Nell’istante in cui si cessa di credere in lei la filosofia sparisce
1. Spiegazione del titolo
Perché alla domanda “Che cosa ne pensi della filosofia” ho voluto dare questa risposta: "nell’istante in cui si cessa di credere in lei, la filosofia sparisce”? Perché, più spesso di quanto si pensi, sono gli stessi filosofi non a decretare la fine della filosofia, ma a parlarne in modi che, pur patendo dal presupposto della sua necessaria presenza e incidenza e del suo senso, di fatto ne sanciscono l’irrilevanza e la scomparsa.
Per chiarire questo che può apparire un paradosso mi riferisco subito alle ragioni che mi hanno spinto a scegliere questo titolo. Le ho tratte da La ricerca di Averroè, uno straordinario racconto di Jorge Luis Borges ispirato da un passaggio di Renan nel suo libro sul grande filosofo Averroè, dove dice che egli, che pure era uomo assai intelligente e colto, ignorava il teatro e per questo si equivoca, e, traducendo Aristotele, commette l’errore di definire la commedia come satira e la tragedia come elogio. Ecco il passaggio cruciale narrazione del grande scrittore argentino, che descrive Averroè alle prese “con l’opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: il commento di Aristotele. Questo greco, fonte di tutta la filosofia, era stato dato agli uomini affinché insegnasse loro tutto ciò che si può conoscere; interpretare i suoi libri, come gli ulema interpretano il Corano, era l’arduo proposito di Averroè. Poche cose registrerà la storia più belle e più poetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo dal quale lo separavano quattordici secoli. Alle difficoltà intrinseche dobbiamo aggiungere che Averroè, non conoscendo il siriaco e il greco, lavorava sulla traduzione di una traduzione. Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate anni prima, nel terzo libro della Rettorica: nessuno, nell’ambito dell’Islam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire. Invano aveva sfogliato le pagine di Alessandro di Afrodisia, invano compulsato le versioni del nestoriano Hunain Ibn-Ishaq e di Abn-Bashar Mata. Quelle due parole arcane pullulavano nel testo della Poetica: impossibile evitarle. Averroè depose la penna. Si disse (senza troppa fiducia) che quel che cerchiamo suole trovarsi vicino, mise da parte il manoscritto del Tahafut e si diresse allo scaffale dove si allineavano, copiati dai calligrafi persiani, i molti volumi del Mohkam del cieco Abensida. Non si poteva supporre che non li avesse consultati, ma lo tentò l’ozioso piacere di sfogliare le loro pagine. Da tale distrazione lo distrasse una strana melodia. Guardò attraverso l’inferriata del balcone: giù, nel piccolo patio, giocavano alcuni ragazzi seminudi. Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva evidentemente da muezzin; con gli occhi chiusi, salmodiava: “Non c’è altro dio che Allah”. Quello che lo sosteneva, immobile, faceva da minareto; un terzo, inginocchiato nella polvere, rappresentava i fedeli. Il giuoco durò poco; tutti volevano essere il muezzin, nessuno i fedeli e il minareto. Averroè li udì litigare in dialetto volgare, cioè nel primitivo spagnolo della plebe musulmana della penisola”.
Impegnato nella caccia del significato di due vocaboli – tragedia e commedia – di cui nessuno, nel mondo islamico, ha la benché minima cognizione Averroè lo cerca invano nei libri della sua ricca biblioteca, già ampiamente e lungamente consultati senza successo, peraltro. Tutto preso com’è da questa frenetica consultazione per scovare, nel sapere codificato e trasmesso, una definizione, una spiegazione in termini generali, trascura gli indizi che la vita gli mette davanti agli occhi e dai quali avrebbe tratto facilmente la risposta al problema che lo angustiava: i bambini in cortile che, giocando a interpretare il muezzin, facevano del teatro!
Questa però, come Borges stesso evidenzia nella conclusione del suo racconto, non è la storia di una traduzione impossibile e sbagliata di un pensatore arabo di cui egli sa poco o nulla. È la storia dello stesso Borges, è la vicenda perenne del pensiero: “Sentii che Averroè, che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos’è un teatro, non era più assurdo di me, che volevo immaginare Averroè senz’altro materiale che qualche notizia tratta da Renan, Lane e Asìn Palacios. Sentii, giunto all’ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell’uomo che io ero mentre scrivevo, e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell’uomo, e che, per essere quell’uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e così all’infinito. (Nell’istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce)”.
2. Le metafore devianti che fanno sparire la filosofia
La ricerca di Averroé di Borges, almeno così mi piace interpretare questo racconto, è la storia della conoscenza che svanisce, nel momento in cui si cessa di credere in lei, perché la si presenta in modo fuorviante, la si confina negli scaffali della biblioteca, in cui il filosofo arabo cerca affannosamente e senza successo la risposta alle sue domande di senso, e non si va alla ricerca di ciò che i libri, da soli, non ci possono dire. Oppure si fa uso di metafore, che sono uno strumento fantastico per spiegare argomenti complessi in parole semplici e familiari, senza però rendersi conto che questa semplicità può diventare pericolosa e portarci fuori strada qualora essa venga trattata come una spiegazione.
Per entrare nel vivo della questione prendo avvio dalla riproposizione dell’idea guida del pensiero del mio maestro Ludovico Geymonat, che a un tiro di schioppo da qui, in un’aula della Statale di Milano, ci invitava a intraprendere un percorso di ricerca volto non tanto a stabilire un’alleanza più o meno duratura tra la filosofia e la scienza, quanto a “cercare la filosofia nelle stesse pieghe della scienza”.
Molti considerano questo invito una resa della filosofia alla scienza, o quanto meno la sanzione della sua subordinazione a una logica estranea, con conseguente condanna all’irrilevanza. Nel suo profondo intervento in questo stesso ciclo, intitolato “Il destino della filosofia”, Giacomo Marramao, tra il serio e il faceto, ha proposto una metafora che interpreta bene questo sentire. Ha paragonato i filosofi della scienza a quei saccenti giornalisti sportivi i quali, comodamente seduti nelle accoglienti tribune di uno stadio, hanno la pretesa di valutare e giudicare ciò che fanno i calciatori in campo e gli schemi studiati dagli allenatori per cercare di vincere la partita: la stessa cosa che, fuor di metafora, si arrogano il diritto di fare gli epistemologi nei confronti di chi è impegnato nella ricerca e la pratica con fatica ogni giorno. Che senso ha, dunque, cercare la filosofia nelle pieghe della scienza semplicemente assistendo a un gioco di cui si conoscono le regole solo in linea di principio e a livello teorico, senza sporcarsi le mani (i piedi in questo caso) e scendere operativamente in campo?
Nello stesso intervento Marramao ha citato Giorgio Parisi e ha giustamente celebrato il Nobel per la fisica che gli era stato appena assegnato con pieno merito. Ebbene, proprio a Parsisi e alle sue ricerche che gli sono valse questo prestigioso riconoscimento intendo riferirmi per mostrare quanto questa metafora sia non solo ingenerosa, ma devastante per le sorti di quella stessa filosofia di cui si vorrebbe rivendicare la dignità e l’utilità.
Giorgio Parisi ha studiato, ricavandone risultati di eccezionale rilievo, una particolare tipologia di sistemi complessi, i “vetri di spin”. Parlando di questa sua ricerca egli sottolinea come una comprensione profonda del comportamento di questi sistemi sarebbe estremamente importante. In questi ultimi anni l’attività si è concentrata su sistemi composti da un gran numero di elementi di tipo diverso che interagiscono fra di loro secondo leggi più o meno complicate in cui sono presenti un gran numero di circuiti di controreazione, che stabilizzano il comportamento collettivo. In questi casi, un punto di vista riduzionista tradizionale sembrerebbe non portare da nessuna parte. Un punto di vista globale, in cui si trascuri la natura delle interazioni fra i costituenti, sembra però anch’esso inutile in quanto la natura dei costituenti è cruciale per determinare il comportamento globale. Quello che contraddistingue sistemi di questo genere è dunque il fatto che il loro comportamento macroscopico dipende, oltre che dalle caratteristiche microscopiche dei singoli elementi che lo compongono, anche dal tipo di interazioni tra di essi su una scala mesoscopica. La ricerca che li riguarda si deve per questo prefiggere lo scopo di comprendere la relazione tra le proprietà fisiche alle diverse scale di lunghezza, le dinamiche che determinano le proprietà collettive nonché la capacità di tali sistemi di auto-organizzarsi per ottimizzare il loro comportamento. Si tratta pertanto di costruire modelli che siano sia funzionali sia strutturali, sia macroscopici sia microscopici, e che in un certo senso superino la contrapposizione tra queste coppie opposizionali. Sono strutturali perché non trascurano la composizione interna dell’organizzazione e la natura dei suoi costituenti, e sono funzionali perché consentono, in certi casi e per determinati aspetti, di non prendere in considerazione il livello microscopico-implementativo per concentrarsi sull’organizzazione nel suo complesso e sulle strutture che la caratterizzano. La teoria dei sistemi complessi da costruire deve dunque partire da un punto di vista intermedio: si parte sempre dal comportamento dei singoli costituenti, come in un approccio riduzionista, ma con in più l’idea che i dettagli minuti della proprietà dei componenti sono irrilevanti e che il comportamento collettivo non cambia se si cambiano di poco le leggi che regolano la condotta dei componenti. L’ideale sarebbe di classificare i tipi di comportamenti collettivi e di far vedere come al cambiare delle componenti un sistema rientri in questa classificazione. Proprio per questo possiamo chiamare un tale approccio funzionalismo mesoscopico.