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La recente approvazione in Consiglio Regionale Lombardo della legge n. 96, che modifica il Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità (legge n. 33 del 2009) merita l’aforisma sopra indicato (è peggio la toppa del buco…). Non solo perché non modifica la sostanza di leggi come la Maroni (legge n. 23 del 2015), e tantomeno la Formigoni (legge n. 31 del 1997), ma perché l’attuale maquillage rischia di essere solo più confusionario. La prima cosa da dire è: quanti se ne sono accorti? Eppure quella legge dovrebbe avere la sua importanza nel correggere le distorsioni di un assetto che, soprattutto nella prima fase della pandemia, ha mostrato tutta la debolezza della sanità lombarda (ricordate i 34 mila morti della sola prima ondata?).
Ma, per parafrasare il Gattopardo, tutto cambia perché nulla, di fatto, cambi. Permangono così le ASST come le ATS (due degli acronimi meno riusciti degli ultimi anni), con una visione dunque ospedalo-centrica della sanità. Si dice di voler costruire un numero molto consistente di Case di Comunità (una ogni 40-50 mila abitanti: se ne prevedono ben 1350, da realizzarsi con i fondi drl PNRR), dove dovrebbero afferire 30-35 medici di medicina generale, 8-12 infermieri di comunità, 5-8 unità di personale di supporto (amministrativo, tecnico e sanitario). Ma, la prima domanda che sorge legittima, con quali risorse umane? Passi per le unità di supporto, ma dove sono i medici e gli infermieri oggi disponibili? Non è forse vero che oggi non si riesce neppure a coprire gli ambiti carenti della medicina di base, e ogni giorno più medici (e infermieri) si pensionano senza poter essere sostituiti in tempi brevi? E siamo sicuri che la maggioranza degli attuali medici di base saranno disponibili a lasciare i loro studi per lavorare entro le Case di Cominità? O si pensa che il miracolo lo possano fare i privati, ammessi (e non è un buon segno) a presidiare anche la sanità territoriale dopo aver lucrato su quella ospedaliera, reclutando magari squadre di infermieri e medici stranieri?
Lo stesso si può dire degli “ospedali di comunità” (uno ogni 50-100 mila abitanti: per un totale di 400, sempre con fondi del PNRR). Avranno un organico simile a quello delle RSA, con molti più infermieri che medici: anche questi, c’è da prevederlo, vedranno uno spiegamento prevalente del privato rispetto al pubblico. Un investimento “murario” di tutto rispetto. Ma dove si troveranno gli operatori necessari dopo decennni di numeri chiusi nelle università come nelle scuole parauniversitarie, e di contingentamenti forzati della formazione. E anche cambiando oggi registro, quanti anni saranno necessari per completare gli organici?
Poi c’è il grande buco nero della prevenzione. Che, da fiore all’occhiello della regione Lombardia negli anni 80 e 90 del secolo scorso, è stata via via impoverita, smembrata, snaturata, con i risultati che si sono visti, appunto, durante la pandemia, e per la quale il provvedimento assunto dalla Regione spende ben poche parole, prevedendo genericamente un dipartimento ogni 500 mila abitanti, ma mantenendo la separazione in atto tra competenze delle ASST e quelle dell’ATS.
Che fare? Che cosa augurarci?
Per prima cosa che il Governo e il Parlamento non accettino supinamente la Legge lombarda ma la eccepiscano, in maniera sostanziale. Poi che in occasione delle prossime elezioni regionali le forze che si candidano a un nuovo governo della Regione sappiamo proporre un provvedimento organico di riforma che riallinei la sanità lombarda ai principi dell’unica vera Riforma (la 833 del 1978).
Infine che i Sindaci dei comuni più importanti alzino finalmente la voce e dicano la loro, per rivendicarte un ruolo che proprio quella legge assegnava loro in modo determinante e che le norme successive, compresa l’attuale, hanno progressivamente reso nullo nella gestione della Sanità.
Devo queste osservazioni al “Movimento per la Difesa del Servizio Sanitario Nazionale”. Proprio la pandemia ha dimostrato quanto un SSN sia oggi indispensabile, superando le incongruenze di 20 diversi servizi regionali.
Pino Landonio Nato nel 1949, padre di due figli e nonno di 5 nipoti. Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1973, e specializzato in Ematologia (1978) e in Oncologia (1986). Ha lavorato come ematologo e poi come oncologo all’Ospedale Niguarda, dal 1975 al 2006. Dal 2005 al 2010 è stato Consigliere Comunale a Milano. Dal 2011 collabora con l’Assessorato al Welfare del Comune di Milano e coordina, a Palazzo Marino, l’iniziativa “Area P” (incontri mensili di poesia). Ha pubblicato, per Ancora, tre raccolte di “Dialoghi immaginari” con poeti di tutti i tempi e paesi (2015, 2017 e 2019) e “Guarda il cielo”(30 racconti, 2016). Ha inoltre pubblicato "Modello Milano " (Laurana, 2019); "Modello Lombardia?" (Ornitorinco, 2020); "E la gente rimase a casa" (La mano, 2021). (ndr) © RIPRODUZIONE RISERVATA 17 DICEMBRE 2021 |