comuni che sono un costrutto recente del dibattito politico-giuridico italiano.
A fronte della grande attenzione dedicata ai beni comuni e all’accesso alla terra, va rilevata la poca attenzione ai beni demaniali, in particolare alle aree militari dismesse. È su questo tema che Francesco Gastaldi e Federico Camerin – nel loro ultimo libro: Aree militari dismesse e rigenerazione urbana. Potenzialità di valorizzazione del territorio, innovazioni legislative e di processo (LetteraVentidue, 2019) – concentrano l’attenzione. Tema sul quale la confusione è grande e per questo la situazione generale non è eccellente. Ebbene, come il lettore potrà verificare, gli autori riescono a fare chiarezza su temi e problemi complessi, molto rilevanti per il governo del territorio e delle città e sostanzialmente trascurati. Oltre alle questioni normative e amministrative, come osservato a p. 17 dell’introduzione (pp.15-22), la valorizzazione dei beni immobili pubblici è stata influenzata anche dalle recenti posizioni di numerosi autori, spesso protagonisti del dibattito sui beni comuni sopra richiamati. Una posizione sostanzialmente a favore del mantenimento del patrimonio immobiliare dello Stato e contraria alle dismissioni, ma non nuova poiché si era già manifestata anche per la tutela/valorizzazione del patrimonio culturale. Tuttavia, la recente situazione di crisi sanitaria ha portato a proposte che vanno in una direzione inattesa. Secondo il senatore Luigi Zanda, tesoriere del Partito democratico, per esempio, ”per far fronte al nostro fabbisogno straordinario senza far esplodere il debito pubblico potremmo dare in garanzia il patrimonio immobiliare di proprietà statale”, compresi Palazzo Chigi e Montecitorio!!! (intervista a "la Repubblica" del 28 marzo 2020).
Nel capitolo 1 dedicato a Difficoltà e questioni nella gestione del patrimonio immobiliare (pp. 25-33) emerge che fin dai primi anni ’90 il dossier patrimonio immobiliare pubblico è stato considerato non tanto come una politica pubblica, quanto un obiettivo dei documenti di finanza pubblica, delle spending review, dal quale ottenere un contributo, per altro sempre disatteso, per ridurre il debito pubblico. Emerge inoltre, la complessità del problema nelle relazioni tra il livello centrale e locale. Il primo ha dovuto fare i conti con le diverse esigenze della difesa nazionale e dell’organizzazione delle sue strutture in periferia. Il secondo ha dovuto fare i conti con le difficoltà e le opportunità per le città di trattare la questione aree militari dismesse all’interno della casistica dei cosiddetti vuoti urbani e dei processi di riqualificazione, già messe alla prova con le aree industriali dismesse. Di conseguenza “L’inerziale gestione del patrimonio militare ha avuto ripercussioni negative sulle città italiane (…)” (p. 29)”. Anche in questo caso “le politiche del centro si sono fermate in periferia”.
Nel capitolo 2 dedicato a La normativa in materia di dismissione e valorizzazione dei beni del Ministero della difesa non più utili ai fini istituzionali (pp. 35-59) gli autori fanno subito chiarezza sulle differenze tra l’alienazione e la dismissione immobiliare, sui meccanismi di trasferimento del diritto di proprietà, sulla valorizzazione urbanistica, la destinazione d’uso degli immobili e le scelte di procedere attraverso un coacervo di modalità ordinarie e speciali di dismissione. L’attenzione è concentrata sui ruoli svolti dal Ministero della Difesa, dalle Soprintendenze, delle altre amministrazioni, fino alla creazione dell’Agenzia del Demanio e al fallimento del federalismo demaniale, dopo l’approvazione della legge n. 42 del 2009. Tuttavia, essa resta il provvedimento più strutturato e meno attuato dell’ultimo decennio. L’analisi del processo legislativo continua con le azioni del governo Renzi e le previsioni delle leggi di stabilità del 2015, del 2016 e del 2019. Oltre agli aspetti specifici emerge un problema antico dei processi legislativi nazionali. L’inserimento di norme ed emendamenti nelle leggi finanziarie annuali (che hanno trascurato la programmazione poliennale della spesa pubblica e favorito il cosiddetto “assalto alla diligenza”) contenenti previsioni sovrastimate di importi non inferiori a… derivanti da dismissioni del patrimonio immobiliare. La complessità e l’instabilità delle norme sono un ostacolo alla valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico.
Nel capitolo 3 dedicato a Il rapporto dell’Agenzia del demanio con il Ministero della difesa nella gestione del patrimonio militare da dismettere e valorizzare (pp. 61-77) è ben sottolineato il ruolo dominante del Ministero dell’economia e finanze nel 'fare e disfare' Agenzie, diventate nel tempo vere e proprie holding. Sono molto lontani i tempi della divisione dei compiti tra Ministero delle Partecipazioni statali, del Tesoro, delle Finanze, della Programmazione economica e del ruolo effettivo di coordinamento del Comitato Interministeriale della Programmazione Economia (CIPE). Gli autori fanno riferimento ai rilievi puntuali della Corte dei Conti e al crescente protagonismo dell’Agenzia del Demanio nei processi di dismissione, rispetto a quello del Ministero della Difesa.
Nel capitolo 4 dedicato a I procedimenti in corso: apprendere dalle esperienze (pp.79-167) sono analizzati casi di rigenerazione e di sviluppo territoriale attivati nell’ambito dei processi di dismissione e rendicontati gli avanzamenti e gli esiti, con l’obiettivo di indicare “(…) la molteplicità delle iniziative in atto e la maniera in cui vengono concepite, i cambiamenti che sono occorsi nel corso del tempo (…)” (pp.79-80). È questo uno dei principali meriti del volume, di non proporre soluzioni aprioristiche, ma di discutere le evidenze empiriche che emergono da casi in città di taglia diversa, nei quali emerge il forte ruolo dei comuni e dei loro strumenti di pianificazione urbanistica. Tra casi trattati, forse il più rilevante è costituito dai contenuti del protocollo d’intesa firmato nel 2015, tra Comune di Milano, Agenzia del Demanio, Università Cattolica del Sacro Cuore e i Ministeri dell’interno, della difesa e Mibact, relativo a tre aree militari da valorizzare. Per l’acquisizione della caserma Garibaldi l’investimento dell’ateneo è stato di 88 milioni di euro, un esempio della posta in gioco nella dismissione del patrimonio militare (p. 91). L’analisi dei casi è presentata in modo efficace con cronologie degli eventi, (antecedenti, procedimenti, protocolli d’intesa) che danno conto della complessità del processo, della distribuzione territoriale a livello nazionale, delle municipalità che hanno sottoscritto i protocolli d’intesa e delle iniziative regionali e comunali. Dopo dieci anni restano tuttavia presenti, e ben evidenziate, le difficoltà del federalismo demaniale analizzato nella sua evoluzione in tre tappe, ma già emerse nel primo anno di vita (p. 136.) Questo capitolo analizza infine le opportunità ed i rischi dell’applicazione dell’art. 26 del decreto Sblocca Italia, del 2014 con riferimento ad esempio al riuso dell’ex Arsenale di Pavia, attivato con una consultazione pubblica, non esente da effetti controversi.
Nel capitolo 5 dedicato a I legami problematici fra apparato normativo, politiche urbane e dinamiche di mercato (pp. 169-185) è sottolineata la “ (…) situazione di incertezza sul futuro di molti beni da riconvertire.” (p.169). A fronte di molte iniziative avviate restano numerose le situazioni di inerzia, registrate ad esempio a La Spezia e Piacenza, città nelle quali l’incidenza del patrimonio militare è molto rilevante, ma le strategie e i processi decisionali risultano instabili (p.170). Naturalmente le difficoltà del mercato immobiliare e dell’allocazione di nuove funzioni pubbliche non favoriscono i processi di rigenerazione.
Le Conclusioni generali (pp.187-195) sottolineano l’esito deludente dei processi di dismissione, i problemi irrisolti, la discontinuità nei processi decisionali, a partire dalle azioni delle amministrazioni pubbliche centrali e confermano che lo Stato non è un buon amministratore di immobili, militari e non militari. Cosa fare? Non ci sono soluzioni valide per tutti i casi. Resta necessario mantenere questi temi e problemi al centro della ricerca interdisciplinare, dell’agenda pubblica nazionale e locale, consapevoli del fatto che questi processi di dismissione saranno sempre oggetto di nuove norme e di riforme annunciate. Uno dei nodi da sciogliere è la difficolta di ottenere il consenso necessario per decidere politiche che, almeno in teoria, dovrebbero avvantaggiare tutti, o quasi, gli attori coinvolti. Per questo è necessario continuare a studiare questi problemi, che a ben vedere sono una risorsa per la città intesa come bene pubblico. Tuttavia, su questi problemi e più in generale sui beni pubblici, va registrato lo scarso interesse dell’opinione pubblica, una parte della quale spesso si mobilita per le questioni sopra accennate.
Lo scavo in profondità sui temi delle aree militari dismesse condotto in questo volume dovrebbe essere effettuato anche nell’altro corno del problema beni demaniali: il demanio marittimo, la cui gestione presenta importanti implicazioni territoriali ed economiche. Le entrate dei canoni di concessione delle spiagge e quelle derivanti dall’alienazione delle aree militari dismesse non danno sollievo al debito pubblico.
Vittorio Ferri
Riferimenti bibliografici Bravo G. (2001), Dai pascoli a internet. La teoria delle risorse comuni, in Stato e Mercato, n. 63, pp. 487-512. Moroni S. (2015), Beni di nessuno, beni di alcuni, beni di tutti: note critiche sull’incerto paradigma dei beni comuni, in Scienze Regionali, vol, 14 n. 3, pp. 137-144. Oliverio F.S. (2018), Verso una nuova definizione degli usi civici, in Agriregionieuropa n. 55. Somaini E. (2015), a cura di, I beni comuni oltre i luoghi comuni, Torino: IBL
N.d.C. – Vittorio Ferri ha conseguito la specializzazione in Pianificazione del Territorio e dell’Ambiente presso il Politecnico di Milano e il dottorato di ricerca in Politiche Pubbliche del Territorio presso l’Università IUAV di Venezia. Nel 2008 ha pubblicato il volume Governare le Città metropolitane, Carocci, Roma. Ha insegnato nelle Università di Pavia e di Milano Bicocca e svolto attività di ricerca presso l’Università di Ferrara, l’Università Cattolica di Milano, il Centro Studi Territorio dell’Università di Bergamo, l’Istituto per la Finanza degli Enti Locali IFEL di Roma e di consulenza per l’istituto di ricerca della Regione Lombardia (Irer/Eupolis). Ha partecipato PRIN 2009, Politiche urbanistiche e gestione del territorio tra esigenze di mercato e coesione sociale, direttore prof. Paolo Urbani. Si occupa prevalentemente dei temi e dei problemi delle Città metropolitane, della finanza territoriale e del governo del territorio. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università IUAV di Venezia.
Tra le pubblicazioni recenti: L’imposta di soggiorno, la finanza dei Comuni e il ruolo delle Regioni, in Bernabei G., Montanari G. (a cura di), Regionalismo differenziato e coordinamento della finanza pubblica, Cleup, Padova 2019, pp. 263-286; con P. Magarò, La rémuneration du travail politique en Italie, in Rémy le Saut, Berger Levrault (a cura di), La rémuneration de travail politique en Europe, Boulogne –Billancourt 2019, pp. 341-354; con A. Ferri e G. Ferraina, Oltre l’austerità. Gli investimenti nelle città e il coordinamento della finanza pubblica, in E. D’Albergo, D. De Leo, G., Viesti (a cura di), Urban@it, IV Rapporto sulle città 2018, il Mulino, Bologna 2018, pp. 157-174; con F., Cerniglia, L’autonomia finanziaria delle città. A che punto siamo, in A. Balducci (a cura di), Urban@it, III rapporto sulle città, Mind the gap. Il distacco tra politiche e città, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 117-134; La tassazione degli immobili in Italia. La prima casa d’abitazione è un paradiso fiscale che non possiamo permetterci, in “Scienze Regionali”, vol. 17, 2/2017; con A. Bruzzo, Politiche fiscali locali e la costruzione della città pubblica, in “Scienze Regionali”, vol. 16, 1/2017, pp. 77-102; con A. Bruzzo, Strumenti economico-finanziari in materia di governo del territorio. Un’analisi critica, in “Archivio di Studi Urbani e Regionali”, n. XLVII, 117/2016
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 15 MAGGIO 2020 |