Nell’ambito delle varie iniziative svolte nell’ultimo anno dalla Casa della Cultura sul tema della pandemia, il 30 marzo scorso si è tenuto un incontro (in diretta streaming, ora fruibile su YouTube) con l’onorevole Rosy Bindi. Nella sua molteplice attività di deputato in ben sei legislature, vicepresidente della Camera, presidente della Commissione parlamentare antimafia, eurodeputato, Ministro della Sanità dal 1996 al 2000 e Ministro per le politiche della famiglia dal 2006 al 2008, Rosy Bindi si è spesso, e con competenza, occupata di questioni sanitarie.
Nel corso dell’incontro, al di là della passione, della schiettezza delle posizioni, della lucidità nell’argomentarle che ha, come sempre, dimostrato, alcune sue risposte mi sono sembrate particolarmente efficaci, e proverò qui a riassumerle.
Alla domanda sulla attualità o meno della Riforma sanitaria (la 833 del 1978), ha risposto con nettezza: “Di quella legge mi terrei ancora tutto, dai principi, all'universalismo, alla gratuità delle prestazioni, all'unitarietà dei servizi. È un bene per il Paese, e sarebbe un grave errore disperderla, proprio alla luce della pandemia”
Alla domanda sul perché la Lombardia se ne è distaccata, con la legge 31 del 1997, voluta da Formigoni, Rosy Bindi ha ricordato le battaglie da lei condotte contro quella “controriforma” negli anni in cui fu ministro sia nel governo Prodi che nel successivo governo D’Alema: “Una battaglia che andava condotta fino in fondo, ricorrendo alla corte costituzionale. Ma le mediazioni della politica allora non vollero, e fu un errore”
E quali le conseguenze di quella legge? “La centralità data all’ospedale, la separazione tra soggetto programmatore e soggetto erogatore, l’eccessivo ruolo concesso al privato, l’indebolimento progressivo del territorio e della prevenzione, l’incremento della spesa che portò presto alla imposizione dei "tetti" alle prestazioni sanitarie. Una propensione eccessiva alla aziendalizzazione e un venir meno del rapporto di prossimità con il malato: la libertà di scelta è solo uno specchietto per le allodole se non si garantisce l’appropriatezza delle cure e non si accompagna il malato nelle sue scelte”
E le correzioni introdotte da Maroni (la legge 23 del 2015)? “Quella riforma – partita come sperimentazione e, sulla carta, da buoni propositi - non ha fatto che peggiorare la situazione. La creazione delle ASST non ha fatto che spostare il baricentro ancor più sugli ospedali; l'equivoco delle ATS non ha fatto che aumentare il centralismo regionale. Sono di fatto spariti i distretti e anche la prevenzione è stata indebolita. Le conseguenze si sono viste tutte nell’attuale pandemia”
E come ne usciamo? “Ne usciamo se, in Lombardia, si saprà non solo correggere la legge 23, ma aggredire gli aspetti sbagliati della 31. Occorre però una progettualità politica che non si riduca ai 30 giorni delle elezioni, ma che parta da lontano e sappia rimettere in discussione i principi (a cominciare dal rapporto pubblico privato), l’organizzazione (ripartendo dal distretto e dalla prevenzione) i criteri di governance (che non possono vedere livelli decisionali frammentati)”
E a livello nazionale? “Anche a livello nazionale c’è molto da fare. Dobbiamo saper leggere quello che non ha funzionato durante la pandemia, per poterlo correggere: è una occasione da non sprecare. Possiamo permetterci ventun servizi regionali? Non era quello che la riforma del titolo V prevedeva: ci voleva e ci vuole un forte coordinamento per impedire le derive localiste che abbiamo visto tra un governatore e l’altro. La salute è un bene da garantire a tutti nello stesso modo e con le stesse opportunità”
E cosa sarà necessario? “Risorse adeguate, innanzitutto. Oggi l’Europa ci ha dato le risorse per programmare: ma non dobbiamo solo pensare alle opere murarie e alle nuove tecnologie; occorre investire anche su personale, ricerca e formazione, aumentando la dotazione del fondo sanitario. Occorre fare un piano di lunga lena, che ancora non si è visto, forse perché l’emergenza ha convogliato tutte le energie. Ma se non ci sarà la forza e l’intelligenza per intervenire, vedo un rischio concreto per il Servizio Sanitario Nazionale: il suo indebolimento se non addirittura il suo snaturamento”
E quanto alle risorse umane? “C’è bisogno di nuovi medici, formati anche in maniera diversa, soprattutto per quanto riguarda il territorio: i medici di famiglia non possono essere considerati di serie B rispetto agli ospedalieri, devono lavorare in èquipe e, forse, essere dipendenti del SSN, superando i limiti attuali delle convenzioni. E poi ci vogliono più infermieri, per promuovere la figura dell’infermiere di comunità, che possa lavorare di più e con più autonomia nel territorio. Mi sta a cuore l’assistenza degli anziani che va ripensata, uscendo dal binomio RSA-badanti, e creando una modalità intermedia di assistenza domiciliare integrata che allontani il meno possibile i nostri anziani dalla propria abitazione”
Solo fantasie? “No, impegno e tenacia. Non dobbiamo abbassare la guardia se vogliamo dare un futuro al SSN”.
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Pino Landonio Nato nel 1949, padre di due figli e nonno di 5 nipoti. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1973, e specializzato in Ematologia (1978) e in Oncologia (1986). Ha lavorato come ematologo e poi come oncologo all’Ospedale Niguarda, dal 1975 al 2006. Dal 2005 al 2010 è stato Consigliere Comunale a Milano. Dal 2011 collabora con l’Assessorato al Welfare del Comune di Milano e coordina, a Palazzo Marino, l’iniziativa “Area P” (incontri mensili di poesia). Ha pubblicato, per Ancora, tre raccolte di “Dialoghi immaginari” con poeti di tutti i tempi e paesi (2015, 2017 e 2019) e “Guarda il cielo”(30 racconti, 2016). Ha inoltre pubblicato "Modello Milano " (Laurana, 2019); "Modello Lombardia?" (Ornitorinco, 2020); "E la gente rimase a casa" (La mano, 2021). (ndr)