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La ricerca scientifica deve mirare a essere innovativa, no? In Europa, se vuole beneficiare di fondi, deve poter dimostrare che lo sarà in forme accertabili in base alle griglie usate dai valutatori dei progetti, e che l’innovazione avrà effetti misurabili in termini di “impatto sociale”. Verosimilmente, tra non molto, la ricerca dovrà essere non solo innovativa, ma anche e soprattutto “dirompente”. Vediamo perché.
Elaborata da Clayton M. Christensen, docente di economia aziendale della Harvard Business School, l’idea della disruptive innovation, l’innovazione dirompente, è stata concepita più che altro come base di una teoria del fallimento. Christensen prova cioè a spiegare come mai, paradossalmente, aziende leader di un qualche settore siano fallite benché i loro manager abbiano sempre agito in modo razionale e oculato. Come rivela lo stesso sottotitolo originale (ma non quello della traduzione italiana) del suo best-seller, Il paradosso dell’innovatore. Quando le nuove tecnologie fanno fallire le grandi aziende, la causa di questi fallimenti sarebbe l’introduzione di “tecnologie dirompenti”.
Il buon manager, cioè, concentrato sul reale orientamento della domanda nel suo mercato di riferimento, tende inizialmente a non tener conto di tecnologie che offrono sì funzionalità nuove, ma apparentemente secondarie e per prodotti meno redditizi dello standard. In buona sostanza, all’inizio il gioco dell’innovazione non sembra valere la candela. Ma poi la velocità dell’impatto di quel nuovo “bisogno tecnologico” è fatalmente fulminea. La tecnologia attuale diventa di colpo obsoleta, si apre un mercato del tutto nuovo, e gli attori principali di quello vecchio si ritrovano completamente spiazzati.
La teoria del’innovazione dirompente è stata accolta da un consenso pressoché unanime, e non sono tardate le applicazioni predittive, anche sotto forma di consulenza dedicata. Tra le voci critiche, comunque isolate, spicca quella di Jill Lepore, che in un intervento abbastanza recente sul New Yorker mette in discussione la fondatezza e il rigore dell’analisi proposta da Christensen. Oltre a sollevare dubbi sul rigore scientifico del metodo dell’economista di Harvard, Lepore, che nella stessa università insegna storia americana, rileva anche come l’idea della disruptive innovation sia esplicitamente apparentata a una teoria della vita ispirata alla selezione naturale. Come a dire – potremmo chiosare – che la diffusione di questo modello andrebbe in qualche modo incontro a una visione condivisa del mondo ispirata ai canoni del darwinismo sociale.
Questioni non indifferenti, se si tiene conto del fatto che l’innovazione dirompente tende a diventare, e a diventarlo proprio in quanto mantra chiave del business, una sorta di “teoria del tutto”. Lo stesso Christensen ha provato a declinarla nel campo delle politiche pubbliche in materie non certo da poco come la formazione (Disrupting class del 2008) e la sanità (The Innovator’s Prescription del 2009) – una strategia editoriale da sequel tutt’altro che dirompente, a voler esser cattivi, ma immagino che il nostro non se ne dia per inteso.
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© RIPRODUZIONE RISERVATA 04 SETTEMBRE 2015 |