|
|
Nel febbraio 2016 un quotidiano nazionale ha chiesto ai cittadini milanesi di esprimere le loro preferenze rispetto ai nuovi “grattacieli” in costruzione, per individuare l’edificio più degno di diventare una nuova icona della metropoli futura. La consultazione – per quanto possano valere questi esperimenti estemporanei – ha privilegiato la torre (il termine grattacielo, oggi, sembra più pertinente per designare un supertall) progettata da Cesar Pelli nell’area Garibaldi-Repubblica e ora nota come Torre Unicredit. Potrà essere questa l’architettura simbolo della nuova Milano? Perché è parsa più degna di altre nuove edificazioni? Forse per la guglia o per il primato dell’altezza, al momento (faccio fatica a immaginare altre ragioni). Resta un fatto: oggi l’idea che un’architettura senza storia, tradizione e contesto, possa essere eletta come simbolo del luogo non sembra sconcertante, a Milano, né per i media, né per il senso comune. Eppure si tratta di un’opera senza relazione alcuna con la città, che appartiene a un circuito internazionale sostanzialmente indifferente ai luoghi, che continuamente si riproduce in forme analoghe e mutuamente sostituibili (lo stesso Pelli, come altri architetti di fama internazionale, ha costruito edifici simili in contesti differenti). Se la modernità è stata l’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte (sollevando il problema dell’autenticità: Benjamin, 1936), ora persino le immagini (presunte) identitarie possono ridursi a meri facsimili. Nonostante il monito di François Jullien (2018): non è lecito confondere il simile con il comune, perché questi sono caratteri che appartengono a sfere distinte (l’economico, il politico). Eppure non si tratta di un fenomeno isolato e contingente.
Nel suo ultimo libro – Transnational Architecture and Urbanism. Rethinking How Cities Plan, Transform, and Learn, in uscita per i tipi di Routledge – Davide Ponzini documenta e studia alcune tendenze transnazionali dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea. C’è un filo comune che lega una parte cospicua delle grandi trasformazioni urbane nella varietà dei contesti. Questi processi sono ampiamente determinati da una rete selezionata e potente di attori che agiscono sulla scena globale, valendosi di un pacchetto consolidato di risorse, strumenti, tecnologie, modelli e firme d’autore. L’esito è la moltiplicazione di alcune forme ed immagini, che si riproducono con sostanziale indifferenza al contesto. Che cosa resta delle retoriche edificanti sull’architettura dei luoghi che hanno nutrito larga parte delle teorie più virtuose? Sembrano sopravvivere ritualmente (perché generalmente manca il coraggio – o il cinismo – di Koolhaas e dei pochi disposti a metterle esplicitamente in discussione), ma le voci sono sempre più flebili, mentre il centro della scena è preso da altre parole-chiave: branding, smart city, innovazione, competitività e temi affini. La cultura architettonica e urbanistica fatica a prendere posizione rispetto a queste tendenze. In larga parte tace di fronte ai limiti e alle contraddizioni emergenti, ma alcune componenti chiaramente aderiscono al mainstream di apparente successo. La moltiplicazione dei facsimili sembra un fenomeno tuttora attuale che riceve una scarsa attenzione critica, anche se non mancano segni di imbarazzo e di crisi.
Transfer
Il cittadino milanese che, per alcuni caratteri innovativi e spettacolari, apprezza la Allianz Tower costruita da Isozaki nell’area City Life è consapevole che questo progetto riprende ampiamente un modello già sperimentato dallo stesso autore, la Ueno Railway Station di Tokyo (1988, progetto selezionato, ma poi non realizzato)? E chi ricorda con rimpianto il progetto – ora abbandonato – di un Museo dell’Arte Contemporanea firmato da Libeskind per la stessa area (una perdita grave, non tanto o non solo per la qualità formale della proposta, ma per le funzioni che sono venute meno nel luogo e non sono state sostituite) è al corrente del fatto che l’autore ha sostanzialmente riproposto lo stesso disegno – che egli sosteneva di aver concepito appositamente per la città di Milano – per un nuovo centro culturale da realizzare a Pristina, Kosovo (2015)? Che i modelli circolino, anche in architettura, non è un fenomeno inspiegabile: dal punto di vista degli autori e dei produttori, sono evidenti le ragioni economiche e funzionali che possono spingere in questa direzione. Che le retoriche che accompagnano questi processi siano spesso banalmente edificanti o palesemente ipocrite, è un dato che può non sorprendere nella società delle immagini e del consumerism. Il punto dolente è che queste architetture dovrebbero diventare fattori esclusivi di distinzione, mentre progetti simili possono essere riprodotti non importa dove, con grande indifferenza per il contesto (anche se, a parole, Pelli, Libeskind, Gehry e altri personaggi di fama, tendono ancora a celebrare il contextualism come valore eminente del progetto di architettura).
La circolazione transnazionale di progetti d’autore, gestita da grandi imprese di design, planning e engineering che operano alla scala globale, è il tema chiave dell’indagine di Davide Ponzini, dalla quale ho tratto le notizie appena citate su alcune architetture di City Life (cap.6). L’autore conferma il talento già dimostrato in Starchitecture (2011, 2016) nella ricostruzione e valutazione di processi complessi a grande scala, offrendo una documentazione d’insieme significativa, ma anche una selezione di approfondimenti mirati, tramite studi di casi che diventano determinanti per la comprensione del fenomeno. La mobilità, con evidenza crescente negli ultimi due, tre decenni, riguarda architetti di fama, grandi promotori e investitori, grandi imprese di progettazione, master plans e megaprogetti di successo, ma anche opere architettoniche specifiche, di solito con caratteri spettacolari, che in qualche contesto hanno saputo creare attrazione, ricchezza ed effetti indotti positivi, e perciò sono diventate oggetto di imitazioni diffuse. Il movimento internazionale di idee, attori, modelli ed esperienze dell’architettura e dell’urbanistica non è certo una novità assoluta: sarebbe sufficiente ricordare, nel primo ‘900, la formazione e diffusione del Movimento Moderno, in relazione ai problemi e alle ambizioni della modernizzazione urbana e industriale. Le differenze, tuttavia, sono evidenti e radicali. Le retoriche del tempo miravano a edificare una città più bella, più efficiente, ma anche più giusta. La cultura architettonica e urbanistica era fortemente influenzata da valori e interessi di natura pubblica e collettiva, e tendeva ad assumere finalità e impegni di emancipazione e progresso civile. Oggi lo scenario è profondamente mutato. I movimenti in atto sono generalmente ispirati da interessi particolari (anche quando entrano in campo stati nazionali e autorità pubbliche). La mercificazione dell’architettura e dell’urbanism è un dato palese, che non sembra più necessario celare (semmai può essere accompagnato da qualche omaggio di rito ai valori del place-making, della smartness e della sostenibilità). Come il libro documenta, la comunicazione disciplinare oggi è diventata in molti casi più franca e diretta. Dal lato dell’offerta, sembra possibile promettere (soltanto) operazioni efficienti e sicuramente profittevoli, capaci di assicurare solide certezze agli investimenti e motivi fondati di attrazione e soddisfazione per i consumi. La qualità e il senso del progetto, il suo rapporto con il contesto, la capacità di “fare città” restano temi marginali, che non sembrano meritare un’attenzione specifica. Dal lato della domanda, queste promesse appaiono ancora credibili per diversi ambienti e strati sociali. Oltre ai benefici economici a breve termine, la città che si apre a progetti transnazionali di architettura e urbanistica si illude di poter acquisire anche vantaggi competitivi per tempi più lunghi, sottovalutando un paradosso incombente: se questi progetti (come molti beni di lusso) assumono i caratteri di “beni oligarchici”, la loro moltiplicazione e ogni ipotesi d’uso diffuso nello spazio e nel tempo sono una contraddizione in termini; pertanto è altamente probabile che le attese saranno deluse. Questo argomento (introdotto dalla riflessione di Fred Hirsch sui “beni posizionali”, 1976, e brillantemente sviluppato nel campo disciplinare da Bernardo Secchi, 1989) è sostanzialmente e imprudentemente ignorato. Non solo: è paradossale anche il fatto che in questa fase stiano chiaramente crescendo le critiche locali verso molteplici effetti della globalizzazione, ma questi particolari processi transnazionali siano accolti ancora con relativa benevolenza non solo dagli interessi direttamente coinvolti, ma anche da vasti strati popolari. Sebbene la distribuzione dei benefici sia tutt’altro che equa e questo tipo di operazioni comporti rischi notevoli di generare effetti collaterali perversi nel medio-lungo periodo (come hanno dimostrato molti studi sulla neo-liberal city: Swyngedouw et al., 2002; Peck et al., 2009; Brenner, 2017).
L’indagine di Davide Ponzini ha il merito di mettere a fuoco le ambiguità e i nodi più critici di questi processi. Si deve rilevare, innanzi tutto, che troppo spesso sono sottovalutate le condizioni contestuali che hanno favorito il buon esito di alcune esperienze nelle sedi che vengono assunte come modello. Ogni tentativo di imitazione che tenda a isolare una forma, una firma, un operatore o un meccanismo gestionale rischia di essere inadeguato. Questo limite si è manifestato da tempo (cap.1) in relazione al cosiddetto “effetto Bilbao” (dopo il progetto di Gehry per il museo Guggenheim) e al “modello Barcellona” (dopo i progetti innovativi, urbanistici e urbani, curati da Bohigas e altri). In anni più recenti, situazioni analoghe si sono moltiplicate. Il libro illustra casi emblematici come l’High Line Elevated Park di New York, che resta impareggiabile, nonostante alcuni limiti denunciati dagli stessi protagonisti, rispetto ai numerosi tentativi di imitazione; il waterfront False Creek di Vancouver rispetto alla copia elaborata a Dubai Marina; la megastruttura Marina Bay Sands di Singapore rispetto alla riproduzione affine tentata a Chongqing, Cina (due progetti disegnati dal medesimo architetto, Moshe Safdie); la torre Agbar di Barcellona, rispetto al progetto analogo realizzato dallo stesso Nouvel a Doha, Qatar, in un contesto insediativo (West Bay) purtroppo assai più affollato e confuso. Altri riferimenti significativi sono illustrati nei cap. 8 e 9, ed è interessante notare che la mobilità di progetti ed esperienze ormai non è solo un fenomeno che nasce dall’Occidente: il celebrato waterfront di Vancouver trae ispirazioni dalle torri snelle di Hong Kong (casa madre di alcuni investitori nel progetto canadese); Downtown Dubai assume come modello il Kuala Lumpur City Centre (Malaysia); la nuova Abu Dhabi Plaza di Astana (Kazakhstan) riprende, nel nome e nella forma, il Central Market di Abu Dhabi (con la firma del medesimo autore: Norman Foster). Situazioni molto diverse, dalle quali emerge una indicazione comune. L’indagine conferma che solo un’attenzione adeguata per i caratteri peculiari dei contesti, ma anche per il complesso di politiche pubbliche che mirano alla trasformazione e allo sviluppo dell’area, può spiegare le differenze degli esiti e favorire soluzioni migliori.
In secondo luogo, dovrebbe destare stupore e qualche preoccupazione la mancanza di riflessione critica sulle difficoltà e i rischi che accompagnano diffusamente questi processi. Mentre le retoriche del marketing continuano a riprodursi stancamente nonostante la distanza crescente dal corso reale degli eventi, dalle esperienze sul campo emergono indizi inquietanti. Se sembrano reggere le cittadelle del luxury living (peraltro sempre più anonime e atopiche), i tentativi di costruire nuovi distretti urbani multi-uso, con caratteri innovativi e spettacolari, faticano a trovare compimento (anche nel ricco e monocratico Golfo Persico: cap.9). E si deve osservare che in questa fase non sembra emergere ancora il problema dei costi di gestione e manutenzione di certe opere grandiose, ma poco funzionali nel tempo (la bigness può diventare un problema; le rovine dei grattacieli della prima modernità sono una memoria che dovrebbe fare riflettere). Ancora più fallimentare è il tentativo di “fare città” grazie a questi progetti. Nei casi di apparente successo si creano enclaves chiuse e selettive, che nel lungo periodo potrebbero evocare qualche incubo visionario (come ammonisce, per esempio, il film Elysium di Neill Blomkamp, 2013). In generale, si può dubitare della urbanità di molti nuovi insediamenti della Cina o del Golfo Persico (sebbene, nel caso del Golfo, le valutazioni di Molotch e Ponzini, 2019, siano più possibiliste).
Infine, l’autore dimostra che l’evoluzione di un progetto transnazionale tende a produrre risultati relativamente più soddisfacenti solo nei contesti capaci di esprimere una governance strategicamente capace, meglio se democratica e sostenuta da una cittadinanza attiva. Questa è la ragione fondamentale per la quale città come Barcellona, Vancouver, New York o Helsinki hanno saputo conseguire risultati più convincenti di tante imitazioni (tra i casi positivi discussi nel libro è compresa anche Singapore, dove il regime è monocratico, ma l’efficienza amministrativa di lungo periodo diventa una garanzia di successo: Heng, 2017). Contano dunque la forma e l’azione della politica, la partecipazione sociale, la solidità e l’efficacia del sistema amministrativo (e in particolare del planning system), ma attenzione, non bastano i requisiti formali. Diventa decisiva la qualità effettiva delle pratiche: tanto più promettenti se pluralistiche e interattive (con la partecipazione o la partneship di tutti gli attori rilevanti), pragmatiche e riflessive (cioè graduali, sperimentali e capaci di apprendimento), in grado di pervenire a sintesi efficaci e condivise (attraverso le fatiche della democrazia o le scorciatoie del potere monocratico quando può contare su un consenso indiscusso). Questi sono fattori e requisiti che non è possibile importare con un metodo “copy and paste”: devono maturare nel contesto, nel tempo debito.
Queste considerazioni suggeriscono qualche conclusione. Se questi fatti non sono ignorati, diventa difficile confidare nella riproducibilità senza fine delle tendenze di mobilità transnazionale descritte dal libro. Vi è da sperare in un ripensamento critico e realistico, prima che le conseguenze siano ancora più gravi. Non vi è ragione di insistere su retoriche troppo elementari e fuorvianti. Non è sostenibile e neppure utile una visione del mondo che privilegia l’apparenza delle immagini mediatiche e il primato del consumerism (Bauman, 2007 e 2011), dove l’architettura tende a essere considerata un asset finanziario e un consumer product di rango, che si fa spettacolo per risultare più seducente agli occhi di osservatori (supposti) candidi e supini. Dubito che la società contemporanea possa ancora permettersi questi riferimenti: non reggono come guida e neppure come alibi. Ponzini argomenta in modo convincente che solo una visione più realistica e responsabile della natura dei problemi, dei requisiti indispensabili per il rinnovamento necessario, e delle possibilità d’azione effettive nel contesto può guidare verso esiti più sostenibili.
Come risponde l’urbanistica
Di fronte a questi problemi, la risposta disciplinare – ecco un tema che nel libro resta sullo sfondo, almeno fino al cap.11 – appare debole, per l’imparità delle forze in campo e la mancanza di strumenti realmente efficaci. Non regge più (non solo in Italia) un’immagine unitaria, consolidata e influente dell’urbanistica. Sono cambiati i tempi, le condizioni, le opportunità rispetto alla stagione esaltante della modernità urbana e industriale, ma la disciplina ora sembra pagare anche l’incapacità di affrontare le contraddizioni emergenti e di realizzare il rinnovamento che sarebbe stato indispensabile. Nel complesso, la cultura urbanistica ha preferito, invece, fare appello, con vana nostalgia, a modelli e presunte soluzioni che appartenevano a un passato irripetibile. Oppure ha cercato di privilegiare alcune funzioni particolari, che un tempo erano considerate complementari entro una visione comune e bene integrata: come la regolazione, il visioning o la progettazione stessa. La disarticolazione crescente fra queste funzioni e la loro debolezza intrinseca sono un dato oggettivo degli ultimi decenni (non posso soffermarmi sul tema in questa sede, ma un’ampia documentazione e riflessione si trova in Palermo, 2020). La regolazione resta la funzione determinante, ma le norme ordinarie dei piani urbanistici rappresentano un debole baluardo di fronte alle pressioni di grandi interessi e progetti emergenti, di nuova edificazione o trasformazione urbana. I tentativi di costruire sofisticati form-based urban codes non hanno prodotto risultati significativi, nonostante una lunga e vasta sperimentazione, e sembrano ora confinati in campi particolari di esperienze come i tradizionali progetti di vicinato del new urbanism. Le tendenze più comuni, nella generalità dei casi, mostrano l’uso prevalente di regole urbanistiche semplici e poco differenziate nonostante la varietà di forme insediative e caratteri del contesto (sulla base del falso argomento che i diritti edificatori debbano essere uguali per tutti; per equità, invece, dovrebbero essere commisurati alle reali potenzialità di sviluppo urbanistico di ogni ambito spaziale: Bobbio, 1995). Queste regole, peraltro, sono facilmente modificate nel nome di uno stato d’eccezione; anzi, accade spesso che il transnational urbanism porti con sé l’urban code meglio in grado di legittimare i suoi progetti. La funzione del visioning dovrebbe assicurare alle norme e alle azioni urbanistiche correnti un inquadramento adeguato, strutturale o strategico, a medio-lungo termine. Non dovrebbe diventare un surrogato o un diversivo rispetto alla debolezza crescente di regole e progetti. Questo, però, è stato il senso di molte tendenze recenti di spatial o strategic planning, che vengono a svolgere solo funzioni marginali di comunicazione mediatica e giustificazione retorica di una politica o di una scelta. Funzioni che, in questa fase, in molti processi di transnational urbanism sono gestite direttamente dai promotori e investitori: il pacchetto di servizi comprende non solo i progetti di trasformazione, ma anche un complesso di regole e di retoriche a sostegno. Sul piano della costruzione effettiva dei progetti di intervento, la cultura urbanista ha sempre esitato. Secondo tradizioni autorevoli, il compito della disciplina dovrebbe limitarsi a stabilire i presupposti essenziali della progettazione, nella forma di buone regole e visioni (questa auto-limitazione è probabilmente una delle ragioni della caduta di interesse e di reputazione dell’urbanistica nella società contemporanea, che alle sue istituzioni richiede – e apprezza di più – una capacità d’azione effettiva in tempi brevi. Si potrebbe auspicare quanto meno un’efficace funzione disciplinare di design review, cioè la capacità e la forza di correggere e migliorare le proposte progettuali in discussione sulla base di buone ragioni di forma e di contenuto, in relazione a contesti specifici e scopi condivisi. Anche questa via è stata lungamente sperimentata, ma le conclusioni non sembrano confortanti. Questa pratica richiederebbe agli attori disciplinari un impegno e una responsabilità discrezionale che preoccupa o spaventa: meglio ritrarsi negli spazi più insignificanti, ma anche più sicuri dell’esercizio burocratico o meramente comunicativo. Ecco, in breve, perché continua il declino disciplinare e un’inversione di rotta sembra poco plausibile (Palermo, 2020). Se sono queste le condizioni, dubito che la disciplina possa dare un forte contributo alla neutralizzazione delle tendenze transnazionali più discutibili. Queste cadranno, se e quando cadranno, per consunzione interna: per lo scarto crescente e via via insostenibile fra aspirazioni, promesse e fatti compiuti.
Il caso di Milano
Queste considerazioni sono pertinenti anche per la città di Milano. Dove l’impatto del transnational urbanism (che Ponzini analizza nel cap.6) si manifesta chiaramente in relazione ad alcuni progetti recenti di trasformazione urbana che hanno attirato una vasta e spesso benevola attenzione mediatica. Come è noto, il segno più appariscente consiste in una manciata di torri sparpagliate in alcune aree urbane di grande interesse strategico, in assenza di un vero progetto di suolo e, tanto meno, di una visione coerente e funzionale di piano. La conseguenza è un effetto jumble, dovuto a una varietà di interventi parziali che dovrebbero convergere in uno spazio comune, ma risultano in larga parte occasionali e mutuamente estranei. L’innovazione architettonica e urbanistica, in queste aree, è stata una grande opportunità che la città, a mio avviso, non ha saputo cogliere degnamente. Non è certo in discussione la possibilità di innovazioni tipologiche e morfologiche, che pure talvolta suscitano obiezioni di principio, come hanno mostrato casi internazionali ben noti: per esempio, il Beaubourg di Renzo Piano e Richard Rogers a Parigi, o la torre Agbar di Jean Nouvel a Barcellona. Ma proprio quei casi (giustamente evocati dalla riflessione di Ponzini: cap.1) hanno dimostrato la centralità della strategia pubblica: che in quelle situazioni ha saputo concepire un unico intervento architettonico “spettacolare”, potenzialmente in grado di valere come nuova icona del futuro per i suoi caratteri qualitativi e distintivi; garantendo, al tempo stesso, una grande cura per le relazioni con il contesto morfologico e sociale, oggetto di politiche adeguate di rinnovamento e integrazione. La logica milanese, purtroppo, è stata opposta in progetti chiave come City Life e Garibaldi-Repubblica. Forme anonime e decontestualizzate sono state accostate, in modi alquanto arbitrari o occasionali, in ambiti sostanzialmente separati dal loro intorno urbano. Scarsa è stata la cura per le funzioni da insediare: alla fine, solo terziarie e commerciali (banali), e residenziali, con ambizioni selettive che hanno trovato solo parziali riscontri nella qualità effettiva dell’abitare offerta dai due luoghi. Marginale è stata anche l’attenzione per gli impatti dei progetti sul contesto urbano e per la loro possibile integrazione: morfologica, funzionale e sociale. Per quanto riguarda propriamente i luoghi, non si può non rilevare vaste e poco ospitali cementificazioni, estranee ai programmi originari e per di più associate a un microclima non privo di problemi (soprattutto nel caso Garibaldi-Repubblica, dove appare anche irrisolto il rapporto con il traffico urbano). Inoltre, si deve prendere atto che i parchi attesi da una quindicina d’anni si configurano come una funzione sostanzialmente residuale e, ancora oggi, come una sorta di “vuoto verde” inadeguato rispetto alle ambizioni e alle promesse (né può essere un surrogato il Bosco Verticale, iniziativa giustificabile in un insediamento ad alta densità, assai più arbitraria e meramente esornativa nel caso di un progetto di sviluppo che si estende su 350 mila mq, la metà dei quali avrebbe dovuto essere destinata a parco). Di solito i progetti complessi evolvono positivamente nel corso del tempo, grazie al contributo graduale e progressivo di nuovi tasselli, connessioni o parziali revisioni. Temo che non sia questo il caso di Garibaldi-Repubblica, dove gli edifici in corso di completamento aumentano gli effetti di dissonanza o di densificazione eccessiva. Mentre l’impianto di City Life appare sostanzialmente consolidato e le opere in corso di attuazione (per prima la torre di Libeskind) nulla aggiungono alla qualità e al senso dell’insieme (che nostalgia, ancora oggi, per la proposta progettuale di Renzo Piano, che non è stata accolta perché inferiore dal punto di vista dell’offerta economica). Gli esiti giustificano l’entusiasmo dei promotori (che si candidano come possibili maestri di urban redevelopment), ma anche la benevolenza dei media e un obiettivo e diffuso compiacimento popolare (che sembra confermare le narrazioni più elementari del transnational urbanism)? Se mettiamo a confronto queste trasformazioni urbane con i casi descritti nel libro di Ponzini, colpisce la sostanziale modestia degli eventi. Nuove icone, un nuovo brand, la prova di un autentico “rinascimento urbano” della città? Per favore. Io vedo operazioni che presentano limiti evidenti di qualità, rilevanza e adeguatezza. Dove Milano non ha messo in mostra la sua tradizionale medietà: forse la città, in questo campo, si è mossa al di sotto delle attese, per responsabilità che a mio avviso risalgono al sindaco Moratti e alla sua urbanistica priva di senso e di misura, che i suoi successori hanno saputo solo contenere, ma non modificare (quantomeno in questi ambiti).
Il fatto nuovo interessante è la disponibilità ufficiale, da qualche mese (ottobre 2019), di un nuovo piano urbanistico per la città. La rappresentazione inverosimile disegnata una decina di anni fa dal piano Moratti (Arcidiacono e Pogliani, 2011) è stata congelata e solo parzialmente corretta, secondo alcune priorità ed urgenze specifiche, da parte del sindaco Pisapia. Il sindaco Sala ha ripreso in mano la questione urbanistica, con una visione e secondo modalità che meritano attenzione. Tanto enfatica è stata, anche a Milano, la retorica dei grandi progetti di trasformazione, tanto sobrio, quasi dimesso nella forma e nella presentazione, appare il nuovo esercizio di piano (la cui evoluzione sembra aver suscitato nella città un interesse più modesto rispetto al passato). I contenuti essenziali sono coerenti con una visione più equa e sostenibile della città futura. La volontà politica è trasferire una parte dei benefici del processo di crescita, che indubbiamente la città ha saputo intraprendere nell’ultimo decennio, verso aree e componenti sociali fino ad oggi più marginali. Cresce l’attenzione verso i temi ecologici e ambientali rispetto a un’ideologia della crescita essenzialmente edificatoria e infrastrutturale, che è stata dominante durante la stagione precedente. Le possibilità di densificazione sono correttamente correlate alle potenzialità del trasporto pubblico, da migliorare sulla base di programmi fattibili. La progettualità urbana si concentra su un insieme selettivo (e quindi ridimensionato) di grandi trasformazioni, ma dedica una cura inedita a interventi mirati che riguardano nodi strategici, porte della città e quartieri periferici, con lo scopo di riqualificarne struttura, funzioni e articolazioni. Queste scelte urbanistiche diventano una cornice o forse solo un complemento coerente e potenzialmente efficace per un complesso di politiche urbane, ambientali e sociali che sembrano costituire il vero carattere distintivo (e metro di valutazione) dell’azione dell’attuale amministrazione.
È difficile non condividere l’orientamento, che per molti aspetti rappresenta una svolta rispetto al passato, tanto significativa quanto auspicabile. Emergono però anche alcuni limiti. La visione non introduce scenari innovativi e ipotesi originali. È vero che l’orizzonte è soltanto decennale, ma segnalare come cardini delle strategie di sviluppo territoriale solo i progetti per l’area ex Expo e la “Città della salute” (che da tempo dovrebbe essere insediata ai confini fra Milano e Sesto San Giovanni) significa fare i conti con l’eredità del passato più che tentare di concepire un nuovo futuro. Il piano non offre neppure indicazioni incisive sul tema dei grandi progetti urbani. Una questione non inedita, come la possibilità di edificare un nuovo stadio di calcio, rischia di dover essere già affrontata come un’emergenza speciale. Il rilancio strategico del tema degli scali ferroviari dismessi sarà una delle sfide determinanti, ma non trova nel nuovo piano alcun approfondimento specifico. Così come manca qualunque giudizio sulla stagione controversa dei grandi progetti ormai prossimi al compimento (come i due casi che ho brevemente commentato). Sembra dunque difficile che questo piano possa diventare uno strumento efficace di confronto, indirizzo o controllo rispetto a eventuali interessi emergenti di trasformazione urbana. Inoltre, la tecnica di pianificazione presenta alcuni caratteri paradossali. La presa di distanza rispetto al piano Moratti è (giustamente) notevole: le previsioni cancellate ammontano quasi a 2 milioni di mq di sl; vengono aboliti diversi e importanti ambiti di trasformazione strategica, così come si perdono le tracce di varie, inverosimili ipotesi di sviluppo infrastrutturale. Eppure, formalmente il nuovo piano è solo una variante del precedente (questa scelta può essere efficace da un punto di vista procedurale, ma nella sostanza appare più strumentale che coerente). Queste osservazioni tendono a indebolire le ambizioni e il senso possibile dello strumento. L’impressione, francamente, è che la produzione del nuovo piano sia stata un adempimento formale considerato inevitabile, ma pur sempre secondario rispetto al primato sostanziale riconosciuto ad alcune politiche urbane e urbanistiche e alla gestione dei progetti effettivi di intervento in agenda. Nella Relazione generale, infatti, si sostiene: “l’urbanistica non può tutto, deve creare politiche forti per raggiungere i risultati attesi” (p.1). Il piano non è inteso come il compendio esaustivo degli interventi urbani in programma, ma deve diventare “uno strumento efficace di dialogo e coordinamento con la varietà delle politiche e dei progetti urbani in atto” (p.105). La pianificazione, pertanto, è concepita come un processo “incrementale e adattativo”, teso a garantire le condizioni migliori perché la città possa creare sviluppo in forme eque e sostenibili (p.40). In questo senso, semplicità, pragmatismo, chiarezza degli obiettivi e selettività delle scelte diventano requisiti fondamentali dell’iniziativa pubblica, più importanti delle tradizionali funzioni predittive o della stessa imposizione di regole e vincoli su usi e trasformazioni del suolo. Emerge dunque una visione opportunamente riformista e orientata all’azione, dove il pubblico dovrebbe diventare la leva della mobilitazione individuale e sociale verso finalità di interesse (anche) collettivo.
Un piano con queste caratteristiche, però, difficilmente può diventare lo strumento peculiare capace di interagire, direttamente e con successo, con eventuali progetti market-oriented di architettura e urbanistica, sostenuti da forze e interessi privati (come molte manifestazioni del transnational urbanism) che potrebbero essere mobilitati proprio dalle prospettive di sviluppo competitivo della città. Nel caso di Milano trovo la conferma di una mia tesi: non sarà la pianificazione urbanistica la forza in grado di contenere e convertire eventuali spinte discutibili verso la mercificazione e la spettacolarizzazione delle trasformazioni urbane. La possibilità di una reazione pro-attiva e riformista è affidata essenzialmente alla politica: alle sue responsabilità, alla capacità strategica di governance e d’azione, alla necessità di mobilitare e coordinare con successo strumenti molteplici di policy, con realismo e pragmatismo, ma anche senso critico e impegno riformatore (un appello che diventa cruciale in questi tempi). Agli attori disciplinari si chiede disponibilità al cambiamento: dalla cura, esclusiva o prevalente, del piano urbanistico, tradizionale o rinnovato, verso maggiori responsabilità rispetto al corso effettivo (e tempestivo) di politiche e progetti mirati, di natura urbana, ambientale e sociale. Il buon esito dell’iniziativa politica dipende in ogni caso dal grado di consapevolezza e di consenso che la società locale potrà esprimere su questi temi e queste responsabilità. A tale scopo sarà importante ogni contributo capace di confutare certe narrazioni mistificanti che ancora oggi sembrano fare presa sull’immaginario collettivo. Il libro di Davide Ponzini ha il merito di fare chiarezza sulle ambiguità e ipocrisie che accompagnano alcuni processi transnazionali dell’architettura e dell’urbanistica. Dovremmo auspicare che il suo messaggio sia recepito.
Pier Carlo Palermo
Riferimenti Arcidiacono A., Pogliani L. (2011, a cura), Milano al futuro. Riforma o crisi del governo urbano, Et Al Edizioni, Milano Bauman Z. (2007), Consuming Life, Polity Press, Cambridge, UK Bauman Z. (2011), Culture in a Liquid Modern World, Polity Press, Cambridge, UK Benjamin W. (1966), L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino (ed. or. Paris,1936) Bobbio N. (1995), Eguaglianza e libertà, Einaudi, Torino Brenner N. (2017, a cura), Critique of Urbanization. Selected Essays, Bau Verlag, Berlin Comune di Milano (2019), Piano di governo del territorio. Documento di piano: “Milano 2030”. Relazione generale, Milano, marzo Heng C. K. (2017, a cura), Fifty Years of Urban Planning in Singapore, World Scientific Publishing, Singapore Hirsch F. (1976), Social Limits to Growth, Harvard University Press, Cambridge, MA. Jullien F. (2018), L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino (ed.or. Paris, 2016) Molotch H., Ponzini D. (2019, a cura), The New Arab Urban. Gulf Cities of Wealth, Ambition, and Distress, New York University Press, New York Palermo P.C. (2020), “Per una urbanistica semplice, chiara, facile da applicare, rispettare, controllare”, in Arcidiacono A., Barca F., Gabellini P., Galuzzi P., Palermo P.C., Pogliani L., Vitillo P., Riformismo oggi. L’attualità della lezione urbanistica di Giuseppe Campos Venuti, in pubblicazione Peck J., Theodore N., Brenner N. (2009), “Neoliberal Urbanism. Models, Moments, Mutations”, SAIS Review of International Affairs, 29 (1), 49-66 Ponzini D. (2020), Transnational Architecture and Urbanism. Rethinking How Cities Plan, Transform, and Learn, Routledge, London Ponzini D., Nastasi M. (2011). Starchitecture. Scenes, Actors and Spectacles in Contemporary Cities, Allemandi, Torino (2° ed., 2016, Monicelli Press, New York) Secchi B. (1989), Un progetto per l’urbanistica, Einaudi, Torino Swyngedouw E., Moulaert F., Rodriguez A. (2002), “Neo-liberal Urbanization in Europe. Large Scale Urban Development Projects and the New Urban Policy”, Antipode, 34 (3), 547-582
N.d.C. - Pier Carlo Palermo è professore emerito di Urbanistica del Politecnico di Milano dove ha fondato e diretto il Dipartimento di Architettura e Pianificazione ed è stato preside della Facoltà di Architettura e Società.
Tra i suoi libri: Trasformazioni e governo del territorio (Franco Angeli, 2004); Innovation in Planning: Italian Experiences (Actar, 2006); con G. Pasqui, Ripensando sviluppo e governo del territorio (Maggioli, 2008); I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, 2009); con D. Ponzini, Spatial planning and urban development (Springer, 2010); con D. Ponzini, Place-making and urban development (Routledge, 2015).
Per Città Bene Comune ha scritto: Per un'urbanistica che non sia un simulacro (5 febbraio 2016); Non è solo questione di principi, ma di pratiche (18 gennaio 2017); Vanishing. Alla ricerca del progetto perduto (30 giugno 2017); Il futuro di un paese alla deriva (23 febbraio 2018); Oltre la soglia dell’urbanistica italiana (13 settembre 2019).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 22 MAGGIO 2020 |