Quando nel 2016 con Marco Liberatore scrivemmo l’introduzione a La cultura in trasformazione cercammo di ricostruire il percorso che ci aveva portato a lavorare attorno al rapporto tra cultura e mutamento sociale. Si trattava, innanzitutto, di intendere la cultura “come fatto sociale, come atto relazionale e come pratica collaborativa”.
Questo perché abbiamo sempre inteso come “cultura collaborativa” tutte quelle forme emergenti che sperimentano modi collaborativi di progettazione, produzione e distribuzione di opere, beni e servizi nel settore culturale: dall’arte comunitaria “fuori contesto” (concerti sui balconi, spettacoli teatrali nei bar, mostre negli appartamenti) a quella pubblica e relazionale; dalle pratiche di audience development e engagement a quelle messe dei nuovi centri culturali; dal neo-mutualismo hard delle cooperative di precari dello spettacolo a quello soft di alcuni coworking; dal crowdfunding per progetti culturali alle piattaforme digitali per l’incontro tra domanda e offerta; dalla liberazione degli archivi attraverso licenze di public domain all’utilizzo di tecnologie open source nella prototipazione del design; dalle nuove reti bibliotecarie all’attivismo diffuso.
Non solo pratiche, processi o procedure ma soprattutto modi collettivi di costruire senso. Uno sguardo che è sempre stato mosso da un sentire comune, da una lettura critica della complessità e dalla sperimentazione di forme d’impatto culturale sulla società. Ma le parole invecchiano, soprattutto se non ci prendiamo cura di loro. E quindi ha senso provare a guardare indietro – alle radici della cultura collaborativa – ed avanti – a quello che possiamo mettere in campo in questo momento di crisi senza precedenti.
Per molti, le assonanze più immediate della cultura collaborativa sono con l’open culture: l’insieme di forme organizzative, tecnologiche ed economiche sviluppate nel mondo anglosassone, talvolta in contrapposizione e talvolta in continuità con il mix di liberismo economico e libertarismo culturale che oggi chiamiamo Ideologia Californiana. L’open culture, partendo dal do-it-yourself delle prime controculture hacker ed ibridandosi con il sistema produttivo del capitalismo testosteronico statunitense, si è declinata prima in un pulviscolo di start up e poi in un sistema di mega-corporation oligopolistiche. È all’interno di questo paradigma che sono divenute familiari ai più cose come l’uso delle licenze open source nella programmazione, la scrittura collaborativa attraverso piattaforme wiki, il paradigma degli open data, le licenze Creative Commons e l’esternalizzazione della ricerca e sviluppo nelle aziende attraverso forme di open innovation.
Ma l’open culture non è stata altro che la divulgazione in chiave non conflittuale – se vogliamo, sterilizzata – di una serie di pratiche nate attorno ai movimenti sociali degli anni ’90 e ’00: i primi che si sono trovati a combinare le forme sottoculturali e comunitarie sviluppate nei decenni precedenti con nuove pratiche di collaborazione nate con l’avvento di Internet. Reti peer-to-peer per il file sharing e incontri fisici per la condivisione di archivi di musica e film. Archivi collaborativi on line e lavoro distribuito su codice e ipertesti. Meeting di hacker, reti informatiche dal basso e collettivi di attivisti per i media indipendenti.
Da alcuni punti di vista si è trattato dell’attualizzazione in chiave digitale delle esperienze delle riviste underground, delle radio libere e delle fanzine punk. Da altri, invece, ha costituito la creazione di un nuovo humus culturale nel quale le istanze libertarie e di lotta alle disuguaglianze si sono legate indissolubilmente ai valori come la consapevolezza tecnologica in quanto strumento di lotta politica, la condivisione libera dell’informazione, il ricongiungimento tra teoria e pratica, la valorizzazione della produzione dal basso e dai margini, la trasformazione dell’esistente attraverso azioni comunitarie.
Se questi ultimi punti sembrano avere un sapore particolarmente noto è perché non sono sedimentati nei decenni, ma nei secoli. È stato infatti attorno alla metà dell’800 che sono spuntate come funghi in Italia forme di mutualismo, in continuità il socialismo utopico dei falansteri di Charles Fourier, delle comuni di di Robert Owen e di molti altri. Non solo esperimenti sociali ma anche forme di lotta per il riconoscimento dell’istruzione e della cultura come diritto fondamentale. Non a caso si definivano “Società Operaie di Mutuo Soccorso ed Istruzione”, portando iscritto già nel nome il valore della cultura come elemento indispensabile per la trasformazione politica del presente.
D’altro canto, ampliando ancora lo sguardo, potremmo tranquillamente citare le istituzioni-cardine della cultura occidentale che si sono sviluppate sotto il segno della condivisione e della collaborazione. Tra l’XI° e il XII° secolo in Europa fiorirono le università: a Bologna, Cambridge, Montpellier, Oxford, Padova, Parigi, Salamanca e in molti altri luoghi si sviluppò un sistema di insegnamento basato sulla collaborazione tra docenti e studenti provenienti dai luoghi più disparati.
E non era forse basata sulla collaborazione la stessa Accademia di Atene, nella quale maestri e discepoli facevano vita comunitaria e cercavano assieme soluzioni inedite a problemi filosofici e matematici.
L’elencazione potrebbe continuare per pagine, passando in rassegna i luoghi e momenti storici più diversi. D’altro canto, ci sono libri meravigliosi che lo fanno molto meglio di come potremmo mai fare qui, a partire da Insieme di Richard Sennett. Quello che ha senso provare a fare qui, piuttosto, è cercare di capire le prospettive della cultura collaborativa in questo 2020 così radicale. Per farlo occorre mettere in atto nuove forme di relazione tra soggetti che in precedenza non si sentivano parte dello stesso campo. E quindi reti orizzontali, per mettere in comune risorse economiche, culturali, sociali. Ma anche nuove alleanze verticali e trasversali, tra organizzazioni dal basso portatrici di fluidità, intuito e competenze inedite e istituzioni “tradizionali” in grado di dare loro connessioni, saperi, solidità.
Nuove dinamiche, nuovi scambi e nuove topografie, quindi. Ma come? A quali costi? Per chi, e contro chi? La collaborazione costa molto, e per non disperdere i patrimoni accumulati è fondamentale capire come ci si posiziona. Lo si può fare solo riconoscendo i due elefanti nella stanza della cultura – la critica e la politica – una volta pietre miliari del dibattito, poi ossificati e infine rimossi per poter distillare scenari sterili di tecnica pura.
È ingenuo e controproducente pensare che si faccia parte di questi giochi perché si è “buoni”: collaborare non ci trasforma in santi e ricorrere agli stereotipi dell’altruismo incondizionato rischia di trasformarci in macchiette. Questo è un momento che ci chiama alla critica, al conflitto, al realismo, e ci chiede di essere più schietti e trasparenti sul perché si prende parte alle danze, su quali forme di privilegio si riproducono all’interno delle reti e della alleanze, su quello che desideriamo e che ci aspettiamo.
Critica vuol dire anche che oggi più che mai la collaborazione ha bisogno di selezione, scelta, curatela. La riorganizzazione dei processi di produzione portata dalla quarantena ha compresso fino al parossismo i tempi di produzione e di consumo. È chiaro a tutti che – comunque andrà – i prossimi anni continueranno a essere affollati da comunicazioni multicanale, chat, telefonate, videochiamate, letture, richieste di attenzione, di scrittura, di interazione, di presa di posizione, di elaborazione. Non possiamo affrontarli senza costruire percorsi critici di messa in prospettiva, di esercizio della presenza e dell’assenza, di traduzione tra linguaggi e visioni del mondo diverse, di riflessioni interdisciplinari.
Su un piano ancora più ampio, costruire la cultura collaborativa per gli anni ’20 vuol dire ritrovare il senso politico del rapporto tra emancipazione individuale e collettiva ed esperienza culturale. Al netto delle considerazioni blasé sul fallimento della promessa della classe creativa, sulle logiche estrattive della gentrificazione e sulla classe disagiata, la cultura resta ancora uno degli strumenti principali di riorganizzazione degli equilibri di potere, di presa di parola e di intervento sul reale.
Abbracciare questa posizione e le sue contraddizioni vuol dire molte cose, ma forse due sono più importanti delle altre.
La prima è la necessità di superare il miraggio tecnocratico che negli anni’10 ha invertito il rapporto tra strumenti, obiettivi e significati nell’azione culturale, portando troppi a credere che dispositivi – comunque indispensabili – come canvas e business model potessero sostituire la ricerca di senso.
La seconda è che dobbiamo fare un grande sforzo per aggiornare il paradigma della sostenibilità della cultura: da qualche parte, tra mille convegni, proclami sulle community e l’innovazione, a un certo punto in troppi hanno iniziato a credere che “cultura sostenibile” fosse solo quella che fattura, che fa start-up, che fa brevetti.
Se la crisi economica ci chiede di guardare ancora più di prima all’economia, ai casi virtuosi, all’efficientamento, agli impatti ed al rapporto costi/benefici, la crisi sociale ci impone di ricordare costantemente che ogni azione culturale è anche sempre necessariamente dispendio, eccesso, scarto, meraviglia, terrore, sconfinamento, rivolta.
Far finta che non sia così, in questo 2020 troppo reale, rischia di darci una cultura troppo piccola per le vite che stiamo vivendo.