L’intervista concessa da Daniel Zamora alla rivista Ballast è stata recepita alternativamente come una coraggiosa operazione di profanazione nei confronti di una figura divenuta intoccabile o come uno scaltro maquillage di vecchi spunti critici pretestuosi finalizzato soprattutto a strategie di auto-promozione.
A noi, piuttosto, sembra che il giovane studioso belga ben esemplifichi una tendenza comune tanto nei dibattiti attorno al pensiero di Foucault quanto nella riflessione politica più generale, in particolar modo nell’epoca della perdita di un proprio senso comune da parte della sinistra europea, come qui evidenziato.
Dallo sfruttamento all’esclusione
La recente storicizzazione dell’opera del filosofo francese ha implicato una sua rilettura in chiave eminentemente filologica, segnando così il passaggio da un lavoro con a un lavoro sui testi e il pensiero di Foucault. Non che questa seconda modalità analitica sia di scarso valore, anzi; tuttavia, rischia di costituire una prospettiva limitante se comparata con il lavorio critico attraverso un nuovo sguardo sul mondo che tali opere hanno contribuito in buona misura a formare.
Anzitutto, va comunque dato atto a Zamora di porsi nei confronti di Foucault non nei termini dello svelamento di un’impostura intellettuale, bensì di ricollocazione su uno scacchiere politico – influenzato da istanze contemporanee – di una tradizione di pensiero e, di conseguenza, di riconfigurazione di un orizzonte filosofico di riferimento per la sinistra. Ciò non esime certo queste posizioni da numerose inesattezze: al di là di una critica puntuale ai singoli passaggi, già scandagliati in profondità tra gli altri da Colin Gordon (convocato dallo stesso Zamora) può essere proficuo ripensare la contrapposizione tra sfruttamento (exploitation) ed esclusione (exclusion) che, nella lettura dello studioso belga, ne riproduce un’altra tra generale e particolare riflessa, classicamente, nella dialettica capitale-lavoro.
La visione di Zamora sembra infatti basarsi su un duplice presupposto: da un lato l’invariabilità dell’estensione “fisica” dello spazio sociale, che non conosce forme di alterazione consistente causate da flussi esterni, dall’altro una crescita economica lineare e progressiva, in grado tanto di assorbire senza resti la forza lavoro quanto di muoversi in simbiosi con la domanda.
Ad esempio il passaggio sulla socializzazione dei redditi degli operai per costituire una cassa di mutuo soccorso, posta dal giovane studioso a fondamento dei sistemi di protezione sociale, non tiene conto dell’incremento odierno della popolazione inattiva non autoctona. Così come non emergono le relazioni asimmetriche che si vengono necessariamente a instaurare all’interno di uno spazio comunitario eterogeneo, oltre alla dissoluzione dei confini nazionali da parte delle strategie di produzione contemporanee che mettono in cortocircuito la coppia interno-esterno.
La figura del migrante è un esempio paradigmatico di questo spostamento: elemento estraneo a una comunità attraverso la quale intende transitare e non necessariamente fermarsi, conosce lo sfruttamento di un’esistenza senza tutele né diritti solo come conseguenza di un’esclusione data da un non più (la situazione d’origine) e un non ancora (il riconoscimento della nuova comunità) che però è continuamente posta in tensione dalla possibilità, se non proprio da un desiderio, di ritorno in patria.
Secondo una logica analoga, e ancor più in profondità, sembra funzionare il precariato cognitivo e autonomo, che paradossalmente non si fonda sullo sfruttamento del lavoro (la società sembra infatti poter fare a meno di tali figure) e la cui preoccupazione principale è l’affermazione di una legittimità sociale, negata attraverso la svalutazione di un’utilità per la comunità.
Se il rapporto tra capitale e lavoro, come dimostra Thomas Piketty, è oggi tornato a livelli pre-novecenteschi, dunque in sintonia con le analisi di Marx, ciò è vero solo a patto di osservare i fenomeni su scala globale. Ma questo è proprio l’opposto del progetto foucauldiano, indirizzato a una microfisica capace di mettere a fuoco le differenze come tattiche locali di resistenza, all’interno di un ripensamento del rapporto tra soggetto e società dettato delle esperienze novecentesche dello stato totalitario che sovverte i presupposti che si proponeva di garantire – la libertà individuale come condizione di non sfruttamento.
Lo spazio aperto dalla ricerca di Michel Foucault ci pare essenziale nel momento in cui indica come il rapporto capitale/lavoro e in generale i rapporti di forza – non solo economici – debbano essere studiati in senso microstorico e locale, laddove le forme di resistenza acquisiscono concretezza e consentono di metterci al riparo dalla generalizzazione e dalla macro-analisi, rifuggendo d’altra parte le seduzioni di un pensiero cosiddetto debole in cui, talvolta, si riconosce chiaramente solo una scarsa volontà di posizionamento politico.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 27 AGOSTO 2015 |