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Avevo preso in mano questo lavoro collettivo sulle trasformazioni indotte dalla pandemia nelle città e nel rapporto tra queste e la campagna con curiosità ma pensando che, comunque, si trattasse di una vicenda passata, ancorché drammatica e istruttiva. Sennonché la realtà della seconda ondata e le previsioni di una terza suggeriscono quanto sia urgente e utile per riprogettare il futuro scorrere i trentacinque contributi di riflessioni e proposte contenuti nel Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio sulle città e le aree naturali del dopo Covid-19 curato da Giampaolo Nuvolati e Sara Spanu (Ledizioni, 2020).
Dar conto di un’opera così ricca di spunti e suggestioni è impegnativo. Mi preme innanzitutto chiarire perché mi sembra meriti un’attenta lettura. Non v’è dubbio che la pandemia tuttora in corso rimetta inevitabilmente in discussione il rapporto che stanno intrattenendo l’uomo contemporaneo con la natura e la tecnica con l’ambiente. Il nesso tra pandemia del Covid-19, come altre zoonosi (malattie di origine animale), e degrado dell’ambiente è stato evidenziato proprio da uno studio prodotto dal Programma per l’ambiente dell’onu (unep, Six nature facts related to coronaviruses, 8 aprile 2020). D’altro canto, per quanto riguarda la presunta onnipotenza della tecnica, la decantata efficienza del sistema di cura italiano ha mostrato di poggiarsi su piedi d’argilla di fronte all’attuale pandemia, questo soprattutto in Lombardia, la regione tecnologicamente e industrialmente più avanzata del Paese. Una debacle che ha lasciato tutti stupefatti e che non si può spiegare solo con il taglio degli investimenti pubblici nella sanità in omaggio alle politiche di aggiustamento di bilancio, con il dissennato foraggiamento delle imprese sanitarie private a scapito del patrimonio pubblico, con la regionalizzazione di un servizio che doveva rimanere nazionale, alimentando così corruzione e clientelismo. La causa va ricercata più in profondità e individuata nella presunzione della modernità capitalistica di ridurre la natura, la biosfera, alla dimensione di una gigantesca protesi esosomatica creata dall’uomo, la cosiddetta tecnosfera. In quanto prodotto artificiale, questa è ritenuta con qualche ragione perfettamente misurabile, programmabile, prevedibile e governabile, così, da parte di una tecnoscienza arrogante, si è pensato di poter includere nello stesso paradigma anche la natura. Dimenticando la lezione profetica di Leopardi sull’irrimediabile fragilità dell’uomo di fronte a una natura che è sì fonte essenziale di vita – e per questo andrebbe il più possibile preservata dal degrado e dall’inquinamento – ma può essere anche matrigna, con eventi di una forza dirompente immensa, dai terremoti e dalle eruzioni vulcaniche, ai tifoni, alle alluvioni, alle pandemie virali. Eventi da cui possiamo difenderci con la sola arma della prevenzione che invece abbiamo del tutto dismessa.
Così le strutture deputate alla tutela della salute e alla cura negli ultimi decenni sono state ridefinite sul modello delle aziende che producono automobili: anche negli ospedali si è affermato il ‘toyotismo’ del just in time, che prevede l’azzeramento delle scorte e dei magazzini, lo sfruttamento massimo degli impianti con la riduzione del personale e la dismissione di macchinari, ovvero di letti e apparecchiature, sottoutilizzati. L’aziendalizzazione non è stata solo un’operazione nominalistica ma sostanziale: la cura di un corpo, di un organo, di un batterio o di un virus è stata assimilata alla costruzione di un’automobile e l’efficienza è stata misurata nel rapporto tra costi (quindi posti letto, scorte di magazzino, personale, apparecchiature…) e prestazioni. E si è perfino preteso di programmare questo rapporto, incentivato con premi ai dirigenti anche nel pubblico, sulla base di algoritmi lineari assimilabili all’andamento di mercato previsto per le automobili. Con tale impostazione ovviamente ci si è trovati disarmati di fronte all’imprevedibilità e non programmabilità della natura, di una biosfera che sa sempre sorprenderci nel bene o nel male. Insomma, anche in questa vicenda che ha sconvolto l’intero pianeta, sembrano confermarsi i caratteri di una tecnoscienza che si è in gran parte messa al servizio di un sistema sociale e produttivo, quello capitalistico e neoliberista fino a ieri trionfante, mosso dagli idoli della crescita illimitata, dell’efficienza, della competitività, del massimo profitto, idoli ai quali vanno sacrificate le risorse naturali e le “risorse umane”, come pudicamente si definiscono le prestazioni lavorative anch’esse private in gran parte di tutele, dopo il crollo del comunismo e la sconfitta del movimento operaio. Ci permettiamo, a questo punto, di riproporre una riflessione di un caro amico, Pier Paolo Poggio, di qualche anno fa, che oggi appare profetica. Poggio nel suo Tecnica e natura (in P.P. Poggio, a cura di, L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico. Alle frontiere del capitale, vol. vi, Jaca Book, Milano 2018, p. 5) scriveva:
“La crisi ecologica rende manifesti gli effetti negativi del progetto fondamentale della modernità: sfruttare integralmente le risorse naturali per costruire un mondo sempre più artificiale, sino ad arrivare a liberarsi della natura e di tutti i limiti. La novità inaspettata è che la natura non umana si è ribellata al suo sfruttamento, pena il dispiegarsi di retroazioni incontrollabili. Questo ritorno del non umano ha di colpo posto fine al monopolio scientifico del discorso sulla natura e ha messo in crisi il progetto ideologico trasversale di neutralizzazione, tendenzialmente assoluta, della natura da parte della tecnica”.
Ora l’umanità è di fronte ad un microscopico virus che ha letteralmente messo in ginocchio un mondo così perfezionato e tecnologico, tronfio di sviluppo e di scienza, costringendo in clausura tre miliardi di persone, cosa mai successa nemmeno nel xiv secolo con la peste nera. E, probabilmente, il generale sbigottimento nasce, più che dalla paura della morte, dallo smarrimento di fronte agli incredibili limiti che abbiamo scoperto di avere. Se queste considerazioni hanno un fondamento, inevitabilmente lo sconvolgimento prodotto dal Covid-19 nelle nostre esistenze ha e avrà degli effetti importanti anche nel nostro modo di abitare il territorio, dentro le città e nelle periferie, nelle aree interne e nei piccoli borghi, con significative differenze tra le diverse condizioni economiche, culturali, di età, di genere, di etnia… Ebbene di questo si occupa il Manifesto in esame, cercando di analizzare tutti gli aspetti, le sfaccettature, le contraddizioni di un vasto processo in corso, in larga parte inatteso, vorticoso, in certi casi violento, destinato a ridefinire il rapporto tra le città e le aree interne, e le loro interazioni con la natura, facendo emergere, oltre alle criticità ambientali, anche nuove fragilità nelle relazioni tra gli umani che vanno tempestivamente riconosciute per non aggravare ma semmai attenuare quegli squilibri ecologici e sociali che il neoliberismo ha prodotto nell’ultimo trentennio. Questa appare l’ispirazione, del tutto condivisibile, che accomuna i diversi contributi, pur nella varietà degli accenti, del livello di radicalità, dei toni più o meno preoccupati, della pregnanza e originalità delle proposte. In questa sede non possiamo che citarne alcuni, con l’avvertenza che non si tratta di una scelta dettata da una scala di valori, ma semplicemente tesa ad esemplificare le caratteristiche e i contenuti del volume.
Colpisce per la spiazzante denuncia il primo breve saggio di Claudio Marciano, La via del propilene, straordinariamente simbolico delle contraddizioni strutturali del nostro tempo ancor più evidenziate dal Covid-19. Come abbiamo visto, l’allarme dell’Onu sull’influenza dello stress ambientale nella virulenza di questa pandemia è stato oltremodo chiaro. Eppure le istituzioni e i comportamenti collettivi non sembrano ancora avvedersene, neppure in questa fase emergenziale.
“Non deve sorprendere – scrive Marciano – che dei 55 miliardi di euro in deficit che lo Stato Italiano ha finora investito per gestire l’emergenza Covid-19, neanche uno sia dedicato alla ricerca di soluzioni alternative agli attuali DPI o al contenimento del loro impatto ambientale. […] La maggior parte delle mascherine disponibili in commercio sono quelle ‘chirurgiche’. Si tratta di dispositivi in polipropilene con 2-3 strati di tessuto non tessuto. Diffuse prevalentemente in ambito ospedaliero sono invece le mascherine FFP2 o FFP3 costituite anch’esse da più strati di polipropilene” (pp. 24-25).
Lo smaltimento e la dispersione in ambiente di miliardi di questi “usa e getta” ha un impatto ambientale insostenibile: per prevenirlo ed evitarlo basterebbe semplicemente “brevettare un set di dispositivi di protezione pienamente riutilizzabili certificato dall’Istituto Superiore di Sanità” (p. 26). Una vicenda straordinariamente simbolica, dicevamo. Il polipropilene è la plastica di “qualità” inventata agli albori del boom economico che ne ha rappresentato in qualche modo il substrato essenziale, dopo che nel 1954 gli studi del tedesco Karl Ziegler a Mulheim e dell’italiano Giulio Natta nei laboratori Montecatini (insigniti entrambi per questo del premio Nobel) consentirono di polimerizzare il propilene. In particolare, il polipropilene costruito da Natta e brevettato dalla Montecatini (il mitico Moplen dello storico spot di Gino Bramieri che fece la fortuna nel mondo dell’oligopolio nazionale) era ed è un materiale plastico, più di altri, particolarmente versatile negli impieghi finali. Ma soprattutto ha diffuso l’illusione che il mondo artificiale creato dalla tecnica fosse migliore di quello naturale, che questi nuovi prestanti materiali potessero costruire una nuova tecnosfera al servizio dell’uomo emancipandolo dalla biosfera. Si sa, oggi, com’è andata a finire: le microplastiche hanno impestato il globo, hanno inzuppato il mare, cominciando a soffocare i pesci, hanno contaminato l’acqua potabile prefigurando scenari inquietanti per la vita umana. Ecco, mi pare che questa storia delle mascherine di propilene sia una fulminante parabola dell’attuale crisi ecologica e del groviglio di contraddizioni che ancora ci impediscono di affrontarla.
Non poteva del resto aprirsi meglio la prima sezione tematica, Ri-produrre, seguita da Ri-pensare, quindi Ri-connettere, poi Ri-abitare ed infine Ri-esplorare. E così, sempre nella prima sezione, non poteva mancare una rivisitazione della nuova centralità del cibo e dell’alimentazione di qualità che l’emergenza in corso ha proposto: “cibo sano e di qualità che passa ad essere da commodity a commons; il lavoro degli agricoltori e dei braccianti che deve essere lavoro pulito e dignitoso; gli impatti ambientali, penalizzado l’agricoltura estrattiva; prodotti che viaggino meno” (p. 29). Se un settore tradizionale, nel recente passato troppo reietto e maltrattato, come l’agricoltura può ricevere, paradossalmente, stimoli positivi dall’emergenza Covid-19, quello più innovativo della cosiddetta sharing economy, ne viene stravolto, con attività pesantemente colpite (turismo, ospitalità, viaggi) e altre invece rilanciate (commercio gestito da piattaforme digitali, consegne a domicilio) per cui si impone di “ripensare l’ecosistema sharing […] domandandosi come accompagnare un cambio di paradigma in direzione dell’innovazione sostenibile più che del profitto: […] Sicurezza e tutele per gli operatori: ai soggetti più esposti è necessario garantire diritti, ammortizzatori sociali e tutele. Dimensione cooperativa per correggere la distopia delle piattaforme corporate: incentivare la nascita di piattaforme mutualistiche che siano anche tecnologiche, o favorire la trasformazione in chiave cooperativa delle piattaforme esistenti, attraverso incentivi/voucher/fondi” (p. 34).
La produzione e fruizione culturale è, forse, la principale ragion d’essere della città che il Covid-19 ha profondamente messo in crisi: come far sì che nelle nuove condizioni questo bene comune, alimentato dalla indispensabile socialità “faccia a faccia” e dalla partecipazione cui è strettamente connesso, è il tema che occupa l’attenzione degli altri contributi della prima sezione. Tematiche che vengono riprese e approfondite nella seconda sezione per immaginare nuove soluzioni per la configurazione sociale delle città, sapendo che “l’emergenza sanitaria per la diffusione del virus Sars CoV-2, nell’arco di poche settimane, ha messo in crisi i caratteri fondanti delle nostre città, a partire dai suoi spazi collettivi”, fondamentali proprio per i bisogni delle fasce più deboli. Da qui i titoli del che fare, secondo Antonietta Mazzette, Daniele Pulino e Sara Spanu: “Riorganizzazione in sicurezza degli spazi pubblici. Riorganizzazione delle politiche sociali e sanitarie. Il Sistema sanitario pubblico è da considerarsi un elemento fondamentale per la sicurezza urbana. Il che significa rafforzare il principio che la sanità è un bene comune primario da tradurre in termini di qualità e di accessibilità garantita a tutti. Diffusione delle tecnologie digitali: l’uso delle tecnologie andrebbe incrementato reso accessibile a tutti […]. In questa direzione le città italiane dovrebbero riorientarsi in un’ottica concretamente smart” (pp. 57-58).
Diversi sono i suggerimenti su come andrebbero ripensati gli spazi urbani, rivolti a tutti (“Favorire la fruizione delle aree verdi e dei parchi pubblici. Favorire la mobilità lenta. Più attenzione al design urbano” p. 61), oppure mirati come quelli di Gilda Catalano per i quartieri e i soggetti più disagiati:
“mini suggerimenti low-cost per avvicinare il linguaggio dello spazio alle frange sociali più fragili di un quartiere tramite forme di riorganizzazione spazio-temporale […] usando le social streets (come nel caso di via Duse a Bologna) in veste di piattaforme di riprogrammazione delle attività all’aperto […]. Una seconda idea potrebbe riguardare l’uso degli spazi vuoti e sottoutilizzati (cortili, piazze fallite, scalinate) come punti di aggregazione per distinte iniziative scaglionate per fasce orarie: da quelle di base (mense all’aperto) a quelle di cura (consulenze, aiuti o persino attività ricreative) […] Una terza proposta consiste nel creare un fondo comune nei quartieri, in base al proprio reddito, per le opere di filtraggio e ventilazione di quei luoghi coinvolti in una continua attività di volontariato (centri sociali e punti chiusi per la distribuzione di cibo e medicine), insieme ad una sanificazione auto-regolamentata degli spazi di routine condivisi” (p. 66).
Poiché, come molti contributi giustamente mettono in rilievo, non è “andato tutto bene” alla stessa maniera per tutti, anzi il Covid-19 ha esasperato le disuguaglianze sociali, culturali, territoriali.
Per quanto riguarda il territorio e il tradizionale rapporto città e campagna le scosse della pandemia colpiscono in modo contraddittorio: la città, è ormai chiaro, per la densità delle relazioni e, probabilmente, per l’inquinamento è un ambiente dove il coronavirus ha modo di correre velocemente e nello stesso tempo dove la clausura provoca uno shock violentissimo; mentre le aree interne, i piccoli borghi, meno inquinati e con relazioni e spostamenti più rarefatti, a volte sono rimasti addirittura liberi da contagi, come nel caso di alcuni piccoli comuni montani. Tuttavia, nel momento in cui le comunicazioni si spostano sulla rete, comprese quelle formative degli istituti d’istruzione, la città sembra di nuovo avvantaggiarsi per velocità e sicurezza della rete, ma anche per garanzia di cura sanitaria adeguata in seguito alla centralizzazione in mega strutture ospedaliere quasi esclusivamente urbane. E qui l’attenzione si sposta sull’altra grande questione che, se vogliamo, caratterizza il nostro tempo e la cosiddetta globalizzazione e a cui è dedicata la terza sezione, Ri-connettere: la forsennata mobilità di persone e cose e le nuove forme digitali di comunicazione. Di primo acchito sembra che il problema abbia trovato spontaneamente una sua risistemazione riducendo, anche drasticamente, la prima ed espandendo le seconde. Ma tutto ciò sta avvenendo con effetti sociali non sempre desiderabili: da un canto forme nuove di mobilità sono comunque irrinunciabili pena un danno economico e sociale insostenibile, dall’altro la comunicazione digitale richiede una qualità ed accessibilità a tutti che è ancora lontana dall’essere perseguita nel nostro Paese. Si pensi, ad esempio, alla crisi dei parchi naturali che richiedono un minimo di mobilità per essere goduti che il Covid -19 ha del tutto bloccato (p. 104). Da qui una serie di suggerimenti per mantenere viva una mobilità essenziale e dolce:
“Per il prossimo futuro – si legge nel Manifesto – è cruciale definire un regime di mobilità (o sistema di governance della stessa) che sia capace di bilanciare e garantire le necessità di vita e le funzioni urbane con la sicurezza e la salute pubblica. Per questo sarà centrale da un lato l’incentivazione della mobilità attiva (a piedi e in bicicletta), principalmente nei contesti urbani dove la prossimità e la densità lo permettono. Parallelamente deve essere dato supporto al trasporto pubblico per non ridurre l’offerta a fronte di una limitazione della capacità del Tpl. Occorre de-sincronizzare gli orari di attività dei metronomi urbani e valorizzare le politiche temporali, in maniera da garantire oltre alla sicurezza e alla sostenibilità economica ed ambientale dei sistemi urbani anche quella sociale. Inoltre bisogna ridurre i divari nell’utilizzo degli strumenti digitali e ICT, che rappresentano un prezioso strumento per una migliore gestione delle necessità di spostamento” (p. 86). Infatti quest’ultima leva ha bisogno di particolari e urgenti cure: “le istituzioni dovrebbero lavorare su tre aspetti: 1) la dotazione di infrastrutture per favorire l’utilizzo di internet in tutti i quartieri, anche periferici; 2) la fornitura di bonus per l’acquisto di device da parte delle fasce più povere; 3) il supporto tecnico per evitare l’analfabetismo digitale, con riguardo ad esempio agli anziani” (p. 108).
Veniamo ora al Ri-abitare, tema centrale per una riflessione sulla città ai tempi del Covid-19. Qui mi permetto una citazione estesa, e a mio parere significativa, del saggio di Igor Costarelli e Silvia Mugnano:
“Casa e disuguaglianze. Durante il lockdown l’abitazione è diventata luogo di studio, lavoro e svago facendo emergere nuove esigenze e questioni che sembravano risolte: dal sovraffollamento all’adeguatezza della casa per la nuova quotidianità. Si tratta di questioni che mettono al centro la qualità abitativa e l’abitare di qualità e che influenzano altre sfere dove si riproducono le disuguaglianze. Il vicinato. All’esterno dell’abitazione in molti hanno riscoperto il valore delle relazioni con i vicini di casa che possono rivelarsi una risorsa durante periodi prolungati di isolamento, così come usufruire degli spazi comuni (cortile/giardino condominiale) può restituire all’abitare la sua dimensione comunitaria. Casa e quartiere. In situazioni di mobilità limitata l’accessibilità a risorse e servizi essenziali (dal supermercato alla farmacia) assume maggiore importanza e apre nuove riflessioni circa la capacità dei quartieri di garantire a tutti i servizi di base. Vulnerabilità abitative. La pandemia ha aumentato la vulnerabilità di soggetti già fragili e privi di tutele che vivono in condizione di estremo disagio abitativo: senza dimora, migranti nei centri di accoglienza, abitanti dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, anziani in residenze, insediamenti informali, ghetti rurali dove gli standard di salubrità sono minimi Le proposte per orientare le politiche sono: (1) promuovere l’affordability [cioè la capacità di sostenere i costi abitativi. Ndr] ; (2) rafforzare la dimensione sociale dell’abitare; (3) integrare i servizi territoriali. A partire da esperienze già consolidate, il condominio cooperativo può rappresentare una grande risorsa non solo come estensione fisica della casa (con sale comuni dedicate al coworking, didattica a distanza, socialità) ma anche come “soggetto” erogatore di servizi a km 0 (consegna spesa a domicilio per le persone fragili, frigoriferi condominiali, case dell’acqua e forme di mutuo aiuto tra condomini)” (p. 117).
Altri contributi accentuano l’urgenza di interventi riparatori dell’emarginazione che il Covid-19 ha ampliato:
“Questa emergenza, tuttavia, potrebbe diventare l’occasione per immaginare una nuova idea di città, da restituire a tutti e non solo a pochi eletti, a partire da una trasformazione radicale dei quartieri più degradati delle città. […] La città che cura […] una zona grigia caratterizzata da abitanti invisibili, appartenenti ad un sottobosco definito dai più gravi livelli di fragilità e abbandono, tra persone con disabilità psichiche, anziani invalidi e soli, occupanti privi di tutele. In quest’ottica, le pratiche di cura condivisa dei beni comuni potrebbero vivere un periodo di intenso sviluppo, promuovendo iniziative di autorganizzazione dei cittadini su base locale e di quartiere” (pp. 120-121).
Una scorsa merita anche l’ultima sezione Ri-esplorare dedicata soprattutto al turismo nelle città e nelle aree interne. Le sfide che Covid-19 pone al settore turistico sono molteplici e per certi aspetti meno prevedibili rispetto ad altri settori e si affiancano alle nuove sensibilità indotte dalla preoccupazione per il cambiamento climatico e per la perdita di biodiversità, che portano ad interrogarsi sul rapporto tra uomo e Terra. “Nel breve periodo il turista manifesterà nuove priorità: ricerca di serenità, spazi aperti, sanità, igiene, distanziamento sociale” (p. 146). Una tendenza che potrebbe consolidarsi con una domanda in crescita rivolta alla natura e alle destinazioni minori e poco affollate, un turismo interno di prossimità che potrebbe diventare un pilastro fondamentale in futuro. Una tendenza che, all’opposto, può mettere in crisi il processo che ha investito negli ultimi tempi il turismo in molte città, dove è divenuto una monocoltura: si sono moltiplicati, soprattutto nei centri storici, ristoranti, pizzerie, paninerie, in contemporanea con B&B e case vacanze, con l’effetto negativo, non solo di allontanare le identità locali, ma anche di favorire la diffusione di lavoro non tutelato. Nel saggio di Gennaro Avallone, Marianna Ragone si evidenziano
“tre aspetti, con l’obiettivo di costruire città maggiormente inclusive e con minori disuguaglianze. In primo luogo, risulta necessario affrontare le condizioni di vita di milioni di lavoratori del turismo, regolari e non, con interventi immediati a livello statale oltre che regionale. In secondo luogo, bisognerà pensare non solo a come salvare una parte del turismo che le città hanno attirato negli ultimi anni, ma anche a come diversificare le economie urbane locali, andando verso l’implementazione della città come bene comune da curare e non più bene privato da mettere a valore. In terzo luogo, in merito al ritorno della disponibilità di alloggi nelle città bisognerà ristrutturare il mercato immobiliare, orientandolo maggiormente verso i bisogni abitativi della popolazione locale e meno verso il consumo turistico” (p. 151).
Infine si dovranno ripensare nel breve periodo le strategie turistiche, individuando molti piccoli luoghi, isolabili ma non isolati che potranno diventare la regola per ridurre la densità fisica.
Come si vede, dalle esemplificazioni riportate, diversi sono i pregi di questa pubblicazione: innanzitutto si tratta di un lavoro collettivo, un dato di per sé rilevante in un mondo troppo segnato dal’individualismo e dalla competizione, anche nell’ambito della cultura e della ricerca. In secondo luogo, l’ispirazione che accomuna tutti i saggi sembra essere quella che dal trauma del Covid-19 non si esce tornando alla situazione di prima, come se nulla fosse accaduto, ma che invece si impone una trasformazione profonda del nostro modo di stare sul Pianeta e di vivere le città e i territori, nel segno di una pacificazione con la natura e tra noi umani. In terzo luogo, i suggerimenti avanzati, in generale, hanno il carattere della saggezza, della concretezza e della fattibilità e potrebbero rappresentare una grande risorsa anche per il rinnovamento dell’agire politico a tutti i livelli, disintossicandolo dal vuoto chiacchiericcio, spesso inutilmente sguaiato, e da un eccesso di litigiosità, corroborandolo, invece, di efficacia operativa e di attenzione al bene comune.
Sappiamo che l’obiettivo di una piena pacificazione con la natura e tra tutti gli esseri umani che vivono il Pianeta è un compito assai arduo e impegnativo: richiede una nuova cultura e un nuovo senso comune in gran parte da costruire; deve invertire la formidabile inerzia dell’attuale megamacchina produttiva e di consumo; infine deve contrastare imponenti interessi economici e di potere che questa megamacchina alimenta. Tuttavia, ogni passo che possiamo compiere nella giusta direzione è doveroso e in questo cammino il Manifesto dei sociologi e delle sociologhe dell’ambiente e del territorio appare di grande utilità.
Marino Ruzzenenti
N.d.C. - Storico, docente e attivista ambientale, Marino Ruzzenenti si occupa di tematiche ambientali e sociali. È membro del comitato di redazione di "altroNovecento. Ambiente, tecnica e società".
Tra i suoi libri: con P. Costa e G. Nebbia, A come ambiente: corso di educazione ambientale (La Nuova Italia, 1998); Un secolo di cloro e... PCB: storia delle industrie Caffaro di Brescia (Jaca Book, 2001); L'Italia sotto i rifiuti: Brescia: un monito per la penisola (Jaca Book, 2004); L'autarchia verde: un involontario laboratorio della green economy (Jaca Book, 2011); Shoah. Le colpe degli italiani (Manifestolibri, 2011); (a cura di) con P. P. Poggio, Il caso italiano: industria, chimica e ambiente (Jaca Book, 2012); Le donne della Caselo (Associazione culturale presenARTsi, 2013); Rifiuti. Il business dei rifiuti a Brescia (Liberedizioni, 2015); Preghiamo anche per i perfidi Giudei. L'antisemitismo cattolico e la Shoah (DeriveApprodi, 2018); con P. P. Poggio, Primavera ecologica mon amour. Industria e ambiente cinquant'anni dopo (Jaca Book, 2020).
Per Città Bene Comune ha scritto: Riprogettare le città a 40 anni da Seveso (25 novembre 2016); I numeri della criminalità ambientale (19 gennaio 2018).
N.B. I grassetti nel testo sono nostri.
R.R. © RIPRODUZIONE RISERVATA 29 GENNAIO 2021 |