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PONTILI URBANI: COLLEGARE TERRITORI SCONNESSI
Commento al libro di Lucina Caravaggi e Orazio Carpenzano
Alessandra Criconia
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La connessione tra i luoghi dell’abitare (casa, lavoro, tempo libero) e i luoghi dell’accessibilità urbana (stazioni del treno e della metropolitana) – in che modo pensarli e progettarli – è il filo rosso di Roma in movimento. Pontili per collegare territori sconnessi (Quodlibet 2019), il volume di Lucina Caravaggi e Orazio Carpenzano esito di un lungo lavoro di ricerca collettivo. Nei cinque corposi capitoli che compongono il libro viene infatti presentato un articolato ragionamento sulle strategie di superamento dell’insularizzazione dei quartieri delle nuove periferie urbane che impedisce agli abitanti di vivere «[…] una vita urbana alternativa, meno alienata, più ricca di significato e gioiosa, […] aperta al divenire, agli incontri e alla continua ricerca di novità» (Harvey cit. in Caravaggi, p. 22). Tuttavia, nonostante una premessa che prende le mosse dalla paradossale condizione di reclusione dei “nuovi prigionieri urbani” (crf. Caravaggi, pp. 22-42), il libro non lascia spazio ad astratti ragionamenti sociologici, ma procede in maniera pragmatica scandagliando il problema dall’interno, con lo sguardo del progettista: le mappe, i dati e le fotografie che accompagnano i singoli saggi sono un testo parallelo che descrive i contesti e illustra lo stato dei luoghi per tessere la trama di una proposta che trova nel pontile la figura chiave di una nuova infrastruttura-paesaggio: passerelle, ponti pedonali, gallerie verdi, risalite meccanizzate sono dei dispositivi di collegamento che possono diventare dei luoghi di incontro e di scambio della comunità che si muove per andare a prendere il treno o la metropolitana. Sebbene il rapporto casa-stazione non costituisce una novità dal punto di vista trasportistico, esso, scrivono gli autori «[…] può costituire un’occasione significativa di progetto all’interno di una città in uno stato di grave crisi» (Caravaggi, Carpenzano p. 16). Il percorso che separa la casa dalla stazione del trasporto pubblico, il cosiddetto “ultimo miglio”, è infatti uno degli attivatori di un processo di riqualificazione e rigenerazione urbana e ambientale alla scala del quartiere che può contribuire all’innalzamento della qualità della vita e a una distribuzione più equa dell’offerta urbana.
Del resto, che la rete dei percorsi della microcircolazione interna ai quartieri costituisca il fattore di innalzamento della qualità della vita urbana (e della salute dei cittadini) è stato già osservato nelle città dove la mobilità sostenibile è sviluppata: laddove esiste un sistema della mobilità pubblica ramificato e capillare, tendenzialmente integrato con altri mezzi di trasporto, l’accesso ai servizi e alle attrezzature urbane è decisamente più alto indipendentemente dalla distanza tra luogo di residenza e centro della città: si pensi ai casi di Parigi, Londra, Barcellona, Amsterdam o Copenhagen, tanto per fare alcuni esempi conosciuti. In questa direzione, il libro fa un passo avanti a partire dalla necessità di riconvertire la mobilità individuale con l’automobile in una mobilità più ecologica e salutare a piedi e in bicicletta. Se infatti, citando gli autori, « […] per raggiungere una stazione si è costretti a utilizzare l’auto propria, i benefici dello spostamento su ferro si riducono drasticamente. Il problema non è solo quella di limitare l’accesso alle aree centrali evitando che le auto si spingano fino ai margini della città storica e consolidata (obiettivo che rimane ovviamente importantissimo) ma permettere a tutti di spostarsi in modo non distruttivo» (Caravaggi, Carpenzano p. 16). La tematica che appare sullo sfondo è quella dell’intermodalità esplorata in una chiave ambientale per superare l’attuale interpretazione, riduttiva, degli enormi parcheggi costruiti ai margini delle stazioni delle periferie e isolati dal centro città che la sera si trasformano in spazi abbandonati e insicuri. Al contrario, scrivono gli autori, «[…] lo scambio tra sistemi di spostamento diversi dovrebbe assumere la configurazione di una rete diffusa, ramificata, capace di drenare gli insediamenti, come già largamente sperimentato in molti contesti metropolitani.» (Caravaggi, Carpenzano p. 16)
Una questione di metodo
Su queste tematiche, il libro Roma in movimento offre diversi spunti di riflessione che vanno oltre il caso specifico della Capitale. Il viaggio nelle banlieues periurbane di Roma a cavallo del GRA, fanno della città un caso studio esemplare di criticità e potenzialità che sono riscontrabili anche in altri contesti metropolitani. Ma soprattutto, a essere emblematico sono il percorso e il filo metodologico della ricerca. Riprendendo un aspetto fondamentale della pratica del progetto basata sulla conoscenza dei luoghi, il volume si interroga sui processi di crescita e costruzione della città, seguendo un rigoroso percorso di analisi che, come bene spiega Cristina Imbroglini, ha bisogno di un cambio di passo (Cfr. Non chiamatela periferia, pp. 52-82). Per capire lo sviluppo diseguale dei territori che ha messo definitivamente in discussione il termine periferia – allo stato attuale, la periferia viene identificata non più soltanto dalla distanza dal centro, ma anche da una condizione di isolamento riconducibile, tra i vari motivi, alla carenza di servizi e alla difficile accessibilità delle infrastrutture –, c’è bisogno, alla maniera di George Perec di «fare l’inventario di quanto si vede, elencare ciò di cui si è sicuri, stabilire relazioni elementari» (Perec cit. in Imbroglini, p. 52). Per descrivere le numerose “specie di spazi” delle nuove periferie periurbane, c’è più bisogno dei dati sulle densità abitativa in rapporto alle infrastrutture e delle campagne fotografiche degli usi dei suoli che delle tradizionali categorie di analisi morfo-tipologiche. Roma è un caso evidente.
Ma se per un verso l’indagine quantitativa e qualitativa dei quartieri a cavallo del GRA ha mostrato una ricchezza e una potenzialità di trasformazione straordinari, la disamina dei piani che si sono avvicendati dal momento in cui la città è stata nominata capitale del Regno d’Italia, rivela uno scarto tra prefigurazione e capacità di realizzazione che sottilinea l’incapacità della macchina politico-amministrativa pubblica di portare a compimento i progetti. Le criticità della città metropolitana sembrano essere dovute più al conflitto depotenziato di forze contrastanti e a radicate dinamiche speculative che alle visioni utopiche degli urbanisti e degli architetti. Nel caso di Roma, è vero anche per l’ultimo piano regolatore. Nonostante la spinta data dalla giunta Rutelli alla realizzazione della città metropolitana con il Piano delle Certezze, l’ultima variante del noto piano del 1962 dell’Asse attrezzato, l’alternativa riformista fondata sulla “cura del ferro” e la salvaguardia ambientale è riuscita a realizzarsi solo parzialmente, lasciando scoperti diversi fronti, tra cui quello dell’innervamento della microcircolazione nella grande rete e delle connessioni interne ai quartieri. Non sono bastate le disposizioni di legge messe in campo a partire dagli Interventi per Roma capitale della Repubblica (Lgs. 396/1990), e neanche i protocolli di intesa tra Regione Lazio, Comune, Provincia di Roma e FF.SS. (1994 e 2006), i piani quadro del traffico urbano (PGTU del 2015), della mobilità sostenibile (PUMS del 2019), i progetti della linea C della metropolitana, del GRAB, della Metrovia, a superare, come scrive Carpenzano, le criticità della rete romana che continua a soffrire la mancanza di un’unitarietà della rete a scala regionale e metropolitana e della razionalizzazione dei servizi esistenti (cfr. Mobilità e progetti mancati pp. 88-134).
Forma e spazio del pontile urbano
Sta qui però, nel punto debole del caso Roma, la chiave di innesco di un cambio di paradigma che vede nella forma elementare del pontile urbano una sorta di figura archetipica della città contemporanea: un elemento semplice e riproducibile in contesti differenti secondo il criterio della variazione del tipo, flessibile quanto serve per adattatarsi alle variabili che intervengono nel tempo del progetto. Una figura di riferimento che può diventare di volta in volta, come già detto inizialmente, una passerella, un ponte, una galleria verde, una risalita meccanizzata, la cui fonte di ispirazione è il concetto di “dispositivo” di Michel Foucault ripreso dagli autori per definirne i caratteri: «[…] un insieme di elementi eterogenei, di natura materiale e immateriale, correlati tra loro dalle attività che essi stessi supportano, capaci di evidenziare nuove razionalità ambientali, generare narrazioni e riappropriazioni collettive, organizzare usi socialmente ed ecologicamente produttivi» (Caravaggi, Carpenzano p. 245). In sostanza, il pontile urbano è qualcosa di più di un elemento funzionale del percorso tra la casa e la stazione: è un’infrastruttura del paesaggio progettata in stretta relazione al contesto urbano e ambientale di riferimento ma inquadrata nella dimensione metropolitana che intreccia e mette in rete il locale con il globale caricandosi di una molteplicità di usi e significati. La stessa immagine del porto evocata dal termine “pontile”, rinvia alla complessità insita in questo archetipo contemporaneo. Come in un molo, il pontile è una struttura leggera stesa tra l’acqua e la terraferma che consente di effettuare le operazioni di carico e scarico delle merci e di imbarco dei passeggeri su barche e navi, analogamente il pontile proposto dalla ricerca permette di superare le fratture create dal passaggio di strade e ferrovie a quanti quotidianamente si muovono avanti e indietro per andare al lavoro, tornare a casa, fare la spesa, e via dicendo. In tal senso il punto di forza, e il salto di qualità, del pontile urbano è la sua natura ibrida di spazio e luogo dell’attraversamento che intercetta le pratiche dell’ecologia civica permettendo una sintesi tra i processi dall’alto e quelli dal basso. È infatti grazie alla configurazione di nuove spazialità interconnesse e condivise che si può riformulare un “contratto territoriale” tra quartiere e città. Solo una relazione con i luoghi della vita quotidiana che tenga conto della condizione di radicamento plurimo, parziale e provvisorio dell’individuo metropolitano, mobile e spaesato, può ristabilire quel rapporto tra urbs, civitas e polis, senza il quale non c’è superamento delle criticità dell’abitare. «[…] La progressiva insularizzazione di territori ed ecosistemi coinvolge anche le comunità locali che si trovano spesso imprigionate, limitate nelle possibilità di movimento e più in generale di accesso democratico alle cosiddette “opportunità” della vita urbanizzata», scrivono Caravaggi e Carpenzano (p. 246). In tal senso il progetto di una figura di piccola scala com’è quella del pontile urbano, in tutte le sue accezioni, diventa, come si coglie nelle sperimentazioni pubblicate nella parte finale del volume, tanto una risposta a un’esigenza concreta qual è quella di collegare e rendere accessibili i luoghi dell’abitare “distante”, quanto un atto di ricostruzione della fiducia collettiva nel progetto di architettura. In tal senso il pontile è anche una figura della resilienza delle popolazioni residenti che alla luce della diffusione di un virus letale che ha colpito il mondo globale a partire dai suoi modi di muoversi e dai suoi riti di abitare e stare nello spazio aperto, si delinea come strategica. Certamente il pontile non è la risposta finale alla pandemia, ma il suo essere un’infrastruttura ambientale con elevate qualità ecologiche, ramificata e interconnessa, può favorire una fluidificazione della circolazione e del movimento delle persone e un incremento del walkability. In poche parole, il pontile è un possibile anticorpo urbano: perché la soluzione alle pandemie non dovrà essere quella di restringere la vita urbana al perimetro di una casa, ma di tornare a muoversi e circolare in condizioni commisurate, fatta salvo l’acquisizione di stili di vita responsabili.
Alessandra Criconia
N.d.C. - Alessandra Criconia è professore associato di Composizione architetettonica e urbana. Insegna alla Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma ed è responsabile, tra gli altri, del progetto di ricerca «SURFas, Strategie Urbane Reti e Forme dell’abitare sostenibile». Fa parte della Fondazione per la critica sociale per cui cura la sezione sul «diritto alla città». Tra i suoi libri: La stazione della metropolitana propulsore di urbanità diffusa (ArE, 2018; con G. Bianchi); La qualità dell’urbano. Roma periferia Portuense (Meltemi, 2010; con A. Terranova); L’architettura dello shopping. Modelli del consumo a Roma (Meltemi, 2007). N.B. I grassetti nel testo sono nostri
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 12 GIUGNO 2020 |
CITTÀ BENE COMUNE
Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale
ideato e diretto da Renzo Riboldazzi
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P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)
V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)
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G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle donne.it, 2019)
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