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Lo spettacolo andato in onda nell’ultimo mese tra Regioni e Governo Centrale è stato semplicemente sconfortante: dapprima le Regioni (o la maggioranza di esse) a rivendicare le specificità territoriali e la necessità di misure più severe, ma comunque differenziate. Poi, non appena il Governo ha disegnato tre scenari (sulla base di parametri difficilmente contestabili, come l’Rt, ossia l’indice di contagiosità, il rapporto tra tamponi eseguiti e tamponi positivi, l’intasamento degli ospedali e, soprattutto, delle terapie intensive), per dettare le necessarie misure restrittive, ecco un buon numero di Regioni contestare le scelte, la correttezza dei parametri ( che dovevano essere, per la verità, forniti dalle Regioni stesse), parlando di “schiaffo” alle autonomie locali. Ma, verrebbe da dire, se a governare le scelte nazionali fosse stato l’indecisionismo confusionale del duo Fontana-Gallera, o viceversa il decisionismo, non meno confusionale, di un De Luca, a che punto saremmo arrivati?
Non che il Governo non abbia manifestato ritardi e una certa caduta di tensione tra luglio e ottobre (ci siamo crogiolati nel fatidico “siamo i migliori d’Europa”), quando si poteva, e si doveva, fare di più e meglio. Ma il continuo cicaleccio, i dietrofront strumentali, le contorsioni verbali di molti governatori regionali sono francamente insopportabili, e soprattutto deleteri per la credibilità delle istituzioni.
Due domande, a questo punto, sorgono spontanee: possiamo permetterci venti servizi sanitari regionali? E soprattutto: è giusta l’autonomia rivendicata con forza dalle singole Regioni rispetto allo Stato centrale?
Già uno studio sulla epidemia da coronavirus in Italia condotto da autorevoli ricercatori della Università di Harvard (Stati Uniti) nel marzo-aprile scorso, documentava come il sistema italiano avesse portato alla luce fin dall’esordio della pandemia il limite della eccessiva frammentazione regionale, evidente soprattutto nel confronto tra le strategie seguite dalla Lombardia e dal Veneto. La differenza, secondo lo studio citato, stava sì nella diversa densità della popolazione delle due regioni, ma soprattutto “nelle diverse scelte di salute pubblica effettuate all’inizio della epidemia, che hanno avuto un sicuro impatto”. In Veneto si era scelto di eseguire un maggior numero di test (in rapporto alla popolazione) e di effettuare un tracciamento più meticoloso dei potenzialmente positivi, di puntare più sulle diagnosi a casa (sia cliniche sia tramite tamponi) e di fornire maggiori strumenti di protezione agli operatori sanitari. In Lombardia invece i test venivano eseguiti quasi esclusivamente su persone che già mostravano sintomi gravi, e non sono stati fatti grandi progressi sul piano del tracciamento dei nuovi casi per ridurre e interrompere la catena dei contagi.
Potremmo ovviamente andare oltre perché le differenze non investono solo queste due regioni, ma l’intero panorama nazionale: venti diversi sistemi sanitari si sono comportati in maniera diversa nell’affrontare sia l’emergenza che, ora, la seconda ondata E la “cabina di regia” del governo ha potuto sì decidere le misure estreme, come il lock-down generalizzato a livello nazionale, e ora la suddivisione in aree a diverso rischio, ma si è mostrato debole o impotente nell’intervenire e nel coordinare le singole scelte operative.
Ci possiamo permettere un simile “caos”? Con una sanità a macchia di leopardo e un andamento clinico della epidemia analogamente a macchia di leopardo? Non ce lo possiamo permettere. Per anni si è parlato di "devolvere" pezzi crescenti di potere sulla sanità, lasciando al governo solo la definizione del fondo sanitario nazionale e dei livelli minimi di assistenza (i LEA), mentre il potere organizzativo, amministrativo e gestionale è tutto in carico alle Regioni. Anche recentemente Lombardia, Veneto ed Emilia hanno molto premuto su Governo per accentuare la leva autonomista.
Del resto già prima dell’attuale epidemia alcune differenze non potevano essere taciute: ad esempio, i risultati di salute si differenziano molto tra le regioni italiane: l’aspettativa di vita in buona salute è di 60.5 anni al Nord, contro i 56,6 del Sud. O il personale dipendente, calato tra il 2010 e il 2016 in diverse Regioni del Sud, e oggi inferiore a quello del Nord. Nel 2016 la Lombardia registrava 9.6 dipendenti ogni 1000 abitanti (-3% rispetto al 2010) contro i 7.3 della Campania (-15%) e i 7.1 del Lazio (-14%), mentre l’Emilia Romagna raggiungeva i 12.8 dipendenti per 1000 abitanti.
Oggi le conseguenze tragiche della epidemia, e lo spettacolo di questi giorni, suggeriscono con forza la necessità di una devoluzione di segno contrario. Ossia tornare a un maggiore centralismo, non limitato alla definizione dei LEA, in modo da attenuare le differenze esistenti tra regioni del nord e quelle del sud, e in genere tra regione e regione. Almeno nelle situazioni di grande emergenza la cabina di regia deve essere unica, e non affidata a decisioni “locali”. Certo, non sarà un passaggio semplice, in quanto sarà necessaria proprio quella riforma costituzionale del titolo V, che già in un recente passato era stata proposta, e poi bocciata da un referendum.
Ma se la storia deve insegnare qualcosa, questa vicenda non può esimerci dall’imparare e dal riformare.
Pino Landonio Nato nel 1949, padre di due figli e nonno di 5 nipoti. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1973, e specializzato in Ematologia (1978) e in Oncologia (1986). Ha lavorato come ematologo e poi come oncologo all’Ospedale Niguarda, dal 1975 al 2006. Dal 2005 al 2010 è stato Consigliere Comunale a Milano. Dal 2011 collabora con l’Assessorato al Welfare del Comune di Milano e coordina, a Palazzo Marino, l’iniziativa “Area P” (incontri mensili di poesia). Ha pubblicato, per Ancora, due raccolte di “Dialoghi immaginari” con 50 poeti di tutti i tempi e paesi (2015 e 2017) e “Guarda il cielo”(30 racconti, 2016). (ndr) © RIPRODUZIONE RISERVATA 13 NOVEMBRE 2020 |