Pino Landonio  
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MEDICI E CORONAVIRUS


Ripensare, proteggere e dare nuova dignità al loro lavoro



Pino Landonio


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Il numero dei medici che hanno perso la vita durante la prima e la seconda ondata del contagio (ormai 250) rappresenta un’accusa pesante per l’intero sistema: i medici di medicina generale, la categoria più esposta, ma anche molti medici ospedalieri, sono stati lasciati soli e a mani nude, nell’affrontare soprattutto la prima fase della pandemia. Ricordo una lettera pubblicata sul New England Journal of Medicine da un gruppo di medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo già nel marzo scorso, dunque nel pieno della “prima ondata”, che lanciava un grido di dolore per quanto stava accadendo in Lombardia, e nella loro realtà in particolare. Concludeva: “Questa non è solo una emergenza sanitaria, ma una vera e propria catastrofe umanitaria, che coinvolge l’intera sanità pubblica. Richiede il contributo di sociologi, epidemiologi, esperti in logistica, psicologi, operatori sociali … Il lockdown è una misura certamente indispensabile: in Cina ha ridotto di circa il 60% la trasmissione del virus. Ma un altro picco è ancora possibile quando si ridurranno le misure restrittive e si riprenderanno le attività lavorative. Per questo è necessario un piano di lungo termine per contrastare la presente e futura pandemia. Il coronavirus è l’Ebola dei ricchi, e richiede un impegno coordinato a livello transnazionale. Non è particolarmente letale, ma è altamente contagioso. La catastrofe della Lombardia può accadere ovunque.” Parole sensate e perfino profetiche, col senno di poi.

A questa lettera rispondeva Monica Imi, un medico bergamasco, che da 15 anni vive e lavora in Uganda, terra di ebola, malaria, Hiv, tubercolosi, febbre gialla, colera, ecc, dicendo:

“È sconcertante vedere quello che sta succedendo in Lombardia, a Bergamo. Nessuno se lo aspettava: si pensava probabilmente che essere ricchi e “sviluppati” tenesse al sicuro e che le epidemie fossero un problema dei Paesi poveri … Ma qualcuno ha mai pensato che forse il sistema sanitario non è cosi eccellente come tutti (per lo meno quelli che parlano ai media) amano ripetere e pensare? Covid-19 non è un problema clinico, è un problema di salute pubblica, di organizzazione dei servizi, di uso razionale delle risorse. Che sono tante, ma non infinite: è ora che qualcuno lo dica, e che i famosi “tagli” alla sanità siano fatti con razionalità e giustizia, non in base a chi urla di più. Molte risorse sono state concentrate sugli ospedali, ma la vera battaglia è sul territorio, che è stato lasciato a sé stesso. La sanità sul territorio va riorganizzata. Il medico singolo, indipendente e autonomo, non funziona più: la medicina è troppo complessa e ampia. Ospedale e territorio vanno integrati, la medicina di famiglia deve diventare il punto di riferimento, con l’ospedale come livello secondario di cura. Servono strutture sul territorio che gestiscano servizi di base, ambulatori, piccole urgenze, prevenzione, con medici di famiglia in équipe, supportati eventualmente da specialisti a patto di mantenere la responsabilità della cura”

Parole lucide, assolutamente condivisibili, che la politica dovrebbe osservare con grande attenzione. Alcune domande, d’altra parte, sono assolutamente legittime, e devono scuotere non solo le nostre coscienze, ma l’inerzia della classe politica, che deve tornare a discutere e a fare scelte che salvaguardino un bene primario come la sanità (e la scuola, aggiungerei).

Proprio la carenza dei medici è venuta pesantemente alla luce in questa pandemia: quanti sono i medici di medicina generale andati in pensione e che non possono essere sostituiti? Quanti i medici ospedalieri, soprattutto di alcune specialità come l’anestesia e la rianimazione, oggi carenti? Pesa la politica pluriennale dei tagli sulle piante organiche, ma anche i limiti assurdi posti alla formazione: tetto sulle iscrizioni a medicina; esami molto selettivi per l’accesso alle specialità; disincentivazione di alcuni ruoli, come ad esempio quello dei medici di medicina generali trattati, sostanzialmente, come “medici di serie B”. Le responsabilità di tutto questo pesano su (quasi) tutti i governi che si sono succeduti, di destra o di sinistra che fossero, e hanno causato un vulnus che non potrà essere sanato se non nel giro di qualche lustro.

Ma altri problemi hanno pesato sul ruolo e sulle scelte dei medici in servizio nell’attuale pandemia (e su quelli reclutati surrettiziamente dalla pensione per tappare i buchi più evidenti), e chiamano in causa la deontologia professionale, messa a dura prova nelle fasi più acute e critiche del contagio. Qualcuno l’ha chiamata la “solitudine del medico”. Emily Dickinson, la grande poetessa americana, diceva, in una poesia folgorante: “I chirurghi stiano molto attenti / quando prendono il bisturi! / Sotto le loro abili incisioni / si agita l’imputato: la vita!”. Ho ripensato a lei leggendo della dottoressa Lorna Breen, pure americana, che a 49 anni si è suicidata non potendo sopportare il carico psicologico, deontologico, umano delle troppe persone da assistere e cui non poteva garantire le cure necessarie. La stessa drammatica condizione hanno vissuto gli infermieri del triage e i medici delle terapie intensive nei giorni più tragici della emergenza sanitaria, a Bergamo come a Milano. Chi trattare, e come, e a chi dare la precedenza? Non penso, non voglio pensare che il criterio sia stato quello della età anagrafica. Penso che valutazioni come il performance status, la coesistenza di patologie, la speranza di vita, la possibilità concreta di reggere terapie invasive, abbiano informato le scelte, comunque non facili e dolorose, di chi in quei momenti si è trovato a decidere. L'insegnamento che dobbiamo trarre dalla pandemia è che dobbiamo prevenire la necessità di queste scelte: più letti di terapia intensiva, più respiratori, più dispositivi di protezione individuali sono elementi indispensabili di una organizzazione sanitaria adeguata. Ma anche più prevenzione, più servizi territoriali, migliore organizzazione e valorizzazione del ruolo dei medici di medicina generale.

 

La cosa che più mi ha colpito in questa pandemia è stata la distanza tra il modo di fare il medico che ho conosciuto e quello che si può praticare in questa pandemia. A parte i medici di medicina generale, oggi “costretti” a curare da remoto, solo telefonando ai pazienti, per i medici, e gli infermieri, che stanno nelle intensive o nelle sub intensive c’è l’obbligo di bardarsi con tute-scafandro, che lasciano intravedere solo gli occhi, come fossero dei burka sanitari. Ed è con gli occhi, e solo con quelli che può nascere l’empatia con i malati. Che, a loro volta, costretti dalle mascherine o dalle campane, o addirittura dai respiratori, solo con gli occhi possono esprimere le loro paure e le loro preghiere.

Per non essere solo pessimisti e disfattisti, ma per ricavare un insegnamento anche dall’attuale disastro, dobbiamo ripensare con attenzione al ruolo degli operatori che lavorano in sanità. A partire dalla figura dell'Infermiere di comunità, che possa operare nel territorio, a contatto coi medici, e che possa recarsi al domicilio delle persone, soprattutto anziane e magari non autosufficienti. Il modello della "ospedalizzazione domiciliare" in atto nel trattamento dei pazienti oncologici in fase avanzata può essere uno strumento utile su cui lavorare. Ma soprattutto rivedendo alcuni aspetti salienti della professione medica.

 

Oltre alle modifiche auspicabili dei sistemi formativi, dobbiamo riflettere sul fatto che i Medici di Medicina Generale sono stati trasformati, nel tempo, in burocrati e prescrittori invece che veri presidi di controllo e intervento sanitario. È il caso di ripensare, proteggere e dare nuova dignità al loro lavoro. La medicina di gruppo, opportunamente rafforzata e tutelata, deve diventare il presidio fondamentale a livello territoriale per diagnosticare, curare, prevenire.

Per quanto riguarda poi lo specialista ospedaliero, e soprattutto le figure chiamate ad assumere le responsabilità più rilevanti, che ho prima richiamato, occorre combattere lo stigma della “solitudine”: la prima indicazione dovrebbe essere quella di non lasciare solo il medico nella scelta, e soprattutto di non caricare il peso della decisione sulle spalle del medico che deve trattare. Un triage di esperti dovrebbe garantire la selezione; lo stesso rispondere a un comitato etico; infine le norme di selezione dovrebbero essere riviste non solo in base all'emergenza, ma adattate alle nuove acquisizioni scientifiche. Il criterio fondamentale dovrebbe essere quello di rendere trasparenti e condivise le decisioni. Solo così si potrà superare il muro della diffidenza e dell'angoscia - dai medici cinesi impediti a parlare, a quelli americani coinvolti in false promesse, a quelli italiani limitati dalle carenze di mezzi - L'impreparazione è la culla del panico; e solo essendo adeguatamente preparati potremo uscire dall'attuale pandemia.

 

Pino Landonio
Nato nel 1949, padre di due figli e nonno di 5 nipoti. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1973, e specializzato in Ematologia (1978) e in Oncologia (1986). Ha lavorato come ematologo e poi come oncologo all’Ospedale Niguarda, dal 1975 al 2006. Dal 2005 al 2010 è stato Consigliere Comunale a Milano. Dal 2011 collabora con l’Assessorato al Welfare del Comune di Milano e coordina, a Palazzo Marino, l’iniziativa “Area P” (incontri mensili di poesia). Ha pubblicato, per Ancora, due raccolte di “Dialoghi immaginari” con 50 poeti di tutti i tempi e paesi (2015 e 2017) e “Guarda il cielo”(30 racconti, 2016). (ndr)


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11 DICEMBRE 2020