Roberto Leggero  
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CURARE L'URBANO (COME FOSSE UN GIARDINO)


Commento al libro di Marco Martella



Roberto Leggero


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Piacerebbe anche a me poter dire, come fa la protagonista del romanzo per bambini Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett, “forse è questa la chiave del giardino” (1). Piacerebbe anche a me far scattare la serratura della comprensione. Sia detto per inciso, Frances Hodgson era una scrittrice e una giardiniera appassionata, convinta delle funzioni pedagogiche e terapeutiche del giardino. Se ricordate la storia narrata nel libro, la piccola orfana Mary è incuriosita e attratta da un giardino segreto, racchiuso da alte mura, che si trova all’interno del parco della grande villa di Misselthwaite nella quale vive ospite dello zio. La porticina di accesso al giardino è chiusa ma, un giorno, lei ne ritrova la chiave.

Trovo che sia molto interessante l’idea del giardino dentro il giardino o, come scrive Marco Martella nel suo libro – Un piccolo mondo, un mondo perfetto (Ponte alle Grazie, 2019) – di “un mondo dentro al mondo” (p. 11) e cioè l’idea che un giardino possa ospitare una forma più segreta e marginale di giardino, simile a quella zona di confine, a quella soglia tra giardino e bosco di cui parla lo stesso Martella ricordando la vicenda di Elsie Wright e Frances Griffiths e delle fate di Cottingley (p. 21) (2). Tuttavia, a ben vedere, questa espressione è una tautologia cioè una ripetizione con altre parole del medesimo concetto perché, etimologicamente, tutti e due i termini – “giardino” e “segreto” – esprimono l’idea di separazione, di recinzione, di qualcosa che è appartato. Ma, naturalmente, ciò che per eccellenza risulta separato è il sacro, perché sacro è appunto ciò che è appartato e separato dal mondo umano.

Ha scritto Jörg Rüpke, in un bellissimo volume che analizza la nascita della religione romana (3), come all’origine dei processi di comunicazione tra gli esseri umani e i loro aiutanti invisibili (ciò che diverrà poi la religione) vi sia il sacrificio degli oggetti che gli esseri umani realizzano e usano per vivere. Già nell’Età del Ferro (circa X secolo a.C. per la penisola italiana), tali oggetti, o loro copie miniaturizzate, venivano abbandonate come sacrificio in luoghi particolari, per esempio presso le acque stagnanti, ai margini degli abitati (4), «dove – scrive Rüpke – sebbene non po[tessero] essere visti (…) qualcuno prova[va] a mettersi in contatto» (5) con i misteriosi aiutanti. All’interno del territorio sul quale tali antiche popolazioni vivevano, un territorio quasi del tutto naturale, esistevano luoghi protetti, riservati e meravigliosi dai quali si poteva sperare di far giungere una parola che desse origine a un contatto. Questi luoghi, separati ma non del tutto, suggestivi e potenti, attiravano chi voleva entrare in comunicazione con ciò che non si poteva vedere. Erano luoghi, per usare le parole di Martella a proposito dei giardini, dotati di un carattere, di una Stimmung, cioè un’atmosfera e uno stato d’animo insieme (p. 17).

Ma qual era la relazione tra l’oggetto depositato in quei luoghi speciali, l’essere umano che lo depositava e la controparte invisibile con la quale si voleva comunicare? Depositare copie miniaturizzate di vasi in uno stagno o in una fonte non significava cercare di mettersi in contatto con divinità vasaie. Gli oggetti parlavano dei loro proprietari: «gli esseri umani – scrive Rüpke – si attaccano agli oggetti, vi associano memorie e sentimenti; la loro produzione e cura richiede sforzi, processi di scambio (…) le biografie degli esseri umani e degli oggetti si intrecciano» (6). Abbandonandoli in quei luoghi speciali, collocati nei pressi degli abitati, i vivi sacrificavano qualcosa di sé per comunicare con entità invisibili la cui presenza era incerta. Tali oggetti erano destinati a «innescare esperienze» (7). Non si può non pensare – leggendo che gli oggetti offerti all’invisibile erano spesso lungamente usati e dunque “impregnati”, per così dire, delle esperienze e della vita dei loro proprietari – agli strumenti del giardiniere: la zappa, la vanga, il coltello da innesto. Spesso, questi non sono né nuovi né scintillanti, ma modificati e segnati dall’intensità dell’uso e dalle mani dei loro proprietari.

È evidente che chi entrava in quei luoghi suggestivi e sacri, appartati e separati, dove poteva accadere ciò che non accadeva altrove, sapeva bene di avere varcato una soglia, di essere penetrato in un recinto nel quale, come dice il roveto ardente a Mosè, occorre togliersi i calzari prima di entrare perché la terra è sacra (8). Le riflessioni di Rüpke, descrivono efficacemente anche quella commistione di attesa, stupore, meraviglia e comunicazione – voglio sottolineare questo termine anche se lascio per il momento incerto il destinatario della comunicazione stessa – che nel libro di Marco Martella sono esattamente i sentimenti collegati all’atto di entrare in un giardino. In un luogo separato, circoscritto, in ogni giardino, si sono accumulate memorie ed esperienze che, a loro volta, sono destinate a originare esperienze nuove nei visitatori. In effetti, il giardino, più che posseduto, è vissuto. Le piante, le erbe, i fiori, i frutti, più che proprietà del giardiniere, si presentano come forme di vita collocate in un luogo nel quale o attraverso il quale, i giardinieri e i visitatori hanno la possibilità di costruire delle nuove esperienze. Sono esperienze vitali, cioè di preparazione alla vita e alla morte, come ci ricorda Martella nel breve ma intenso ritratto di Pia Pera (1956-2016) intitolato I fiori di questa primavera (pp. 85-91) (9).

Mi sembra anche che il giardino richiami un altro aspetto delle pratiche pre-religiose antiche: esso è un’esperienza individuale ma può avere una dimensione collettiva. Come i santuari antichi rappresentavano esperienze religiose di successo di qualcun altro, ma potevano essere usati come “luoghi speciali” per invocare i “nomi particolari” che ciascun individuo dava alle entità invisibili (sto sempre parafrasando Rüpke), così il giardino rappresenta il successo del lavoro di qualcun altro, il cui valore si mantiene anche quando è tramandato e vissuto in modo nuovo e diverso da altri proprietari. Come nei santuari antichi ciascuno può rivolgersi al suo dio senza che ciò significhi negare tutti gli altri dei.

La stratificazione di generazioni di piante, di lavori e di significati, che inizia tracciando un perimetro, indispensabile a definire il “piccolo mondo”, consente di esplorare un’altra dimensione del “giardino dentro il giardino”. Non si tratta solo di separare una porzione del mondo per curarla e accudirla, ma di rendersi conto che, nonostante gli sforzi, anche il “piccolo mondo”, non solo quello “grande”, sfugge alla nostra capacità di programmazione e di organizzazione. Questo è evidente nella descrizione di Martella del giardino di Versailles “senza misura”, carico di hubrys, ma nel quale gli alberi si ribellano e la materia vegetale è in costante movimento e perciò sfugge alle forme definite da Le Nôtre (pp. 81-82). O nella lettera che Jorn de Précy nel 1913 invia a Hermann Hesse e che Martella riporta nel suo libro: de Précy scrive che si è abituato a tollerare le ortiche nel suo giardino perché anch’esse hanno la loro ragione d’essere se sono lì (p. 62) (10). Ciò significa abdicare al controllo ma non alla responsabilità della cura. In ultima analisi significa rendersi conto che dentro quel microcosmo c’è anche il macrocosmo, e che disporsi ad accettare la responsabilità della cura significa prendere posizione, e trovare una collocazione, rispetto all’uno e all’altro. Significa prendere una posizione politica.

Per questo vorrei tracciare un percorso tangente al libro di Carlo Martella, quello del rapporto tra giardino e città, perché è evidente come le considerazioni che andavo facendo circa la struttura separata e recintata del giardino possano applicarsi anche al contesto urbano soprattutto se, guardando al passato, ricordiamo che le città europee erano insediamenti cinti da mura, le quali sono state abbattute solo in tempi relativamente recenti. Anche il limite urbano definisce un recinto sacro. È inutile sprecare le citazioni ma, come scriveva Carlo Cattaneo a metà dell’Ottocento, se la città può essere considerata il principio ideale della storia italiana è perché «La fede popolare derivò la città di Roma dalla città d’Alba; Alba da Lavinio, Lavinio dalla lontana Troia; le generazioni dei popoli apparvero nella loro mente generazioni di città» (11), tutte – a eccezione d’Alba – segnate mitologicamente dalla morte di un eroe, da Turno a Remo.

Non è difficile comprendere per quale ragione il concetto di recinto e quello di soglia, implichino un sacrificio e una dimensione sacrale. Spesso, sotterrate sotto le soglie delle case o delle porte delle città di età antica, gli archeologi ritrovano piccoli cadaveri di animali, cani soprattutto, il cui ruolo era quello di sacralizzare la soglia e difendere coloro che vivevano all’interno (12). Ma se la città è un luogo circondato da mura, che apparentemente lascia all’esterno la natura, non bisogna dimenticare che, per esempio, le città greche, tranne che in caso di guerra, tenevano le loro porte aperte e che al mattino dalla città si muovevano gli agricoltori che andavano a coltivare i loro terreni (13). Così, ricordando il Fedro di Platone, si scopre come fosse facile per Socrate e i suoi seguaci trovare appena fuori dalle mura cittadine luoghi pieni di grazia, di ombra e di frescura dove fermarsi a discutere. Luoghi speciali e sacri (14).

Venendo a periodi più prossimi alle mie competenze, vorrei ricordare come le città medievali italiane racchiudessero al proprio interno orti e giardini, e come appena al di fuori delle mura si trovassero giardini, frutteti e coltivazioni. C’era una agricoltura intraurbana e periurbana particolarmente importante e intensa che rendeva meno netta la distinzione tra il fuori e il dentro, tra la campagna e la città. Certo i giardini urbani erano soprattutto votati alla produzione di ortaggi e frutti ma, anche grazie alle associazioni colturali, ciò non impediva al giardino e al giardiniere di dare origine alla bellezza, come accade nel giardino di Saint-Cyr-la-Rosière (pp. 92-102) o nell’oasi di Quebrada de Jerez (104-106), descritti da Marco Martella. A proposito di quest'ultima Martella scrive: «guardo gli alberi carichi di mele ancora acerbe, di prugne, pere, fichi, ammiro il groviglio dei rami in cui appaiono qua e là, nell’ombra, i fiori rosso vivo di rose rampicanti e mi sembra di essere in presenza del primo giardino. Un giardino che sembra uscito dal mito e entrato nella Storia» (pp. 105-106). L’immagine di Trento di Franz Hogenberg, edita a Colonia nel 1581, e basata sulla pianta di Trento di Andrea Vavassore del 1562, illustra bene, a mio parere, il rapporto quasi osmotico che le città della prima età moderna avevano ancora con il proprio territorio. È perfettamente evidente come le aree coltivate interne alla città e quelle collocate immediatamente all’esterno di essa formino un’area omogenea che la presenza delle mura non interrompe davvero. Muovendoci da un capo all’altro dell’arco alpino, se consideriamo la città francese di Grenoble vediamo nuovamente una situazione nella quale giardini e coltivazioni si trovano sia all’interno sia all’esterno delle mura. Per quanto sorprendente possa sembrare, ancora nell’Ottocento per molte città le cose stavano in questo modo. Anche a Grenoble attorno alla città si estendevano orti per la produzione locale e per l’esportazione e giardini privati (15).

Non mi sembra incongruo mettere in relazione le città con i giardini. I confini dei giardini che sorgono in campagna che cosa pretendono di separare? La natura dalla natura? Forse un certo ordine da un certo disordine. Forse è la città intera a costituire il “mondo dentro il mondo”, a essere essa stessa l’hortus conclusus all’interno del quale si aprono altri giardini, cioè altri mondi. Ma se così fosse, allora è proprio l’ordine urbano che chiede e necessita dell’ordine naturale per completarsi. È così nel caso di Novara, descritta all’inizio dell’Ottocento, come una città che «per l’elevata sua posizione offre paesaggi amenissimi: breve è il passo che ad essi conduce i novaresi dal centro della loro città. Dal portico dei mercanti si trovano (...) quasi per incanto trasportati a godere dell’ombra cortese di alberelli nostrali ed esotici di genere e specie diversi, tra praticelli smaltati di erbe e di fiori; donde si allegrano del vaghissimo aspetto delle sottoposte campagne, della selva che adombra le sponde del tortuoso Agogna, e di quella scena bellissima che dal Monviso al Monte-Rosa ed al Sempione chiude dall’estremo ponente a tramontana l’esteso magnifico orizzonte» (16). Come appare evidente non solo non si percepiva una vera separazione tra la città e le sue immediate e verdeggianti vicinanze, ma la città stessa veniva completata dalla natura e dai panorami che la circondavano (17).

Per questo, cercando di rispondere a Fabio Di Carlo che ci ha sollecitati a riflettere se «Oggi ancor di più il giardino, senza smettere di essere spazio separato, delimitato, si rivolg[a] all’esterno, divent[i] luogo dal quale ripensare il mondo, propone[ndo] modelli ecologici, politici, filosofici, di abitare sulla terra, spesso in rottura con quelli dominanti» (18) mi chiedo se la tensione tra la città, intesa come spazio costruito, e il giardino, pubblico o privato (19), inteso come spazio artificiale sì, ma vivente, non possa tendere a un pareggio. Come ha scritto il sociologo, urbanista e filosofo francese Henry Lefebvre (1901-1991): «L’urbano non è indifferente a tutte le differenze, poiché appunto le riunisce. In questo senso la città costruisce, sprigiona, libera l’essenza dei rapporti sociali: l’esistenza reciproca e la manifestazione delle differenze provenienti dai conflitti o andanti fino ai conflitti» (20). E questo mi sembra anche il compito del giardiniere.

La cura di ciò che esiste significa trasformare ciò che non è giardino in giardino. È possibile farlo anche con l’urbano? Riconoscere, come scriveva Italo Calvino, «chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»? Anche perché poi ci sono solo due modi per vivere all’inferno, prosegue Calvino, diventarne parte fino al punto da non vederlo più, mentre il secondo, che è rischioso, esige attenzione e apprendimento continui, consiste nel cercare e saper riconoscere chi e cosa non sia inferno. E questo mi sembra proprio il compito del manutentore di giardini e di città: mantenere la stratificazione e la mescolanza, non solo tra ciò che è propriamente urbano, ma anche tra ciò che è città e ciò che non lo è, i viottoli non asfaltati, gli alberi, le piccole aree vuote utili alla biodiversità, le acque, trattando ogni parte della città come se fosse parte di un giardino. Mi conforta ancora, nel proporvi tale idea, la riflessione di Henry Lefebvre, quando scrive: «Soprattutto la segregazione, la costituzione di spazi periferici e poveri che permettono la riproduzione dei rapporti di produzione (…) questa segregazione costituisce una negazione teorica e pratica dell’urbano» (21).

Molti di noi hanno visto un film americano, Hunger Games (22). Nel film una società del futuro la cui classe dirigente è installata in una megalopoli, per tenere sotto controllo i distretti provinciali organizza periodicamente degli spettacoli gladiatori. La trama non è particolarmente originale ma questi scontri si svolgono in un’arena che, in ultima analisi è proprio un giardino o, per meglio dire, un giardino tropicale che si trova in una serra. Benché tale giardino sia completamente manipolabile dai suoi creatori, rimangono sempre delle possibilità impreviste utilizzate dai protagonisti per sfuggire ai loro nemici. Ora, e concludo, mi è capitato spesso di pensare alle scene di quel film l’estate scorsa, quando vedevamo navi cariche di migranti tenute al largo dalle coste per giorni. Mi sembrava che quello fosse il nostro Hunger Games. Il mare, la traversata, le navi militari, ostacoli di tutti i tipi che sorgevano e si moltiplicavano davanti alle telecamere accese, il rischio della morte sempre presente. Esattamente come nel film, lo spettacolo si svolgeva sotto i nostri occhi generando stupore, orrore, giubilo e tifo. Come giustamente diceva Calvino è facile accettare l’inferno. Ma cosa c’entra tutto questo con i giardini? La cura, la manutenzione, la spesa e la dedizione del giardiniere, a me pare, non hanno l’obiettivo di costruire giardini immobili e inattaccabili. Così come, e lo abbiamo scoperto a nostre spese, la vita urbana non è intoccabile, immutabile e impermeabile. Mi pare – e se ho capito bene è questo uno dei messaggi del libro di Marco Martella – che solo la mescolanza tra il dentro e il fuori, la comprensione della inarrestabilità della vita, il tentativo di sostenere chi è debole e di aiutarlo a crescere e a svilupparsi, siano azioni degne di un giardiniere.

Roberto Leggero

 

 

 

 

Note

1) Frances Hodgson Burnett, Il giardino segreto, Einaudi, Torino 2010 (ed. or. New York 1911).
2) Il capitolo del libro di Martella, intitolato The coming of the Fairies, pp. 21-26, narra la vicenda di una “truffa” realizzata da due bambine, Elsie Wright e Frances Griffiths appunto, che tra il 1917 e il 1920 realizzarono alcune fotografie di fate che divennero un “caso” in Inghilterra.
3) Jörg Rüpke, Pantheon. Una nuova storia della religione romana, Einaudi, Torino 2018.
4) Ibid., p. 34.
5) Ibid., p. 25.
6) Ibid., p. 36.
7) Ibidem.
8) Esodo 3, 1-5.
9) Slavista, traduttrice, ha insegnato letteratura russa all’Università di Trento. Giardiniera e scrittrice ha pubblicato L’orto di un perdigiorno. Confessioni di un apprendista ortolano, Ponte alle Grazie, Milano, 2003; Il giardino che vorrei, Ponte alle Grazie, Milano 2006 e 2015; Contro il giardino dalla parte delle piante, Ponte alle Grazie, Milano 2007; Giardino & ortoterapia, Salani, Milano 2010; Le vie dell'orto, Terre di mezzo, Milano 2011; Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie, Milano 2016. In quest’ultimo testo affronta il dramma della malattia che la condurrà alla morte.
10) Martella, Un piccolo mondo, p. 62: «Anche esse hanno la loro ragione d’essere (altrimenti perché sarebbero là dove sono?) e ho finito per accettarle, benché ovviamente le stramaledica se mi capito di calpestarne una quando cammino a piedi nudi in giardino».
11) Carlo Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in “Crepuscolo”, 42, 1858, p. 657.
12) Jacopo De Grossi Mazzorin, L’uso dei cani nel mondo antico nei riti di fondazione, purificazione e passaggio, in Uomini, piante e animali nella dimensione del sacro, Atti del Seminario di studi di Bioarcheologia Cavallino (Lecce) 28 – 29 giugno 2002, a cura di F. D’Andria, J. De Grossi Mazzorin, G. Fiorentino, Edipuglia, Bari 2008, pp. 71-81, qui p. 77: «Infine è presente un altro rito legato al mondo agricolo: il sacrificio di un cucciolo che veniva celebrato nei pressi di una delle porte della città di Roma, che dall’animale immolato prendeva il nome di Porta Catularia. Dal sacrificio della Porta Catularia veniamo quindi ad affrontare il tema più specifico del sacrificio simbolico di un cane-guardiano nella fondazione delle mura della città, in un punto chiave del sistema difensivo stesso. A questo tipo di rito infatti potrebbero ricondursi i resti di cane rinvenuti a Fidenae, come quelli documentati a Roma nei pressi della Porta Mugonia (...) o nelle mura coloniali di Ariminum (...) o del bastione settentrionale della porta Marina di Paestum». Inoltre alla nota 49 l’autore aggiunge: «9 altri casi di cani sepolti nelle fondazioni di opere difensive della città si hanno anche in Inghilterra nella città Romano-Britannica di Chester-le-Street, in particolare sotto il pavimento di una delle due torri della porta occidentale, e a Caerwent sotto la torre nordoccidentale delle mura cittadine; entrambi i contesti sono databili al III-IV sec. a.C.».
13) Mogens Herman Hansen, Polis. Introduzione alla città-stato dell'antica Grecia, Università Bocconi, Milano 2012, p. 38.
14) Nel dialogo Fedro e Socrate escono da Atene chiacchierando, e camminano lungo il corso dell’Ilisso per trovare il posto migliore dove sedersi all’ombra. Lo trovano, infatti, sotto un platano altissimo e Fedro identifica immediatamente il luogo, per la sua amenità, come quello dove, secondo il mito, Borea rapì Orizia. Quest’ultima era la figlia di Eretteo re di Atene, rapita dal vento del Nord. Socrate, però, lo smentisce e colloca l’evento a due o tre stadi di distanza, sempre sull’Illisso laddove, a quel tempo, sorgeva un altare. Fedro interpreta lo spazio naturale come lo sfondo adatto per il manifestarsi degli dei mentre Socrate fornisce a Fedro una lettura razionalizzante dell’evento (e anche dello spazio) a partire da una sua più precisa collocazione geografica, anche se alla fine rifiuta di dare un’interpretazione definitiva al mito. Riferendosi poi al luogo scelto da Fedro, Socrate ne esalta le caratteristiche che deliziano tutti i sensi: il profumo dell’agnocasto, il frinire delle cicale, il venticello, l’erba e il pendio che sembrano fatti apposta per il riposo e la presenza di una fonte d’acqua molto fresca che, circondata com’è di immagini femminili e piccole statue, si rivela essere un luogo ritenuto sacro.
15) Félix Crozet, Descriptio des cantons du Dèpartement de l’Isère. Les trois cantons de Grenoble, 1, Arrondissement de Grenoble, Grenoble 1870, p. 7: «Dans la plaine, le cultures les plus variées occupent le sol; autour de Grenoble, les cultures maraîchères et les jardins d’agrèment; plus loin, le chanvre, le froment et les prairies artificielles»
16) Goffredo Casalis, Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S.M. il re di Sardegna, 12, Torino 1843, 128.
17) Casalis, Dizionario geografico, p. 133: «Nei dintorni delle mura della città si vedono molti orti che producono erbaggi di ogni sorta e saporiti: e gli ortolani novaresi ne provvedono tutti i mercati di questa provincia (…) e perfino di alquanti paesi oltre il Ticino: i selleri [sedani] di Novara in ispecie hanno pregio anche in Milano».
18) Intervento tenuto il 18 maggio 2020 nel corso della conferenza di Marco Martella, Il giardino: isola e paesaggio, organizzata da Fabio Di Carlo (Sapienza Università di Roma) e con la partecipazione di Isotta Cortesi, Andrea di Salvo e Roberto Leggero.
19) Non si creda che per l’autore i giardini pubblici e quelli privati siano la stessa cosa. Non lo sono, evidentemente, ma nella intensità della vita urbana, spesso gli uni e gli altri vengono minacciati perché ne inceppano i meccanismi manutentivi, viabilistici o proprietari.
20) Henry Lefebvre, La rivoluzione urbana, Armando Editore, Roma 1973, p. 195.
21) Henry Lefebvre, Il diritto alla città. Spazio e politica, II, Moizzi Ed., Milano 1972, p. 30.

22) Hunger Games (2012), regia Gary Ross, produzione Lionsgate, sceneggiatura di Gary Ross, Suzanne Collins e Billy Ray. Il film è tratto dalla trilogia di romanzi di Susanne Collins Hunger Games (2008); Catching Fire (2009); Mockingjay (2010).

 

 

 

N.d.C. - Roberto Leggero insegna all'Accademia di architettura di Mendrisio. Laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano, dottore di ricerca in Storia medievale (Padova), ha collaborato con la cattedra di Storia della chiesa medievale e dei movimenti ereticali dell’Università degli Studi di Milano. È stato membro della Commissione scientifica dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società contemporanea Pietro Fornara di Novara e svolge attività di ricerca presso il LabiSAlp dell’Accademia di architettura occupandosi di storia medievale, delle Alpi, della città e di beni comuni.

Tra i suoi libri: con Arianna Brandolini e Massimo Debernardi, Simposio. L’età antica e medievale (Laterza, 2005; 2007); con Arianna Brandolini e Massimo Debernardi, Simposio. L’età moderna (Laterza, 2005; 2008); con Arianna Brandolini, Massimo Debernardi e Valentina Montanari, Simposio. L’età contemporanea (Laterza, 2005); Dando eis locum idoneum. Identità politica delle comunità rurali del Novarese in età medievale (Lampi di stampa, 2008); (a cura di), Montagne, comunità e lavoro tra 14. e 18. secolo (Mendrisio Academy Press, 2015); (a cura di), Lavoro e impresa nelle società preindustriali (Mendrisio Academy press, 2017); Domatori di prìncipi e altre note di storia svizzera (secoli 12.-16.) (Forum, 2018).

Per Città Bene Comune ha scritto: O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto (13 marzo 2020).

L’immagine utilizzata a corredo di questo testo è una rielaborazione da: Franz Hogenberg, Tridentium / Trient, in Urbium Praecipuarum Totius Mundi, III, Köln 1581-88.Trento, Biblioteca Digitale Trentina, https://bdt.bibcom.trento.it/Iconografia/4291#page/n0)

N.B. I grassetti nel testo sono nostri.

R.R.


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17 LUGLIO 2020

CITTÀ BENE COMUNE

Ambito di riflessione e dibattito sulla città, il territorio, il paesaggio e la cultura del progetto urbano, paesistico e territoriale

ideato e diretto da
Renzo Riboldazzi

prodotto dalla Casa della Cultura e dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano

in redazione:
Elena Bertani
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cittabenecomune@casadellacultura.it

powered by:
DASTU (Facebook) - Dipart. di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano
 

 

 

Le conferenze

2017: Salvatore Settis
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2018: Cesare de Seta
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sintesi video/testo integrale

2019: G. Pasqui | C. Sini
locandina/presentazione

 

 

Gli incontri

- cultura urbanistica:
 
- cultura paesaggistica:

 

 

Gli autoritratti

2017: Edoardo Salzano
2018: Silvano Tintori

 

 

Le letture

2015: online/pubblicazione
2016: online/pubblicazione
2017: online/pubblicazione
2018: online/pubblicazione
2019: online/pubblicazione
2020:

E. Zanchini, Clima: l'urbanistica deve cambiare approccio, commento a: M. Manigrasso, La città adattiva (Quodlibet, 2019)

A. Petrillo, La città che sale, commento a: C. Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)

A. Criconia, Pontili urbani: collegare territori sconnessi, commento a: L. Caravaggi, O. Carpenzano (a cura di), Roma in movimento (Quodlibet, 2019)

F. Vaio, Una città giusta (a partire dalla Costituzione), commento a: G. M. Flick, Elogio della città? (Paoline, 2019)

G. Nuvolati, Città e Covid-19: il ruolo degli intellettuali, commento a: M. Cannata, La città per l’uomo ai tempi del Covid-19 (La nave di Teseo, 2020)

P. C. Palermo, Le illusioni del "transnational urbanism", commento a: D. Ponzini, Transnational Architecture and Urbanism (Routledge, 2020)

V. Ferri, Aree militari: comuni, pubbliche o collettive?, commento a: F. Gastaldi, F. Camerin, Aree militari dismesse e rigenerazione urbana (LetteraVentidue, 2019)

E. Micelli, Il futuro? È nell'ipermetropoli, commento a: M. Carta, Futuro. Politiche per un diverso presente (Rubbettino, 2019)

A. Masullo, La città è mediazione, commento a: S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

P. Gabellini, Suolo e clima: un grado zero da cui partire, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

M. Pezzella, L'urbanità tra socialità insorgente e barbarie, commento a: A. Criconia (a cura di), Una città per tutti (Donzelli, 2019)

G. Ottolini, La buona ricerca si fa anche in cucina, commento a: I. Forino, La cucina (Einaudi, 2019)

C. Boano, "Decoloniare" l'urbanistica, commento a: A. di Campli, Abitare la differenza (Donzelli, 2019)

G. Della Pergola, Riadattarsi al divenire urbano, commento a: G. Chiaretti (a cura di), Essere Milano (enciclopediadelle
donne.it, 2019)

F. Indovina, È bolognese la ricetta della prosperità, commento a: P. L. Bottino, P. Foschi, La Via della Seta bolognese (Minerva 2019)

R. Leggero, O si tiene insieme tutto, o tutto va perduto, Commento a: M. Venturi Ferriolo, Oltre il giardino (Einaudi, 2019)

L. Ciacci, Pianificare e amare una città, fino alla gelosia, commento a: L. Mingardi, Sono geloso di questa città (Quodlibet, 2018)

L. Zevi, Forza Davide! Contro i Golia della catastrofe, commento a: R. Pavia, Tra suolo e clima (Donzelli, 2019)

G. Pasqui, Più Stato o più città fai-da-te?, commento a: C.Cellamare, Città fai-da-te (Donzelli, 2019)

M. Del Fabbro, La casa tra diritto universale e emancipazione, commento a: A. Tosi, Le case dei poveri (Mimesis, 2017)

A. Villani, La questione della casa, oggi, commento a: L. Fregolent, R. Torri (a cura di), L'Italia senza casa (FrancoAngeli, 2018)

P. Pileri, Per fare politica si deve conoscere la natura, commento a: P. Lacorazza, Il miglior attacco è la difesa (People, 2019)

W. Tocci, La complessità dell'urbano (e non solo), commento a: C. S. Bertuglia, F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità (Bollati Boringhieri, 2019)

S. Brenna, La scomparsa della questione urbanistica, commento a: M. Achilli, L'urbanista socialista (Marsilio, 2018)

L. Decandia, Saper guardare il buio, commento a: A. De Rossi (a cura di), Riabitare l'Italia (Donzelli 2018)

 

 

 

 

 

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