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Il costante aumento del numero dei contagi da Covid-19 da inizio agosto (accompagnato, va detto, a un numero elevato di tamponi) può indurre a due considerazioni, apparentemente di segno opposto: la prima è che il virus è vivo e vegeto, e continua a correre in mezzo a noi; la seconda è che questo non significa, necessariamente, la tanto temuta “seconda ondata”.
La situazione, dal punto di vista clinico, è infatti, almeno per ora, molto diversa da quella del marzo-aprile scorso. I ricoveri sono solo in leggero aumento, le terapie intensive sono enormemente meno intasate, e anche la mortalità, per quanto dolorosamente presente, non è paragonabile a quella del periodo indicato.
Quali possono essere le ragioni? Non è affatto detto, innanzitutto, che il virus abbia cambiato pelle. Nessuna prova provata che le mutazioni, pur possibili nei virus a RNA, lo abbiano reso più docile, tanto da far imprudentemente dichiarare al prof. Alberto Zangrillo, qualche tempo addietro, che il Covid-19 sarebbe “clinicamente morto”. Lo stesso prof. dovrebbe oggi ravvedersi dopo i casi che hanno interessato personaggi illustri della sua cerchia di amici: sarebbe facile dire che “chi di virus ferisce…”.
La vera discriminante da considerare è invece la “carica virale”, che corrisponde al numero di particelle (“droplets”) trasportate e rilasciate nell'ambiente – ad esempio con tosse e starnuti, ma anche semplicemente parlando – da un individuo contagiato da virus.. Nel gennaio-febbraio scorso, quando soprattutto in Lombardia, il virus ha cominciato a circolare diffusamente, l’assenza di qualsiasi protezione (nessuna mascherina, nessun distanziamento, nessun lavaggio della mani, nessuna paura degli assembramenti. Insomma: nessuna percezione e prevenzione del rischio) ha fatto sì che il virus potesse passare da un soggetto all’altro in una concentrazione tale da superare qualsiasi difesa opposta dal soggetto contagiato. E le conseguenze sono state quelle drammatiche del marzo-aprile scorso, che hanno coinvolto anche il personale sanitario, i sacerdoti, e migliaia e migliaia di persone, prevalentemente anziane.
Altri fattori potrebbero essere presi in considerazione per amplificare quella “carica virale”: la densità abitativa, il contagio avvenuto soprattutto in ambienti chiusi, in relazione alla stagione, e anche le peculiarità (negative) dell’eco-sistema padano, e in particolare l’inquinamento atmosferico, rendendo plausibili le ipotesi dei legami tra virus, droplet e micro-particolato atmosferico, sollevato da più di uno studio, che potrebbero determinare una più prolungata permanenza del virus nell'atmosfera e una sua maggior capacità infettante.
Oggi, grazie agli effetti del prolungato lockdown, solo in parte vanificati dalle movide, dalle discoteche e dagli assembramenti di varia natura, agostani e settembrini, la “carica virale” e quindi la contagiosità del virus si è fatta molto meno pericolosa: e anche la capacità replicante del virus, che qualcuno ha ipotizzato in discesa, tiene solo conto della matematica: un conto è replicare a partire da 100 (200-400-800…); un conto a partire da 5 (10-20-40…). La matematica, come si sa, non è un’opinione…
Il prof. Andrea Crisanti, cui va il merito di aver condotto uno studio con tamponi su tutta la popolazione di Vo Euganeo, che ha consentito di rilevare la presenza di molti asintomatici positivi al tampone, ha affermato che “un virus non è debole, forte, buono o cattivo, un virus è più o meno virulento e ha una capacità di trasmissione che si può misurare”. E, in particolare “la carica virale ha un impatto gigantesco sull'evoluzione della malattia. Se uno si infetta con molti virus o con pochi, si ha un decorso completamente diverso". E, infine, “se io uso la mascherina e il mio interlocutore usa la mascherina, e uno dei due è infetto, la quantità di virus che ci trasmettiamo è molto più bassa”.
Altri fattori da tenere in conto, per spiegare il minor impatto clinico dell’attuale ripresa dei contagi, riguardano l’età media delle persone affette (nettamente inferiore a quella riscontrata nei primi mesi dell’anno quando, va ricordato, i tamponi venivano effettuati solo ai casi sintomatici): ed è noto che sono i soggetti più anziani e soprattutto con più patologie i più esposti alle conseguenze del contagio. E, infine, che l’intervento dei medici, pur in assenza di un trattamento “specifico”, è oggi più tempestivo ed efficace di quanto non fosse nei primi mesi, quando si brancolava nel buio della assoluta improvvisazione.
E tuttavia nessuno ha ancora oggi la verità in tasca. Non ce l'hanno i virologi, che poco sanno di come le mutazioni del virus davvero impattino sulla sua contagiosità e virulenza. Non ce l'hanno gli immunologi che poco sanno sia della durata che della efficacia della immunità indotta dal Covid-19. Neppure i clinici (infettivologi, pneumologi, rianimatori) sanno tutto del decorso clinico della malattia (pur avendo molto appreso sul campo) e soprattutto dei danni che potrà lasciare a distanza. E allora se di qualcuno e di qualcosa dobbiamo fidarci, converrà rivolgersi alla epidemiologia che, connettendo tra loro le poche certezze virologiche, immunologiche e cliniche, ma soprattutto studiando l'andamento delle precedenti epidemie, con le loro similitudini e le loro differenze, ci potrà meglio guidare nella comprensione di questa pandemia.
È stata proprio l'epidemiologia a suggerire, sulla scorta delle precedenti esperienze, le poche misure che si sono rivelate finora davvero efficaci: la quarantena, il distanziamento “fisico” (preferisco usare questo termine all’infelice distanziamento “sociale”), l'uso della mascherina, il lavaggio delle mani. Rimedi antichi, in qualche caso addirittura " medievali " ma tuttora efficaci nel prevenire il contagio da uomo a uomo. È ancora l'epidemiologia che ha messo a punto il fatidico Indice "R"(dove R sta per "reprodution rate" o tasso di riproduzione) per cui tutti ormai sappiamo che se R1 si espande, se molto > 1 esplode.
E sempre l’epidemiologia ci insegna che, in attesa del vaccino anti-Covid, e in vista di un probabile ulteriore incremento dei contagi nell’autunno-inverno prossimo (dopo la riapertura delle scuole, che coinvolgerà milioni di studenti; il ritorno di molte attività al chiuso; la ricomparsa di condizioni atmosferiche sfavorevoli), sarà assolutamente necessario che tutti gli ultrasessantacinquenni, insieme al personale socio-sanitario impegnato a qualsiasi titolo nei servizi, e alle altre categorie a rischio, si vaccinino contro l’influenza stagionale, pure al netto della non copertura totale garantita da tale vaccino.
Le ragioni? Tre almeno. La prima è che nell’autunno-inverno prossimo uno dei problemi maggiori di sanità pubblica sarà quello di discriminare tempestivamente l’influenza “classica” dalla possibile riemersione del Covid-19. Poiché i sintomi all’origine sono simili, ma poi il decorso, soprattutto nelle categorie più a rischio, molto diverso, è bene che subito vengano attivate le misure di isolamento e di possibile trattamento: e in questo caso non dovere fare i conti con la comune influenza (o doverla considerare meno probabile) consentirebbe di concentrare tutti gli sforzi e tutta l’attenzione sulla infezione da Covid-19.
La seconda ragione allude alla possibilità che la vaccinazione anti-influenzale possa influire, almeno parzialmente, nel produrre anticorpi che possano interagire con la capacità replicante del coronavirus. Ipotesi certo tutta da verificare, ma non così infrequente nelle infezioni virali. Parti del virus potrebbero avere bersagli simili a quelle del virus influenzale, e ottenere così una pur parziale protezione dalla presenza di quegli anticorpi.
La terza, infine. Un soggetto, soprattutto anziano, colpito dalla influenza non è di per sé protetto dal contagio da coronavirus. Che potrebbe così “attaccare” un organismo già in parte debilitato dalla precedente infezione. In questo caso il decorso dell’infezione da Covid-19 potrebbe essere anche più “aggressivo” di quanto evidenziato in passato.
Questo in attesa del vaccino anti-Covid. Che nessuno può ancora collocare con certezza temporale. Si è scatenata, ormai da qualche mese, una battaglia planetaria per chi riuscirà per primo a produrre un vaccino efficace. Le ragioni politiche hanno così finito per sovrapporsi, e quasi per sopravanzare quelle di stretta natura sanitaria. Degli oltre cento tentativi in corso che si conoscono, più della metà hanno sede in Cina e negli Usa, le due superpotenze che più si sono attivate in questa direzione. Trump è arrivato a promettere che il vaccino sarà pronto entro il 1° novembre, il giorno precedente l’elezione del nuovo (speriamo) Presidente USA. Ma anche la Cina non è da meno nella politica degli annunci, come non lo è stato Putin che ha addirittura battezzato “Sputnik V” il vaccino di produzione russa, evocando il primo successo URSS nello corsa allo spazio. E l’Europa segue, come sempre, a ruota. Queste notizie non possono tranquillizzare: il rischio è che, per stracciare i tempi, non si facciano tutti i passi necessari per individuare un prodotto efficace e al tempo stesso sicuro. Oltretutto non va dimenticato il nodo della produzione e della distribuzione: un conto è averne a disposizione poche dosi, un conto è garantire un numero di dosi tale da soddisfare, senza discriminazioni, tutte le esigenze necessarie. Ricordo, per inciso, che in passato non si è riusciti a produrre un vaccino efficace né per la SARS né per la MERS, virus cugini dell’attuale, e tanto meno per il virus dell’AIDS, per il quale si sono fatti reiterati tentativi. Occorre pertanto saggezza, prudenza e pazienza, per non fornire alibi di sorta ai mai domi “no-Vacs” e ai negazionisti d’ogni genere e risma.
"Adelante, Pedro, con juicio" verrebbe da dire, parafrasando il Manzoni e gli illuminanti insegnamenti che ci ha fornito ricostruendo la peste del 600. Con il folgorante finale del capitolo XXXI dei Promessi Sposi: "Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d'osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire".
© RIPRODUZIONE RISERVATA 10 SETTEMBRE 2020 |